Nel variegato mondo delle tre principali aree politiche del Paese cresce l’urgenza di un progetto comune che prepari, dopo il governo Draghi, di cui ho scritto, un nuovo Parlamento, ridotto purtroppo nel numero ma auspicabilmente migliorato nella qualità complessiva della rappresentanza. Una dialettica tripolare, stavolta virtuosa che mediante le opportune alleanze possa poi esprimere il governo del Paese. E ciò in costanza dell’attuale legge elettorale, poiché non è da ritenerne prossima una diversa in senso pienamente maggioritario, come nelle più grandi democrazie del mondo.
Il cosiddetto Centro non è l’unico a avvertire l’esigenza di una sintesi politica nell’Italia, che, inevitabilmente, sarà rigenerata dalla terza esperienza governativa (sessantasettesimo governo della Repubblica) appena iniziata e che si spera sia l’ultima e la più fortunata della XVIII Legislatura.
Lo avverte la Destra dove, nonostante il crescente aumento nei sondaggi, non è pensabile che il partito di Giorgia Meloni possa fare da solo: dovrà raggiungere un idem sentire, come lo definiva Umberto Bossi con la Lega oggi di Matteo Salvini, domani forse di Giorgetti o di Zaia e, chissà, anche con i residui “giapponesi” guidati da Di Battista. E non è detto che nonostante i proclami rassicuranti, Forza Italia ne faccia parte.
Sommo bisogno ne ha anche il Partito Democratico, inchiodato al proprio 20% e sull’orlo del baratro dove l’ha condotto la periclitante segreteria di Nicola Zingaretti, principale vittima dell’infausto consigliere Goffredo Bettini di cui ho scritto e ormai avvinto nell’abbraccio mortale con i resti del Movimento Cinque Stelle e con i nipotini di Pierluigi Bersani, interessati gli uni e gli altri a raggiungere la soglia necessaria per poter sedere in Parlamento.
Le tre aree maggiormente rappresentate nel Paese sono ora alla ricerca di un federatore che autorevolmente possa fare sintesi culturale e politica intorno a sé e non necessariamente essere poi il candidato alla Presidenza del Consiglio a cui il prossimo Capo dello Stato, probabilmente non Mario Draghi, darà l’incarico di formare il governo.
A destra non potrà essere Silvio Berlusconi che pure tale ruolo giocò, nel 2007, lanciando dal predellino il progetto del Popolo della Libertà, anticipato già nel 2000 dalla Casa delle Libertà e che, complessivamente , governò il paese dal 2001 – ricordato in Sicilia come l’anno del “sessantuno parlamentari a zero” – al 2011, con l’ interruzione di quasi due anni rappresentata dal secondo governo Prodi, tra il 2006 e il 2008.
Su quella fine traumatica, dovuta all’abbandono della maggioranza da parte dell’UDEUR di Clemente Mastella – tornato alla ribalta che non gli è certo sgradita, nelle settimane scorse – su cui ancora oggi si scrivono libri.
A sinistra, tramontata l’insana prospettiva di Giuseppe Conte di rivendicare per sé quel ruolo dal tavolino traballante di Piazza Colonna, si potrà assistere in alternativa all’assorbimento all’interno del Partito Democratico di Luigi Di Maio e degli ex secessionisti di Bersani il quale non ha escluso tale ipotesi già dalla nascita di Italia Viva, vista ormai la svolta a sinistra di quella che doveva essere “la principale infrastruttura” di tutti i progressisti. Una possibilità che si concretizzerebbe soprattutto con il probabile subentro al Nazareno di Stefano Bonaccini che tale “ritorno” ha sempre auspicato.
Si realizzerebbe così il definitivo snaturamento del Partito di cui Walter Veltroni ebbe a dire:
“L’identità di noi democratici italiani è un’identità aperta, che molto deve e qualcosa pensa di poter offrire ad altre esperienze riformiste, in Europa e oltre. Un’identità che proprio perché nasce dall’incontro di storie e culture diverse, intende contribuire a promuovere più ampie e nuove aggregazioni riformiste, europee e internazionali: un nuovo campo, che oltre quella socialista esprima la molteplicità delle culture democratiche e dell’innovazione che esistono in tanta parte del mondo. Per quanto mi riguarda, sono ben consapevole di assumere una grande responsabilità, che avrò la fortuna di condividere con tanti altri e per primo con Romano Prodi. E’ una responsabilità nei vostri confronti, di questa Assemblea, di coloro che hanno sostenuto le mie liste come anche di chi ha preferito scegliere Rosy Bindi o Enrico Letta, Mario Adinolfi o Piergiorgio Gawronski. E’ una responsabilità che affronteremo insieme a Dario Franceschini, che sarà al mio fianco con la convinzione e l’entusiasmo per un progetto che sognavamo e speravamo insieme già dieci anni fa. Ed è inevitabilmente una responsabilità, per tutto quello che abbiamo detto, nei confronti del nostro Paese, di tantissimi italiani, che molto si aspettano dalla nascita del Partito democratico.”
Rileggere il testo integrale di quel discorso è necessario per comprendere quanto esso sia stato dimenticato, come ricordò Matteo Renzi a dieci anni di distanza, dal medesimo luogo.
In epoca contemporanea efficaci e duraturi federatori furono nel Regno Unito Winston Churchill, in Francia il generale Charles de Gaulle e François Mitterrand , in Germania Helmut Kohl o, nel mondo, Nelson Mandela dopo la liberazione avvenuta nel 1990 e la promozione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Purtroppo non lo fu Gandhi nonostante il grande ruolo svolto per l’indipendenza indiana che costò contestualmente la drammatica separazione del Pakistan.
In Italia il più illustre federatore fu Camillo Benso conte di Cavour. Non ebbe il tempo di mettere in pratica il proprio acume, che pure aveva ispirato il Risorgimento con tutte le note contraddizioni, essendo venuto a mancare a soli sei mesi dalla proclamazione del Regno di cui fu primo Presidente del Consiglio. A proposito, tra pochi giorni saranno centosessant’anni dal 17 marzo 1861 e bisognerà pur celebrare, anche se con minore enfasi rispetto a quella che del 2011 segnò la ricorrenza durante la presidenza di Giorgio Napolitano e il Governo Berlusconi IV agli sgoccioli.
Federatori possono essere considerati Alcide De Gasperi che seppe pacificare il Paese – anche a costo di rinunciare alla piena epurazione di molti esponenti fascisti di primo e secondo piano in ogni settore – riuscire a contenere Palmiro Togliatti, rivendicare il rispetto nei confronti dell’Italia da parte del contesto internazionale, inserirla a pieno titolo in Europa e nell’Alleanza Atlantica e tanto, tanto altro; a loro modo, lo furono anche Aldo Moro, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi. E, sarà forse presto per dirlo, ma tale ruolo è stato già riconosciuto a Mario Draghi da La Civiltà Cattolica, come anticipato il 2 marzo scorso da Riccardo Cristiano su Formiche.net
Credo sarà il caso di non perdere il fascicolo n.4097 della storica rivista dei Gesuiti, in pubblicazione il 20 marzo.
Il termine federatore contiene la radice foedus (patto, trattato, convenzione) di cui giova ricordare l’origine e l’applicazione. Nell’antica Roma i foedera aequa indicavano gli obblighi e la fiducia reciproca con le città stato alleate considerate pari dal punto di vista giuridico; nei foedera iniqua (cioè non equi)una città- stato, un popolo, un regno riconoscevano la preminenza giuridica e non soltanto di fatto dell’Urbe, ma conservavano una più o meno ampia autonomia nei confronti di quest’ultima.
Non si confonda con l’etimologia di “feudo” che è di origine germanica ed attiene alla concessione in “quasi” proprietà trasmissibile agli eredi di un bene del sovrano, tuttavia revocabile in caso di slealtà o tradimento. Per inciso, va ricordato che la rinuncia alla concessione reale (cosiddetto “privilegio” feudale) e il passaggio a piena proprietà privata, operata da Ferdinando II di Borbone nel 1812 quale riconoscenza alla Sicilia che lo aveva ospitato durante l’esilio da Napoli, viene considerato come origine e causa del fenomeno mafioso, come approfondito da Diego Gambetta dell’Università di Oxford ne “La mafia siciliana. Un’ industria della protezione” Einaudi, 1994, opera fondamentale sul tema, da preferire al molto ciarpame che circola.
In tutti i casi, la natura pattizia del termine “federare” e dei relativi derivati ha a che fare con la fiducia e con il riconoscimento reciproco tra le parti chiamate ad operare collegialmente e in senso unitario.
Federare è dunque un’iniziativa nobile che può essere intrapresa da chi detiene un potere formalmente riconosciuto oppure gode di una stima generale, in grado di riparare la “trama strappata” di un contesto sociale – e i partiti ne sono una parte cospicua – come ebbe a definire l’Italia Giuseppe De Rita in una celebre introduzione ad un Rapporto Censis di molti anni fa. La situazione non sembra molto migliorata da allora.
Resta da definire la vexata quaestio. Intorno a quali valori federare soggetti politici affini per generare il necessario valore aggiunto? Certamente un convinto europeismo coltivato negli anni anche quando l’Unione non ha mostrato il volto migliore; un robusto atlantismo quale leale adesione ad una visione non ambigua del mondo libero e del valore della democrazia; un’ispirazione alla Dottrina Sociale della Chiesa, come ad altre che ne rispecchino laicamente i valori, resa più facile dalle posizioni di Papa Francesco sulle quali nessuno dei suoi successori europei o provenienti da altre parti del mondo potrà presentarsi ormai come revisionista. Una concezione dello sviluppo nazionale e mondiale fondato sulla libera iniziativa da cui trarre una redistribuzione del reddito interno e globale capace di contribuire alla promozione di chi, persona o nazione, non sia nelle condizioni di far da solo.
E ancora politiche familiari sul modello tedesco o danese, una serena e non ideologica concezione dell’immigrazione intraprendendo la strada non più rinviabile dello ius soli atta a compensare il decremento demografico che ancora per qualche decennio peserà sul Paese; politiche efficaci di formazione continua degli adulti ormai in pieno analfabetismo, politiche scolastiche ed universitarie basate sul dettato costituzionale e concordate con il mondo del lavoro, ferma restando la libertà degli studenti di operare, consapevolmente, scelte diverse. Scontate le “transizioni” ecologiche e digitali per le quali peraltro i fondi non mancheranno e politiche sanitarie territoriali che mostrino di aver compreso la differenza tra a.C.(avanti Covid) e dopo. Credo che possa bastare, per evitare di stilare un programma politico che, peraltro, nessuno mi ha richiesto.
Mentre crescono le iniziative per favorire il confronto all’interno dell’arcipelago variegato dell’area centrista, appaiono opportune alcune considerazioni circa le caratteristiche di un possibile federatore su cui ricadrebbe il non facile compito. Va innanzitutto rilevato come tale ruolo difficilmente possa essere praticabile se rivestito da Matteo Renzo o da Carlo Calenda. Nel primo caso a motivo della forte divisività e il carattere poco incline alla mediazione che connotano l’attuale leader di Italia Viva ma anche a motivo dell’episodio dell’incauta visita al principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohamed Bin Salman, ormai riconosciuto e indicato al mondo anche dal Presidente USA, Joe Biden, come il mandante dell’orrenda fine di Jamal Khassogi di cui ho scritto su Lo Spessore e, più in generale, del rispetto dei diritti umani in quel mondo, ancora lontano dal Rinascimento. Mentre questo articolo viene scritto, si ha notizia di una busta contenente alcuni proiettili recapitata all’ufficio del senatore fiorentino. Un ulteriore segnale, probabilmente senza altre conseguenze tranne il rafforzamento della scorta, di una campagna d’odio scatenata nei suoi confronti e che durerà a lungo prima che il tempo, medicina infallibile, guarisca il Paese dalla peggiore malattia, senza vaccino, che abbia mai contratto dai tempi della Resistenza raccontati dall’indimenticato Giampaolo Pansa.
Nel secondo caso, la personalità di Carlo Calenda non sembra prestarsi molto al ruolo le cui caratteristiche ho descritto prima. Indubbia la preparazione manageriale e le capacità gestionali, forse più utili per il governo di una grande città, ma troppo recente l’impegno in politica, eccessivamente tranchant i suoi giudizi sui compagni di strada, anodina, più che laica, la sua dimensione interiore che pure ha un ruolo determinante in una leadership plurale ed ispirata.
Certo non mancherebbero i nomi di padri nobili quali Romano Prodi o Sabino Cassese, di cui chi scrive ha avuto conoscenza diretta, con il primo, quando scelse di aprire a Palermo nel 1994 il “Comitato per l’Italia che vogliamo” dopo il famoso articolo su MicroMega; con il secondo, avendo servito sotto la presidenza che egli ricoprì in un noto istituto di credito, prima che fosse assorbito da una delle grandi fusioni bancarie di allora e che precedettero di poco le proprie dimissioni volontarie dal settore della formazione dei dirigenti cui attendeva. O ancora il già citato cattolico Giuseppe De Rita o Emma Bonino e altri del mondo ambientalista e radicale che però non sarebbero considerati abbastanza adeguati a quel minimo comune denominatore che ho tratteggiato.
L’età e il massimo riconoscimento degli incarichi ricoperti ne faranno piuttosto dei saggi da consultare con attenzione e rispetto. Il ruolo da tanti auspicato potrebbe, piuttosto, essere ricoperto da personalità che hanno rivestito senza demeritare incarichi istituzionali di massimo livello e sono ancora adesso, in età adeguata, presenti nelle Istituzioni.
In alternativa, penso, per esempio, ma senza impiccarmi a questo come ad altri nomi, al senatore Pier Ferdinando Casini, già presidente della Camera dei Deputati dal 2001 al 2006, centrista per antonomasia, uscito indenne dalle pur tante mine vaganti predisposte sulla sua rotta di uomo politico con alle spalle la più lunga esperienza tra quelli presenti nei due rami del Parlamento italiano dove siede a partire dal 1983, talento precoce coltivato da Arnaldo Forlani e in grado di dialogare sin da giovane con la Sinistra che a Bologna non era certo quella conciliante e democratica di oggi.
In tutto, ad eccezione della comune formazione cattolica, Casini mi è lontano con riferimento al mondo politico in cui egli si è formato prima di divenire deputato ed essere rieletto, ancora una volta, con una lista in appoggio al Partito Democratico di Matteo Renzi in vista delle elezioni politiche di marzo 2018 e quale candidato della coalizione all’uninominale di Bologna dove vinse con il 34,93% (69.991 voti contro i 53.997 del centro-destra) e si iscrisse al gruppo Per le Autonomie essendo l’unico eletto di quella lista al Senato. Il 2 agosto 2018 è stato eletto all’unanimità Presidente dell’Interparlamentare italiana, l’organismo bicamerale che aderisce all’Organizzazione mondiale dei Parlamenti (IPU-UIP).
In occasione delle elezioni europee del 2019 Casini ha dichiarato il proprio sostegno al Partito Democratico, auspicando però la formazione di un nuovo grande partito di centro aperto anche ad esponenti di Forza Italia. Nell’agosto 2020, a poche settimane dal referendum costituzionale sul taglio del numero di parlamentari legato alla riforma avviata dal governo Conte I guidato dalla Lega assieme al Movimento Cinque Stelle e concluso dal governo Conte II guidato dalla coalizione tra M5S e Partito Democratico, Casini ha espresso voto contrario.
Il 19 gennaio 2021 ha votato la fiducia al governo Draghi. In mezzo, docenze universitarie in LUMSA e LUISS, onorificenze nazionali e internazionali di grande prestigio e alcune inossidabili certezze: il centro democratico, il moderatismo sempre e dovunque, a partire dal linguaggio pubblico e privato, il dialogo costante ma deciso con la Sinistra. All’età di sessantasei anni è nel pieno vigore della maturità e recentemente ha vissuto la drammatica esperienza del contagio da Covid 19 da cui si è ripreso. Un percorso umano e politico di evidente coerenza anche in tempi difficili e che ne farebbe un adeguato federatore di tante e frammentate esperienze centriste, senza soverchie ambizioni di diventarne il leader, nonché una valida opzione per molti di Forza Italia che lo conoscono ed apprezzano, anche per non aver mai aspirato ad alcun ruolo di “delfino” del Cavaliere pur possedendo quel quid dal medesimo a lungo preteso e mai, volutamente, trovato.
Nessun endorsement dunque o predilezione ma, soltanto, l’avvio di un ragionamento in cui si auspica che si avvicendino presto anche altre proposte di personalità che, sempre a partire dai contenuti, aggiungano valore al cammino dell’unità dell’area moderata, appena all’inizio ma che può diventare piuttosto presto un passaggio cruciale, se non il battesimo ufficiale, della Terza Repubblica e della nuova Unione.
Qualcosa su cui riflettere mentre l’ex impero austro ungarico si procura da sé i vaccini, in barba agli accordi europei e si ventila un quanto mai sospetto inedito desiderio della Lega di voler entrare nel PPE mentre Victor Orban ne esce. Meglio non farlo sapere ad Umberto Bossi e tenere saldamente la barra al centro. La gravità ed il cantautore Franco Battiato che la invocava nel lontano 1981, ringraziano.