Da più di duemila gli italiani sono stati educati al concetto di repubblica sin dall’infanzia. Alla mia generazione venne proposta da bambini come il periodo più virtuoso della storia greca e romana, più avanti tifammo per i comuni e per le Repubbliche marinare contro lo strapotere degli imperi, ci commuovemmo ascoltando i resoconti della Repubblica di Mazzini, Saffi e Armellini e il racconto della straziante agonia di Anita Garibaldi nella pineta di Ravenna.
Ciò, tuttavia, non ha impedito che nella nostra storia l’idea regia, il miraggio dell’impero coloniale, il sovranismo ante litteram del primo dopoguerra e la tragica avventura del fascismo incontrassero il favore popolare e richiamassero folle oceaniche che si riconoscevano nell’istituto monarchico, seppur mediato da un Duce da operetta, ma non per questo meno nefasto. Anche il 2 giugno del 1946 il referendum rivelò quanto fosse consistente l’attaccamento a Casa Savoia, nonostante i crimini di cui si era macchiata e forte, invece, il sospetto verso la democrazia parlamentare nella forma repubblicana.
Mai come quest’anno abbiamo avuto tempo e modo per riflettere sulla nostra società, sulle molteplici contraddizioni che la segnano, sui sentimenti opposti circa la visione del potere, della rappresentanza, dei pesi e dei bilanciamenti che impediscono a chicchessia di avere e di esercitare un ruolo assoluto ed incontrollato.
Nella generale decadenza della politica, rivelatasi in modo impietoso durante la crisi sanitaria ed economica, il sentimento popolare ha avuto come riferimento morale costante il Presidente della Repubblica, considerandolo, anche a motivo dell’altissima statura morale, quasi come un sovrano benevolo in grado di arginare il degrado di molti corpi dello Stato e costringendolo, talvolta, ad andare oltre alla semplice moral suasion per rivolgere giusti e sentiti richiami al Parlamento, al Governo e alle spinte centrifughe tentate da molti Presidenti di regione, pomposamente ed illegittimamente autodefinitosi “Governatori”, scimmiottando gli Stati Uniti dove tale carica ha precisi compiti e ruoli tipici del pieno assetto federale di quel Paese.
L’Italia immaginata dai Padri costituenti era molto diversa da quella che abbiamo oggi sotto gli occhi. La concessione degli statuti speciali, il regionalismo spinto, la riforma del Titolo quinto della Costituzione, pur giudicati nelle diverse fasi storiche in cui maturarono, hanno indubbiamente indebolito l’unità repubblicana e causato, per l’eterogenesi dei fini, la frammentazione sociale ed economica in un Paese rimasto a due o tre velocità, con differenze spesso incolmabili che in questi giorni scoprono il volto di antichi livori, di storiche contrapposizioni, di atavici risentimenti, di egoismi territoriali.
E’ triste constatare che la drammatica esperienza della pandemia non ha unito l’Italia, ad eccezione di lodevoli episodi di solidarietà e di effimeri gesti di esaltazione dai balconi di molte città. Come spesso accade, attenuatasi l’emergenza sanitaria, è iniziata la guerra tra poveri su cui soffiano le forze meno culturalmente attrezzate della politica, a caccia di consensi a qualunque costo.
L’analfabetismo di ritorno, la televisione di massa, i social network, i grandi giornali percepiti come proprietà di gruppi di potere e pertanto non riconosciuti come limpido specchio della pubblica opinione, hanno fatto arretrare la tensione morale dei valori repubblicani, hanno archiviato anche nell’istruzione il ricordo fecondo dei grandi della nostra storia contemporanea, della loro lungimiranza, della profondità dei loro scritti e del senso del loro martirio.
Nel tritacarne quotidiano tutto sembra essere diventato opinabile, di parte, mosso da opachi interessi, spinto da finalità nemmeno più partitiche ma squallidamente personalistiche e, spesso, tristemente economiche.
E’ evidente come non basti rivolgere lo sguardo alle migliori pagine del passato. Troppo mutate sono la società italiana, la collocazione nell’Unione Europea, il clima e l’assetto internazionale, la soglia dei bisogni e dei desideri dei singoli, l’identità stessa, sempre più plurale e multiculturale, com’è ovvio che sia in ogni comunità globalizzata.
Anche il sentimento religioso, che a lungo ha tenuto unito il Paese, conosce inevitabili forme di laicità, di fede priva di pratica sacramentale, di curiose forme di “fai da te” e di pericolose strumentalizzazioni da parte di soggettualità politiche, fino a poco tempo fa assolutamente indifferenti, se non ostili, alla dimensione spirituale propria e degli italiani.
Nello scenario delineato e al netto della tanta retorica che verrà distribuita a piene mani in questo silenzioso anniversario, è d’obbligo riflettere sulla necessità di tornare a scattare una nuova fotografia della società italiana, chiamando ad analizzarla le migliori menti del Paese, le “riserve della Repubblica”, se ne sono rimaste, unitamente ad una seria rappresentanza proporzionale dei cittadini che ogni giorno vi si rispecchiano. La nostra Costituzione celebrerà presto l’ottantesimo anniversario ed il migliore regalo che possiamo farle è quello di riscriverla, serbando intatta la gratitudine per ciò che essa ha generato sino ad un certo momento della storia repubblicana, ma avendo il coraggio di riconoscerne i limiti nell’ attuazione materiale. Se ciò non dovesse accadere potremmo correre il rischio di recarle la più grande delle offese facendone un feticcio adorato ipocritamente e, con i fatti, deriso e ignorato. Ai nostri martiri di ieri e di oggi non piacerebbe.