Nei giorni scorsi alcune compagnie aeree hanno comunicato la volontà di aumentare le proprie tariffe a causa dei maggiori costi per rendere i propri voli più verdi. Ma davvero è così? Cosa non è stato detto?
La prima cosa che i media hanno dimenticato di dire è che, nell’ultimo periodo, i voli per il trasporto merci sono aumentati in modo impressionante. A confermarlo è lo studio appena pubblicato dal titolo Air Freight Operators Soar Toward Climate Change June 2024 The Shocking COVID Air Freight Surge That Won’t Go Away (Gli operatori del trasporto aereo volano verso il cambiamento climatico – La scioccante impennata del trasporto aereo di merci dovuto al COVID non andrà via). Con conseguenze che è facile immaginare per le emissioni di CO2. Dal 2019 al 2023 le emissioni di gas serra del trasporto aereo di merci sono aumentate del 25%. Il settore ha avuto un’impennata legata alle aspettative degli acquirenti di consegne rapide e al cambiamento dell’economia post-pandemia, affermano i ricercatori. Nel 2023, gli operatori del trasporto aereo di merci hanno operato circa 300.000 voli in più rispetto al 2019, con un aumento del volume dei voli di quasi il 30%. Inutile dire che i maggiori responsabili sono i paesi “sviluppati”. A cominciare dagli Stati Uniti d’America che da soli rappresentano oltre il 40% delle emissioni globali di trasporto aereo di merci, secondo il rapporto del gruppo di campagna Stand.earth. Una situazione che Devyani Singh, uno degli autori dello studio, ha descritto come “una nuova minaccia per il clima e la salute umana”. Singh ha esortato le compagnie di trasporto aereo non a cambiare combustibili ma a “porre fine alla loro dipendenza dal trasporto aereo di merci e spostare le spedizioni di merci verso modalità di trasporto a basse emissioni di carbonio come il trasporto marittimo o ferroviario”. Si stima che il trasporto aereo produca 80 volte più carbonio rispetto alla spedizione via mare o su camion. Questo lo rende uno dei metodi di trasporto a più alta intensità di carbonio.
Ma non basta. Nei giorni scorsi si è parlato del ricorso a combustibili “naturali” (dimenticando che anche il petrolio lo è) e del ricorso ai biocarburanti. Quello che non è stato detto è come questi “bio” carburanti sono prodotti. Buona parte di questi combustibili sono ricavati da scarti animali. Ma questa è una soluzione tutt’altro che sostenibile. A confermarlo il rapporto “Pigs do fly! pubblicato da Transport & Environmente (T&E). Secondo i ricercatori di T&E, “per un volo da Parigi a New York potrebbero servire in futuro fino a 8.800 maiali morti”. Sarebbe questa la quantità di suini necessaria per ricavare i grassi animali con cui produrre il carburante utile per una tratta aerea come quella, nel caso di un volo alimentato al 100% da biodiesel. I cosiddetti Sustainable Aviation Fuels (SAF) potrebbero diventare la nuova moda come “carburanti sostenibili per l’aviazione” (anche per una missione del Papa, la compagnia aerea su cui aveva viaggiato si vantò di aver volato a emissioni zero). Quello che nessuno dice è che “il crescente uso di grassi animali per alimentare il trasporto aereo e su strada, in Europa, diverrà insostenibile”.
Finora, i grassi animali sono stati utilizzati soprattutto negli alimenti per animali domestici e nell’industria oleochimica (ad esempio nei saponi, cosmetici). Da qualche anno si sta diffondendo sempre di più l’utilizzo per produrre carburanti per auto e camion. Recentemente, diverse compagnie aeree hanno stretto grossi accordi con i fornitori di petrolio per i Sustainable Aviation Fuel (SAF). Le proiezioni della società di consulenza Stratas Advisors rivelano che i grassi animali dovrebbero essere la materia prima “di scarto” più comunemente utilizzata in questa tipologia di carburanti, insieme all’olio da cucina esausto. “Esiste già una notevole pressione sugli approvvigionamenti di grasso animale poiché il biodiesel a base di grassi animali è raddoppiato negli ultimi 10 anni ed è 40 volte superiore rispetto al 2006”, si legge nel rapporto “The fat of the land – The impact of biofuel demand on the European market for rendered animal fats” realizzato da Cerulogy per conto di T&E.
Anche l’Unione europea, bramosa di trovare una soluzione per ridurre il carbon footprint dei carburanti per il trasporto ha promosso questo sottoprodotto della zootecnia intensiva: “Si è partiti dalle automobili fino a estendere l’impiego di questi prodotti anche agli aerei e, in misura minore, alle navi”, ricordano i ricercatori di T&E. Ma anche la voglia sfrenata di far credere che il New Green Deal sta funzionando ha dei limiti. Il primo è la scarsità di questi residui dell’industria della carne. I grassi animali sono necessari (e difficilmente sostituibili) per l’industria del pet food, dei saponi e della cosmesi. Già oggi quasi la metà di tutti i grassi animali europei, attualmente, è destinata alla produzione di biodiesel. Da qui al 2030, il consumo di biocarburanti prodotti con questa materia prima potrebbe triplicare, innescando una forte competizione tra diversi settori, l’aumento dei costi e la necessità di approvvigionarsi da altri paesi. Ma l’aspetto più importante dal punto di vista ambientale è che l’industria dalla zootecnia intensiva è a sua volta insostenibile in termini di emissioni di gas serra.
In prospettiva, quindi i biocarburanti prodotti dai grassi animali potrebbero rivelarsi una soluzione insostenibile per le compagnie aeree ma anche per la decarbonizzazione dei trasporti.
C’è anche un altro rischio di cui i media non hanno parlato. I grassi animali di categoria 3 (di qualità superiore e impiegati solitamente nelle industrie a maggior valore aggiunto) vengano spesso “declassati” ed etichettati come di categoria 1 e 2 per poter essere utilizzati nel settore trasporti e beneficiare di un doppio incentivo economico (riconosciuto per legge a questo tipo di addizione “rinnovabile”). Secondo T&E si tratterebbe “di una frode industriale vera e propria”.
Per T&E, “questa discrepanza dovrebbe accendere un campanello d’allarme specialmente per l’Italia, che impiega circa il 50% di tutto lo stock Ue di queste materie prime “di scarto” e che, pertanto, risulta essere il principale utilizzatore di grassi animali di categoria 1 e 2 nella produzione di biodiesel: circa 440.000 tonnellate raffinate nel solo 2021”. “Ci auguriamo che il Governo, specialmente nel contesto della revisione del PNIEC, non voglia avallare quelle che appaiono, a tutti gli effetti, frodi deliberate”, ha dichiarato Carlo Tritto, policy officer di T&E Italia.
Purtroppo, la Direttiva europea sull’Energia Rinnovabile (RED) incoraggia la produzione di grassi animali per i carburanti da trasporto, consentendo ai fornitori di carburante di raggiungere gli obiettivi sulle rinnovabili grazie al loro utilizzo. La RED dà priorità alle categorie 1 e 2 per i carburanti da trasporto, assegnando loro il doppio del loro contenuto energetico (e quindi un doppio incentivo economico) nel raggiungimento degli obiettivi.
Come ha ricordato Tritto, “I grassi animali non crescono sugli alberi, ma provengono dall’allevamento intensivo”. “È semplicemente l’ennesimo greenwashing legato ai biocarburanti: i prodotti di scarto sono pochi e necessari per altre industrie e invece vengono utilizzati, probabilmente con etichettature fraudolente, per la produzione di biocarburanti che riducono le emissioni solo in teoria”.