Distratti dalla guerra in Ucraina, dell’ambiente non sembra importare più a nessuno (sempre che prima potesse interessare a qualcuno).
Le misure, peraltro blande, previste nei documenti finali siglati dai partecipanti all’ultima COP26 sembrano finiti nel dimenticatoio. E gli effetti dell’inquinamento causato dalla guerra in Ucraina rischiano di accelerare il cammino verso l’irreversibile. Emissioni di veicoli militari, bombardamenti, ma soprattutto il ritorno a sistemi energetici obsoleti (l’Italia ha prolungato la vita di due delle più grandi centrali elettriche a carbone nazionali) e l’acquisto di combustibili sporchi (come quello africano o americano).
A pagare il prezzo di tutto questo è prima di tutto l’ambiente. A cominciare dalle foreste pluviali, il polmone verde del pianeta. Dall’Amazzonia brasiliana al bacino del Congo, solo l’anno scorso sono andati perduti 11,1 milioni di ettari di copertura arborea (inclusi 3,75 milioni di ettari di foresta primaria). Secondo lo studio dal titolo “Pronounced loss of Amazon rainforest resilience since the early 2000s” pubblicato dal Global Systems Institute dell’università di Exeter, la resilienza – ovvero la capacità di riprendersi da eventi come siccità o incendi – di quello che uno dei più importanti bacini arborei del pianeta “è diminuita costantemente in più di tre quarti della foresta pluviale dall’inizio degli anni 2000”. Secondo gli esperti, “l’Amazzonia potrebbe presto raggiungere un punto critico, oltrepassato il quale provocherebbe la morte e trasformerebbe gran parte della foresta in savana, con gravi impatti sulla biodiversità, sullo stoccaggio globale del carbonio e sui cambiamenti climatici”.
Il problema, però, non riguarda solo la foresta amazzonica. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2021, molte delle più estese foreste boreali del pianeta hanno subito perdite record. Da un lato gli incendi: in Russia, ad esempio, dove gli incendi in Siberia hanno devastato un habitat unico. Dall’altro, la deforestazione selvaggia ripresa a ritmo incessante in barba alle promesse fatte lo scorso anno a Glasgow, alla COP26.
“Quando guardi le statistiche immutabili anno su anno, potresti concludere che non offrono davvero un titolo degno di nota. Ma quando si tratta della perdita di foreste tropicali primarie, i tassi ostinatamente persistenti si riferiscono al clima, alla crisi di estinzione e al destino di molti primi popoli. Gli alti tassi di perdita continuano nonostante gli impegni di paesi e aziende”, ha dichiarato Rod Taylor, direttore globale del programma forestale presso il World Resources Institute WRI.
L’ultimo studio realizzato dal WRI indica che parti dell’Amazzonia rischiano di passare da foresta pluviale a savana. Il 40% della perdita di foreste pluviali primarie nel 2021 è avvenuto in Brasile, seguito dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Bolivia, dall’Indonesia e dal Perù. L’effetto sul pianeta è la mancanza di ricambio della CO2, si tratta dell’equivalente delle emissioni annuali di combustibili fossili di tutta l’India. Se il Brasile è il paese con la massima perdita di superficie forestale in termini assoluti, il paese dove è maggiore in percentuale è la Cambogia, seguita da Laos, Bolivia e solo quarto (si fa per dire) il Brasile.
Frances Seymour, membro senior del WRI, ha detto che i dati del 2021 sarebbero dovuti diventare il punto di riferimento per valutare gli impegni della COP26. “Abbiamo 20 anni di dati che mostrano la persistente perdita annuale di milioni di ettari di sole foreste tropicali primarie. Ma non restiamo senza dita per contare il numero di anni che ci restano per portare quel numero a zero. Sapevamo già che tali perdite sono un disastro per il clima. Sono un disastro per la biodiversità. Sono un disastro per i popoli indigeni e le comunità locali”. “Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni da tutte le fonti. Nessuno dovrebbe nemmeno più pensare a piantare alberi invece di ridurre le emissioni dei combustibili fossili. Devono essere entrambi e deve essere ora prima che sia troppo tardi”.
Il Ministro dell’Ambiente britannico, Goldsmith, che a novembre si era battuto (si fa per dire, visto il documento finale) nella stesura del documento finale della COP26 firmato da 143 paesi, ha affermato: “Se continuiamo a degradare le grandi foreste del mondo, dall’Amazzonia al bacino del Congo, le implicazioni per milioni di persone sono terribili. Stiamo facendo deragliare complessi sistemi naturali da cui tutti dipendiamo e questo, a sua volta, rende impossibile il raggiungimento di tutti i nostri obiettivi globali condivisi, dalla pace alla prosperità”. “Incendi, temperature in aumento e siccità stanno influenzando la resilienza [figurarsi se non c’entrava la resilienza, ora che di sostenibilità non parla più nessuno, ndr] delle foreste in tutto il mondo” ha scritto un noto giornalista inglese che ha anche cercato di contattare i portavoce di alcuni dei governi dei paesi ai primi posti di questa lista.
La risposta, come ormai abitudine, è stata la stessa di sempre: tante belle parole ma nessuno impegno formale per salvare le foreste pluviali se non in un futuro più o meno lontano. Ammesso ovviamente che, per allora, ci sia rimasto qualcosa da salvare.