Introduzione
Nonostante gli accordi di pace, le tante convenzioni e i numerosi trattati di diritto internazionale umanitario, nonostante le promesse dei leader mondiali, il pianeta è costellato di conflitti e guerre di ogni tipo. Interni ed esterni (ovvero che coinvolgono più stati). Tanti quanti non se ne vedevano dalla Seconda Guerra Mondiale. A volte differiscono in modo considerevole per intensità, frequenza e forma. Questo, spesso, fornisce dati difficilmente confrontabili a chi cerca di analizzare i numeri delle guerre. Secondo alcune stime (aggiornate a dicembre 2023) pare essere il Myanmar il paese dove ci sono gli scontri più violenti: qui i conflitti sono estremamente “frammentati” a causa delle decine di piccole milizie che cercano di contestare il governo centrale dopo il colpo di stato del 2021. Al secondo posto c’è la Siria a causa di molteplici conflitti che continuano a verificarsi all’interno dei suoi confini. Nel 2024 la situazione potrebbe cambiare. E in peggio, vista l’impennata degli scontri a Gaza, in Ucraina, in Sudan o in altri paesi [1].
L’Indice dei conflitti redatto periodicamente da ACLED mostra che dei 234 paesi e territori coperti dall’analisi, ben 168, la stragrande maggioranza, ha vissuto almeno un episodio di conflitto nel 2023. L’aggiornamento 2024 dell’indice dei conflitti ACLED ha tenuto conto dei livelli di conflitto in base a quattro indicatori chiave: mortalità, pericolo per i civili, diffusione geografica del conflitto e frammentazione dei gruppi armati. Utilizzando questi fattori, i livelli più alti si riscontrano in una cinquantina di paesi classificati come “estremi”, “alti” o “turbolenti”. Oltre 147mila gli “eventi” di conflitto registrati e almeno 167.800 le vittime. Rappresentano il 97 per cento di tutti gli eventi di conflitto registrati negli ultimi 12 mesi. Ancora una volta, pare che sia il Myanmar il più violento in assoluto: mantiene la sua posizione come il più “frammentato” a causa delle decine di piccole milizie che cercano di contestare il governo centrale dopo il colpo di stato del 2021. Al secondo posto c’è la Siria a causa di molteplici conflitti che continuano a verificarsi all’interno dei suoi confini. Ma nel 2024 la situazione potrebbe essere peggiore vista l’impennata degli scontri a Gaza, in Ucraina, in Sudan o in altri paesi [1].
A volte si confrontano questi aspetti con altri. Come la spesa destinata alla promozione della pace: solo 49,6 miliardi, una briciola rispetto alle somme destinate a spese militari. O spesa per la sanità o l’istruzione. C’è chi parla degli effetti geopolitici che hanno o potrebbero avere queste guerre. Un altro modo per classificare guerre e conflitti armati è valutare l’impatto economico che hanno: secondo l’Institute for Economics and Peace (IEP), nel 2019 il costo delle guerre ammontava a 14,4 trilioni di dollari. Circa 5 dollari al giorno per ogni persona sul pianeta. Una spesa insostenibile se si pensa che, secondo i dati della Banca Mondiale, sono 689 milioni le persone che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, circa il 9 per cento della popolazione mondiale [2]. E la situazione peggiora giorno dopo giorno. A volte si confrontano questi aspetti riguardanti le guerre con altre. Come la spesa destinata alla promozione della pace: solo 49,6 miliardi, una briciola rispetto alle somme destinate a spese militari. O spesa per la sanità o l’istruzione. C’è chi parla degli effetti geopolitici che hanno o potrebbero avere queste guerre.
[1] Global Peace Index, Institute for Peace and Economics [2] Vedi sopra [3] https://www.worldbank.org/en/topic/poverty/overview
Quasi sempre, la valutazione della gravità di un conflitto (e la posizione in una qualche graduatoria) richiede, però, un approfondimento: il conflitto in Palestina copre quasi tutti i suoi territori e, quindi, è considerato il conflitto più “diffuso”. Negli ultimi mesi, dopo l’invasione di Israele nella Striscia di Gaza, sono cambiati gli equilibri che hanno caratterizzato questa guerra per decenni. Da ottobre 2023, la violenza degli scontri ha subito un’impennata spaventosa. Lo stesso dicasi per altre guerre che possono apparire “in letargo” sebbene attive da decenni. Guerre come quella tra India e Pakistan. Anche il Messico continua ad essere un paese pericoloso: i suoi abitanti sono spesso presi di mira dai cartelli della droga. Guardando ai numeri, l’Ucraina rimane uno dei paesi con il maggior numero di vittime negli ultimi mesi: nel 2023, entrambi gli eserciti, sia sul versante ucraino che su quello russo, hanno perso decine di migliaia di combattenti. Ma a partire dal 7 ottobre, a far registrare il maggior numero di vittime complessive è stato il conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.
Tra i paesi nei quali sono in corso conflitti violenti, diversi si trovano in Africa (Nigeria e Sudan). In Sudan la situazione continua a peggiorare: le uccisioni di massa sono una caratteristica chiave di questo conflitto. Qui spesso non sono disponibili dati attendibili. Una carenza di dati ufficiali che spesso rende difficile anche valutare la gravità della situazione. Tre paesi si trovano in Medio Oriente (Palestina, Yemen e Siria): in questa zona è da sottolineare l’esistenza dei problemi che incidono sullo sviluppo della regione ormai da decenni. Anche secondo questi studi è il Myanmar il paese asiatico più colpito. È qui che sono state registrate le maggiori criticità (almeno fino allo scorso anno). Anche in America non mancano le guerre: quattro dei dieci luoghi estremamente violenti si trovano in America Latina (Messico, Brasile, Colombia e Haiti). Interessante notare che, fatta eccezione per Haiti, le altre sono tutte democrazie ed economie di mercato in genere ritenute stabili. A causare scontri e destabilizzazione sono bande criminali, autorità contestate, corruzione e violenza contro i civili. In questi paesi non esistono grandi guerre tradizionali, ma piccoli conflitti multipli, mortali e pervasivi. Continuano a essere il fattore più persistente dell’instabilità nei paesi in via di sviluppo e in quelli più sviluppati.
Una caratteristica fondamentale di questi conflitti è il numero di gruppi armati e i loro programmi: diverse migliaia di milizie e bande operano in questi conflitti e i loro obiettivi sono spesso l’autorità e il controllo locale. Non cercano di governare, di lottare per le categorie più deboli, o di trasformare il sistema politico per renderlo più democratico, giusto o rappresentativo. Il loro unico obiettivo è la conquista del potere e il controllo del territorio. E la violenza è lo strumento più efficace per ottenere questi obiettivi.
Tutti i leader mondiali sbandierano promesse di pace e stabilità. La verità è che solo 15 paesi hanno fatto registrare miglioramenti nella loro classifica dell’indice ACLED riferito al quinquennio 2019-2023. Altri 16, al contrario, mostrano un peggioramento dei livelli di conflitto. Poco più di una decina di paesi sono rimasti stabili nelle categorie con livello di conflitto “estremo” o “alto”, senza alcun cambiamento tra il 2019 e il 2023. Complessivamente, dei 50 paesi classificati in cima all’indice ACLED, oltre la metà vivono situazioni di conflitto prolungato o peggiorate rispetto al 2019. Nei sei mesi tra l’aggiornamento di metà anno dell’indice ACLED (luglio 2023) e la fine dell’anno, otto paesi hanno visto un intensificarsi dei livelli di conflitto: tre paesi – Palestina, Haiti e Sudan – sono entrati nella categoria dei paesi in cui è in corso un conflitto estremo.
Uno degli errori più diffusi quando si leggono questi numeri è considerare questi conflitti come eventi lontani. Questo fa sì che spesso sono percepiti come estranei. Raramente si tiene conto del fattore umano. Delle conseguenze che ha per la popolazione comune vivere in un paese in guerra. Eppure, a livello globale, una persona su sei vive in un’area in cui si registra un conflitto attivo. Una sorta di distacco, di indifferenza che negli ultimi anni sono aumentati. In parte questo è stato dovuto al nuovo modo di fare la guerra: molti paesi (si pensi alle missioni di pace di qualche anno fa e alla situazione, oggi, in Ucraina) hanno deciso di non mandare più i propri soldati a combattere per “guerre di pace” (un controsenso in termini). La maggior parte di loro si limitano a inviare armi e armamenti. O, in alcuni casi, a combattere a distanza utilizzando i droni. Questo rende difficile anche a chi mette la firma di una spedizione di missili o a chi preme il grilletto comprendere le conseguenze che ha il proprio gesto. Rende difficile comprendere quali sono le conseguenze delle guerre.
Il fattore umano
Come dicevamo, ciò che è cambiato è il modo di fare la guerra. In questo, parte delle responsabilità ricade sui media: a volte gestiscono la comunicazione in un modo che allontana (e non poco) dalla realtà dei conflitti armati. Molte volte non consentono al proprio pubblico di comprendere le reali conseguenze di un conflitto armato sulla popolazione civile. E quando lo fanno, spesso si limitano a fredde analisi statistiche: si parla del “numero” dei morti o dei feriti. Quasi mai i lettori o gli spettatori sono portati a pensare che le vittime di queste guerre non sono “numeri”: sono persone, esseri umani, uomini, donne e soprattutto bambini. Un modo per sfuggire all’obbligo di spiegare ai lettori quali sono conseguenze umane e sociali che queste guerre hanno sulla popolazione. E sui più piccoli.
Come Aya e Lubna due bambine che oggi hanno rispettivamente 7 e 6 anni e sono ospiti di un campo profughi in Grecia. Qualche anno fa sono state costrette a lasciare la propria casa e il proprio paese per fuggire dalla guerra. “Ricordo Aleppo – dice Aya – Ricordo tutta la famiglia riunita in casa nostra. Ma poi sono cominciate le bombe e siamo partiti”. Un viaggio lungo e pericoloso che le ha portate ad attraversare molti paesi in due continenti. Le loro menti sono piene di ricordi di bombe e di morti. E delle difficoltà che si devono affrontare quando si è costretti a vivere in un campo profughi.
Anche i ricordi di Soswil sono lo specchio delle difficoltà che comporta vivere in questi campi. Soswil è una ragazza irachena. All’inizio della guerra è stata costretta a fuggire. Si è nascosta con la famiglia in un villaggio (ma senza il padre: “era in guerra a combattere per noi”). Quando i membri dell’ISIS li hanno raggiunti anche in quel villaggio, hanno separato i bambini, le donne e gli uomini. Poi hanno preso le ragazze e hanno detto “facciamo qualcosa con le ragazze”. Ma uno dei capi dell’ISIS ha detto: “No, sono nelle mie mani, quindi non toccatele”. Lei e le altro sono state portate in una casa. Sono state lasciate lì per tre giorni, rinchiuse senza cibo né acqua. Per chi vive in una bella casa, in un paese occidentale magari servito da servizi porta a porta che non rendono necessario nemmeno alzarsi dal divano per ordinare ciò che si vuole, per chi d’estate ha un frigorifero pieno di bevande fresche, non è facile immaginare cosa significa cercare di sopravvivere per tre giorni senza acqua col clima arido che caratterizza alcune zone dell’Iraq. Soswil e alcune ragazze sono riuscite a sopravvivere quanto bastava per scappare. Si sono unite ai soldati del PKK. In seguito, grazie all’aiuto di alcuni trafficanti, sono arrivate in Turchia, a Siirt. Da qui, si sono dirette al confine con la Grecia. Ma mentre cercavano di raggiungere l’Europa su un barcone di quelli che spesso vediamo nei notiziari dei TG, la guardia costiera le ha intercettate. Purtroppo il barcone è affondato. Solo metà di loro si sono salvate. É stata a lungo in un campo profughi di Nea Kavala (nel nord della Grecia). Ma anche qui la vita non è stata facile: “A volte non avevamo nulla da mangiare, ed era sempre pericoloso per noi” ha detto Soswil, che ha raccontato che nel campo erano frequenti gli scontri con i rifugiati musulmani.
In cima alla lista dei paesi in guerra c’è il Myanmar, un tempo noto come Birmania. Tra i motivi di scontro ci sono le tensioni tra il governo e il popolo dei Rohingya. Le persecuzioni di questa minoranza etnica hanno origini lontane. Ma le conseguenze su uomini, donne e bambini oggi sono visibili come non mai. Nel 1982 una legge sulla cittadinanza ha escluso i Rohingya dai gruppi etnici riconosciuti del Myanmar [1]. A decine, centinaia di migliaia, sono stati spinti al confine e costretti con la forza a lasciare il paese. Oggi molti di loro sono apolidi, senza diritti e senza le protezioni che sono normali per chi è cittadino di un paese [2]. Dal 2017, la situazione è peggiorata ulteriormente. Oggi è un’emergenza umanitaria che alcuni hanno equiparato ad un genocidio, con stupri di massa e diversi casi crimini contro l’umanità [3]. Più di 730 mila Rohingya sono stati costretti a lasciare le proprie case. Tra loro anche 400 mila bambini, “indesiderati” sia dai propri connazionali che in Bangladesh, dove si sono rifugiati. Quelli di loro che hanno cercato di tornare in Myanmar hanno incontrato enormi problemi: da un lato il governo del Myanmar continua a negare la legittimità del diritto del popolo rohingya di vivere in Myanmar. Dall’altro il Bangladesh ha detto di non potersi più fare carico di loro. Una situazione umanitaria complessa che ha profonde conseguenze sotto il profilo sociale, fisico e umano. Come essere costretti a vivere sapendo di non essere parte di nessuna nazione (sono in assoluto il gruppo di apolidi più numeroso, secondo l’UNHCR). L’impatto di tutto ciò sulla salute fisica e mentale di bambini e adolescenti è devastante [4]. Cosa vuol dire per una persona essere apolide? Significa non esistere per nessuno Stato: non avere una identità certa, non poter avere un lavoro regolare, niente assistenza sanitaria, non poter avere una casa e, per un bambino, spesso anche non poter andare a scuola. Chi è apolide vive nella paura di essere fermato dalle forze dell’ordine: in questo caso non possono dimostrare la propria identità. È così che sono costretti a vivere anche molti dei 600 mila Rohingya che continuano a vivere e lottare in Myanmar. Le parole con le quali i bambini rohingya raccontano la loro storia sono toccanti.
Yasmin Noor è una delle centinaia di migliaia di bambini rohingya fuggiti dal Myanmar alla fine di agosto del 2017. Yasmin ha 8 anni: “Mia madre è stata uccisa dopo che i militari hanno dato fuoco alla mia casa e al mio villaggio”, ha detto. Per lei, come per molti altri bambini vittime di guerra, la vita è cambiata radicalmente. Le Nazioni Unite hanno definito la campagna contro i Rohingya un “esempio da manuale di pulizia etnica” e con il capo dell’organizzazione per i diritti umani ha detto ai giornalisti di non poter escludere “elementi di genocidio”. [8]. Migliaia di bambini sono arrivati nei campi profughi intrisi di fango, da soli dopo aver perso entrambi i genitori.
[4] Rochelle L. Frounfelker, Nargis Islam, Joseph Falcone, Jordan Farrar, Chekufa Ra, Cara M. Antonaccio, Ngozi Enelamah, Theresa S. Betancourt, Living through war: Mental health of children and youth in conflict-affected areas, International Review of the Red Cross [5] https://international-review.icrc.org/articles/living-through-war-mental-health-children-and-youth-conflict-affected-areas#footnote64_pu9ziz3 [6] https://international-review.icrc.org/articles/living-through-war-mental-health-children-and-youth-conflict-affected-areas#footnote65_ct7zlrp [7] https://international-review.icrc.org/articles/living-through-war-mental-health-children-and-youth-conflict-affected-areas#footnote69_ydosl6b [8] AA.VV., Rohingya crisis: UN rights chief 'cannot rule out genocide', BBC
Un’indagine dell’UNHCR ha rilevato che 5.677 (3,3 per cento) delle famiglie di rifugiati rohingya a Cox’s Bazar erano gestite da bambini che non avevano più nessuno che si prendesse cura di loro[1]. Anche Faruq è rohingya. Oggi ha 12 anni: fuggito dal Myanmar con suo padre da allora vivono nel campo profughi di Kutupalong. Anche i suoi ricordi sono pieni di dolore: “Hanno violentato mia madre e poi l’hanno uccisa tagliandole la gola”, racconta Faruq al giornale Vice. “Siamo fuggiti dall’esercito del Myanmar per salvarci la vita. Non immaginavo che mio marito sarebbe stato ucciso nel nostro campo da un altro Rohingya”, ha detto la signora Khatun, 31 anni, alla BBC. “Non riesco a dormire la notte. Vogliamo lasciare il campo. Non so cosa riserva il futuro per me e i miei figli”.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha richiesto un “orribile costo umano”. Non solo tra i militari ma soprattutto tra i civili, infliggendo immense sofferenze a milioni di persone. Problemi che, secondo il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, si faranno sentire “per generazioni”. “L’attacco armato su vasta scala della Russia contro l’Ucraina, che sta per entrare nel suo terzo anno senza che se ne veda la fine, continua a causare gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, distruggendo vite e mezzi di sussistenza”. I dati della Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite in Ucraina parlano di 30.457 vittime civili accertate (10.582 morti e 19.875 feriti) dal 24 febbraio 2022 a marzo 2024. Ma gli sfollati sono milioni. Molti di loro non hanno più una casa [e non vogliono tornare in Ucraina]. Sono molte le istituzioni mediche ed educative danneggiate o distrutte. Questo ha conseguenze significative su quanti ancora in vita. “L’impatto a lungo termine di questa guerra in Ucraina si farà sentire per generazioni”, ha detto Türk. Il rapporto parla di esecuzioni sommarie, sparizioni forzate e repressione del diritto alla libertà di espressione e di riunione che sono state documentate anche nei territori occupati. Come consuetudine per altre guerre, ci si limita ai numeri. E spesso si commette l’errore di limitarsi ai dati relativi al periodo degli scontri. Dimenticando che le conseguenze sulla guerra spesso si fanno sentire per anni dopo la fine del conflitto.
La guerra vista con gli occhi dei medici
I primi a vedere con i propri occhi e a toccare con mano (letteralmente) i danni causati dalle guerre sui civili sono i medici e gli operatori sanitari che lavorano in zone di guerra.
Mark Perlmutter è un chirurgo ortopedico che ha lavorato con decenni di esperienza in missioni di emergenza in diversi continenti. Mark, anzi il Dott. Perlmutter, ha raccontato che, arrivato a Gaza con un gruppo di colleghi e assistenti dopo un viaggio estenuante (parte del materiale medico che portavano hanno dovuto metterlo nel bagaglio personale per non rischiare che venisse sequestrato alla frontiera), si è trovato di fronte uno scenario impressionante. “Siamo sempre andati dove c’era più bisogno di noi. A marzo, era ovvio che il posto era la Striscia di Gaza”. Ma niente poteva far prevedere quello che si sarebbero trovati di fronte.
[9] Goodwill Ambassador Kristin Davis calls for urgent action for Rohingya refugee children, UNHCR
L’ospedale dove hanno portato il Dott. Perlmutter per operare i civili feriti (uno dei pochi ancora in piedi, sebbene gravemente danneggiato dalle bombe) versava in condizioni igieniche terrificanti: il medico ha raccontato che “i vermi cadevano a ciuffi sul tavolo della sala operatoria”. Condizioni estreme che non sorprendono soccorritori come lui che operano da decenni in prima linea. Non è raro che si trovino di fronte a casi estremi e condizioni igieniche incredibili. Ma per tutti gli altri, per quanti vivono lontani da questi orrori, la situazione è diversa. Nessuno metterebbe piede in un ospedale in quelle condizioni. Lì la scelta è questo oppure morire per strada. Molti di quelli che leggeranno queste parole non sono abituati a situazioni estreme. Come quella bambina che è arrivata in ospedale con due centimetri in meno del femore sinistro e senza la maggior parte dei muscoli e della pelle sulla parte posteriore della coscia. Entrambe le sue natiche erano scorticate – ha raccontato il medico – e avevano tagliato così profondamente la carne che le ossa più basse del bacino erano esposte. Il Dottore (con la D maiuscola) ha fatto di tutto per salvarla e per ricostruire quello che mancava con i pochi strumenti a disposizione. Ma a causa della gravità delle ferite riportate nessuno, nemmeno i sanitari, sa dire come sarà la vita di quella bambina una volta adulta. E pensare che molti bambini non sanno nemmeno perché è iniziata questa guerra. E neanche come mai, dopo tanti anni, non è ancora finita.
Anche in Pakistan si combatte da molto tempo. Anche qui da anni si cerca di “bonificare” i campi minati pieni di bombe antiuomo o inesplose che hanno aiutato i paesi occidentali a far crescere il proprio PIL. Uno dei settori più attivi e sviluppati dell’economia di questo paese è quello delle protesi artificiali. Un settore che ha avuto una crescita impressionante anche dal punto di vista scientifico: recentemente, per far fronte alla domanda di arti sintetici, i ricercatori pakistani hanno sviluppato arti controllati grazie all’intelligenza artificiale. Un settore sorprendentemente sviluppato in un paese che solo un secolo fa nemmeno esisteva (come paese indipendente) e che da allora è cresciuto in modo impressionante: oggi è il quinto paese al mondo per abitanti (con oltre 240 milioni di abitanti), ma è anche la settima potenza armata al mondo. Dove oltre alle protesi per i civili che hanno perso un arto sulle bombe inesplose, si continuano a produrre armi nucleari.
Anche in Sudan la situazione degli ospedali è critica: due terzi dei sudanesi non hanno accesso ai servizi sanitari: il 70/80 per cento degli ospedali ha cessato l’attività a causa di una grave carenza di forniture mediche, compresi i farmaci salvavita. L’UNICEF prevede che decine di migliaia di bambini moriranno se non riceveranno un sostegno aggiuntivo. “Rispetto a un anno fa, il numero di bambini uccisi o vittime di violenza sessuale come arma di guerra è in forte aumento”.
Il caso della bambina operata dal Dott. Perlmutter nella Striscia di Gaza non è unico. È uno dei tanti. È questa la condizione in cui vive la popolazione civile a Gaza, dove non essere stati (ancora) colpiti dalle bombe è considerata una fortuna. Per queste persone “fortunate”, la vita è cercare di sopravvivere tra malnutrizione devastante, fogne a cielo aperto e rischi di epidemia che si teme possano diffondersi a causa dei cadaveri sparsi ovunque. Molti sono i corpi dei civili uccisi rimasti sotto le macerie dopo i bombardamenti. Non sono mai stati rimossi. Col tempo si sono putrefatti e ora l’aria e il suolo sono impregnati di un mix di morte, distruzione, bombe e gas provenienti dagli scarichi dei mezzi militari. D’estate la situazione peggiora: con il caldo, i cadaveri si decompongono più velocemente. Come se tutto questo non fosse sufficiente, la densità della popolazione ha raggiunto picchi incredibili: spinti dalle truppe israeliane, milioni di persone si sono accalcati intorno ai pochi centri di raccolta. Per loro non c’è alternativa. Da un lato l’Egitto, che ha chiuso le frontiere. Dall’altro l’esercito israeliano che spesso non considera i civili persone ma obiettivi da colpire. A volte anche con l’aiuto dei cani.
Muhammed Bhar, un ragazzo di 24 anni affetto da sindrome di Down. La condizione di Muhammed era grave, ha spiegato la madre: il suo sviluppo mentale “era al livello di un bambino” . Vivevano a Gaza, in una casa tra le macerie nel quartiere Shujaiya, nella parte orientale della città. La sua era una delle poche abitazioni sopravvissute alle migliaia di bombe fatte esplodere dall’esercito israeliano senza pensare su chi cadevano. Muhammed e la sua famiglia non erano scappati: non è facile spostarsi con un ragazzo con i suoi problemi. Un giorno, i militari israeliani hanno sfondato la porta della loro casa. Lo hanno fatto senza alcuna autorizzazione o permesso. E senza alcun motivo. Appena dentro, hanno liberato i cani che si sono avventati su Muhammed e hanno iniziato a morderlo. I militari hanno costretto i familiari e la madre di Muhammed, Nabila Ahmed Bhar, a uscire sotto la minaccia delle armi. Uscendo hanno visto che il ragazzo “urlava e cercava di liberarsi mentre il sangue scorreva”. “Il cane gli ha morso il petto, poi ha iniziato a mordergli e a tirargli il braccio” ha raccontato la madre di Muhammed ad un giornale. Non hanno potuto fare niente. Qualche giorno dopo, le truppe israeliane si sono ritirate da Shujaiya. Allora i parenti di Muhammed sono tornati per cercarlo. Hanno trovato il suo corpo ormai in decomposizione, con i vermi che gli mangiavano il viso martoriato dai morsi dei cani che lo avevano sbranato. “Non riesco a smettere di pensare alle sue urla e all’immagine di lui che cerca di liberarsi”, ha detto la madre.
Per i più “fortunati”, quelli che non sono morti, anche se gravemente feriti, la vita è un inferno. Il numero di bambini gravemente mutilati e amputati è enorme. E il loro futuro, come quello di molti bambini coinvolti in guerre inutili, è segnato. La gente vive sotto il continuo timore dei bombardamenti: il ronzio dei droni è costante e l’aria è satura dell’odore di esplosivi e polvere da sparo. UNICEF ha definito la Striscia di Gaza “il posto più pericoloso al mondo per essere un bambino” [1]. Per chi sta in un altro continente, magari comodamente seduto a casa, non è facile immaginare cosa possa significare essere bambino e vivere (o cercare di non morire) in una situazione come questa. Gli aiuti promessi (e obbligatori per il Diritto Internazionale Umanitario) non arrivano: il ponte costruito dagli americani per scaricare gli aiuti che arrivano via mare è stato rimosso quasi subito (hanno detto per il mare mosso). E quelli che arrivano via terra sono centellinati: come in altre guerre, la maggior parte restano bloccati alla frontiera dalle forze armate che controllano il territorio. Recentemente, un senatore democratico degli USA, Jeff MERKLEY, dell’Oregon, ha definito il processo per l’autorizzazione degli aiuti da parte delle autorità israeliane opaco e incoerente: “Gli articoli che sono consentiti in un giorno possono essere rifiutati il giorno successivo…”. In realtà, sembra che le lunghe colonne di camion carichi di aiuti forniti da molte associazioni umanitarie e incolonnate per giorni siano utilizzate per bloccare i valichi di frontiera [2]. Per un bambino non è possibile capire fino a che punto si possa odiare i propri simili. Tanto da non far arrivare il latte ai neonati che hanno perso la madre. O le medicine e i medicamenti per un adolescente ferito gravemente dalle bombe.
In queste condizioni non è facile per un medico aiutare le vittime di guerra. È quasi impossibile. Non soltanto per la mancanza di ogni genere di genere di medicina o medicamento.
[10] AA.VV., Global Peace Index, Conflict deaths at highest level this century causing world's peacefulness to decline, IEP [11] Merkley Calls for Ceasefire and Massive Increase in Humanitarian Aid for Gaza on U.S. Senate Floor – YouTube
E nemmeno per la mancanza di servizi di base come l’acqua corrente (da anni, bloccare l’accesso all’acqua è una delle armi utilizzate dagli israeliani per dissuadere i palestinesi a vivere a Gaza). Ma per un altro motivo: quando mettono le mani sui pazienti più gravi si rendono conto che, durante le guerre, molte volte la crudeltà umana supera ogni limite. A Gaza, dopo essersi insediati nell’ospedale sovraffollato (1.500 persone ricoverate in un ospedale da 220 posti letto), con decine di migliaia di persone che cercavano rifugio intorno e dentro l’ospedale in una situazione invivibile con le unità di terapia intensiva che puzzano di marciume e morte e il terreno dell’ospedale che puzza di liquami, alcuni medici si sono accorti che sotto i ferri finiva un numero impressionante di adolescenti e preadolescenti con ferite da arma da fuoco alla testa. Non si trattava di bambini che si erano feriti involontariamente o che erano stati colpiti da un’esplosione. E neanche di una delle tante vittime dell’attacco di Israele all’ospedale pediatrico (secondo quanto riferito, ha lasciato morire i neonati in un’unità di terapia intensiva pediatrica) [1]. No. Le ferite da arma da fuoco alla testa erano i colpi dei cecchini che avevano sparato volontariamente ai bambini per ucciderli.
Ogni tanto i telegiornali trasmettono immagini dei feriti di un attentato (a Gaza o in uno dei tanti luoghi dove sono in corso conflitti armati). Mostrano la corsa intorno alle ambulanze con la gente che porta in braccio i feriti. Ma non è niente rispetto a quello che si vede in un ospedale pieno di bambini e adulti colpiti da bombe e armi di ogni genere. Ammissibile o no, secondo i regolamenti delle Nazioni Unite. Definire questa situazione “emergenza” è un eufemismo. Spesso a questi problemi se ne aggiunge un altro: la mancanza di personale. Tra i civili palestinesi uccisi molti erano medici o paramedici. Secondo alcune fonti, dal 7 ottobre 2023 a marzo 2024, sono almeno 500 gli operatori sanitari e 278 gli operatori umanitari uccisi a Gaza nell’ultimo periodo [2]. “Civili” uccisi dei quali non parla nessuno. Neanche quando si tratta di uomini e donne capaci di comportamenti eroici. Come il Dottor Amy Goodman (anche in questo caso la D non è un caso). Il 31 ottobre, in un’intervista a Democracy Now, il Dottor Goodman aveva cercato di spiegare il motivo per cui aveva deciso di rimanere in Palestina: “Se me ne vado, chi cura i miei pazienti? Non siamo animali. Abbiamo il diritto di ricevere un’adeguata assistenza sanitaria. Quindi non possiamo semplicemente andarcene” [3]. Pochi giorni dopo, il Dottor Goodman è stato ucciso dalle bombe scagliate senza alcun motivo sulla sua casa da un aereo israeliano [4]. Oltre a lui sono stati uccisi tre membri della sua famiglia. Sono andati ad aumentare il numero dei morti e feriti civili riportati nei rapporti delle autorità. Loro sono morti. Ma il numero dei morti no. È “stimato”. Sì. Perché il numero esatto non è noto a nessuno.
Che fine fanno i cadaveri dei civili colpiti dalle bombe (e non solo)? A volte sono i familiari che cercano di seppellirli come possono.
[12] Int'l committee must be formed to investigate Israeli army’s abandonment of five infants, now dead, alone in Gaza hospital, Euro-Med Human Rights Monitor [13] 500 healthcare workers killed during Israel’s military assault on Gaza, MAP 26, giugno 2024 [14] Gaza Doctor Says Hospitals Have to Choose Who Lives and Who Dies Amid Worsening Humanitarian Crisis, Democracy Now! [15] Vanessa Romo, Remembering Gazan Dr. Hammam Alloh, killed by an Israeli airstrike, NPR 21 novembre 2023
Altre volte restano dove sono stati barbaramente uccisi senza sapere nemmeno perché. E senza che i loro parenti abbiano più notizie di loro. Recentemente una bambina colpita da una bomba è stata portata in ospedale e operata d’urgenza. Appena sveglia ha chiesto: “Wain baba?” (Dov’è papà?). I sanitari hanno cercato di rassicurarla dicendo che sarebbe arrivato presto. “Stai mentendo”, ha detto lei calma. “Deve essere morto”. Ma il suo cadavere non è stato più ritrovato.
Come in America Latina dove il numero dei desaparecidos, degli scomparsi è incalcolabile. Alle madri ai parenti degli scomparsi non resta che scavare in alcuni siti sperando di trovare il corpo del proprio congiunto. O una fossa comune con decine e decine di cadaveri irriconoscibili. Per cercare di risalire alla loro identità recentemente si è cercato di ricorrere all’intelligenza artificiale. director Santiago Barros ha riprodotto con l’AI i volti di molti desaparecidos, bambini e bambine sequestrati dai cartelli o molti anni fa durante la dittatura argentina, oppure tolti alle madri appena nati nei luoghi di prigionia. Ha prodotto centinaia di volti per dare la pace a chi da anni cerca il proprio figlio o la propria figlia senza sapere se è morto/a. Oggi sono sempre più numerose le famiglie dei desaparecidos che chiedono a Barros di disegnare il volto del loro familiare. Come ha detto Barros, la reazione di questi genitori dopo aver visto le immagini ricostruite con l’AI è commovente: rivedevano i loro parenti, anche se attraverso foto false non reali solo ricostruite al computer.
Le conseguenze psicologiche
Il caso della bambina palestinese colpita dalle bombe nella Striscia di Gaza ricorda quello di molti suoi coetanei. Casi commoventi di cui non parla nessuno (con qualche rarissima eccezione).
Come quello di Selma Baćevac. La “sua” guerra è iniziata nel 1992, in Bosnia. A quel tempo, Selma aveva sette anni. Viveva a Sarajevo. Come per la bambina palestinese anche il padre di Selma è scomparso, ucciso durante i combattimenti. Lei è sopravvissuta ai bombardamenti nascondendosi dove poteva ogni volta che sentiva esplodere un ordigno. A distanza di tanti anni (e a tanti chilometri di distanza: ora vive negli USA), i segni della guerra sono ancora vivi nelle sue parole. “Sono accadute così tante atrocità che potrei parlare con te per ore e non basterebbero”. Selma racconta che nei disegni che faceva da bambina (come in quelli di molti altri bambini come lei) compaiono sempre immagini di bombe ed esplosioni e morti. Spesso i traumi psicologici delle guerre sui bambini non si rimarginano. “Da bambina, quando non provi la sicurezza, influisce sulla tua capacità di relazionarti con te stesso”, dice Selma. “Influisce sulla tua capacità di fidarti del tuo ambiente. Questo influisce sulla tua capacità di fidarsi degli adulti [1]. Abbiamo paura di impegnarci, paura di stabilire dei limiti, paura di parlare, paura di essere visti”.
È uno dei problemi delle guerre di cui non si parla mai: spesso i civili non sono colpiti solo fisicamente, ma psicologicamente. Le conseguenze delle guerre vanno ben oltre i traumi legati allo stress momentaneo. “Abbiamo un certo numero di casi di bambini con disturbo da stress post-traumatico che sono stati trasferiti all’ospedale psichiatrico, abbiamo anche casi simili tra gli adulti”, ha detto Rasha Mohamed Taher, capo della divisione di salute mentale presso il ministero della salute sudanese nello Stato del Mar Rosso. “La cosa che possiamo fare ora per i bambini è sostenerli e alleviare gli impatti psicologici negativi su di loro”.
Durante le guerre bambini, adolescenti e adulti sono soggetti a quella che molti psicologi definiscono “una brutale frantumazione di parti dei loro mondi interiori. Il loro funzionamento mentale è assalito da forze distruttive”. Traumi psicologici spesso legati anche alla perdita di sicurezza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’UNICEF calcolano che sono almeno 20 milioni i bambini e gli adolescenti sfollati dal loro paese di origine come rifugiati nell’anno 2023. Per molti di loro, le ferite più gravi potrebbero essere quelle che non si vedono.
Negli ultimi due decenni si è visto un crescente interesse per l’impatto psicologico della guerra sui bambini. Molti ricercatori hanno studiato questi fenomeni. Oggi è dimostrato che l’esposizione a eventi avversi (tra cui violenza e traumi di guerra) porta a un’incidenza superiore alla media di disturbo acuto da stress, disturbo da stress post-traumatico o PTSD e a malattie fisiologiche e mentali. Nella sola Ucraina, circa metà di tutti i rifugiati sono bambini. Come ha detto una ricercatrice, “si tratta di un sacco di bambini che hanno perso le loro case, amici, quartieri, scuole e molto altro ancora”. Per i bambini, gli effetti più comuni sulla loro salute mentale dell’esposizione alla guerra sono sintomi elevati di stress traumatico, disturbi depressivi, stati d’ansia e stress post-traumatico [2].
I dati riportati nello studio della CRI sono tremendi. Tra i bambini colpiti dal conflitto israelo-palestinese si rileva una prevalenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) che varia dal 18 per cento al 68,9 per cento [3]. In uno che ha analizzato i dati riguardanti bambini esposti alla guerra civile siriana, il 60,5 per cento soddisfa i criteri per almeno un disturbo psicologico. Diversi i disturbi psicologici. Reazioni acute allo stress, disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), disturbo di panico, disturbi d’ansia specifici dell’infanzia e disturbi del sonno. Nella tarda infanzia, i bambini esposti a traumi legati al conflitto sono predisposti a sintomi esternalizzanti, inclusi problemi comportamentali e disturbi di condotta/opposizione provocatoria.
Di queste conseguenze delle guerre si parla poco. Troppo poco. Invece, secondo gli psicologi, sarebbe fondamentale agire entro quelle che alcuni chiamano le “ore d’oro”, un lasso di tempo limitato immediatamente successivo al trauma entro il quale è possibile limitare danni a medio e lungo termine (come disturbi da stress post-traumatico, ansia e depressione). Subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina, dopo l’invasione da parte della Russia, alcuni ricercatori hanno condotto uno studio per valutare gli effetti dei conflitti armati sulla salute mentale degli adolescenti della regione di Donetsk dove il 60 per cento degli adolescenti aveva assistito ad attacchi armati,
[16] Driehuis, S.R., The Relationship between Childhood Trauma and Epistemic Trust: A cross-sectional Study, Utrecth University, 2021 [17] Corinne Masur, In che modo la guerra e le perdite influiscono sui bambini, Psychology Today 9 luglio 2024 [18] Living through war: Mental health of children and youth in conflict-affected areas, International Review of the Red Cross
quasi il 14 per cento era stato vittima di violenza diretta e quasi il 28 per cento era stato costretto a lasciare la propria casa. Successivamente i risultati sono stati confrontati con test effettuati su adolescenti che vivono a Kirovograd, in una zona dell’Ucraina allora non colpita dagli scontri. Gli adolescenti che vivevano nella regione di Donetsk hanno dimostrato tassi significativamente più elevati di PTSD. Alcuni medici e psicologi hanno cercato di usare il “primo soccorso per la salute mentale”, nel tentativo di ridurre gli effetti psicologici sulle persone che coinvolte nel conflitto. Secondo alcuni studiosi, questi approcci aiuterebbero le persone a riprendersi più velocemente una volta finita la guerra. “L’idea è che abbiamo davvero bisogno di raggiungere le persone in una fase molto precoce dopo l’esposizione al trauma, al fine di essere in grado di prevenire le conseguenze sulla salute mentale”, ha dichiarato Frankova a BBC Future, un anno dopo l’inizio della guerra. Gli studi suggeriscono che questi piccoli atti di sostegno – a volte semplici fino a sembrare banali, come ricordare a qualcuno che non sono soli – riduce il rischio di trovarsi in condizioni più gravi e difficili da risolvere [1]. Le “ore d’oro” si riferiscono alle prime ore fino a circa tre giorni dopo un’esperienza traumatica, una fase cruciale per il consolidamento della memoria. “È una finestra di opportunità in cui la memoria a breve termine potrebbe non diventare memoria a lungo termine”, afferma Frankova. “Il nostro compito era quello di dire alle persone esattamente cosa sarebbe stato dannoso e cosa sarebbe stato utile”. Per gli operatori di salute mentale in prima linea, ci sono due fasi cruciali del supporto precoce. Il primo è il più direttamente paragonabile al primo soccorso fisico convenzionale, afferma Agatha Abboud, responsabile della salute mentale e del supporto psicosociale per il Comitato internazionale della Croce Rossa a Kiev. “È il triage di persone che hanno bisogno di parlare con qualcuno solo per calmarsi, solo per essere radicate, per ricordare l’ambiente circostante, chi le circonda”, dice la Abboud. “Perché questo è il periodo in cui le persone si sentono più agitate o più ansiose”. Dopo questo immediato primo soccorso psicologico arriva la fase di “intervento precoce”. “È simile con qualsiasi condizione medica: prima si tratta la condizione, meno è probabile che diventi complessa in futuro”. “Se lo trascuri, sicuramente, potrebbe trasformarsi in qualcosa di più serio. E qui in Ucraina non stiamo parlando di una persona che attraversa una situazione. È un’intera popolazione che sta attraversando la stessa situazione”.
A volte, durante una guerra o un disastro naturale, è facile sentire dire che i bambini sono “resilienti”. Secondo alcuni esperti questo è vero [2], ma solo se questi adolescenti possono beneficiare di particolari fattori protettivi, come uno stretto legame con un caregiver vicino e in buona salute [3]. Quando questo non avviene, le conseguenze dei traumi delle guerre sono drammatiche. Decenni di ricerche in questo settore hanno confermato che i traumi vissuti durante l’infanzia possono avere effetti gravi sul sistema nervoso di un bambino, cambiando il suo percorso di sviluppo, il suo rischio di disturbi psicologici e, persino, la sua salute fisica a lungo termine.
In Egitto, uno dei paesi dove è in corso una delle guerre che non interessano a nessuno, uno studio condotto su 515 bambini in età scolare ha fornito risultati preoccupanti: molti minori hanno mostrato tassi elevati di depressione (il 62 per cento), PTSD (il 70 per cento) e sintomi associati all’ansia,
[19] Melita J Giummarra, Alyse Lennox, Gezelle Dali, Beth Costa, Belinda J Gabbe, Early psychological interventions for posttraumatic stress, depression and anxiety after traumatic injury: A systematic review and meta-analysis, National Library of Medicine, 5 maggio 2018 [20] Resilience, Centre of the Developing Child [21] Emmy E. Werner, Children and war: Risk, resilience, and recovery, Development and Psychopathology Cambridge, 17 aprile 2012
come palpitazioni cardiache (il 53,1 per cento) o paura di rimanere a casa da soli (il 61,2 per cento), paura di essere attaccati o uccisi nella propria casa (il 73 per cento) e paura di essere rapiti (loro stessi o i loro familiari) (l’81 per cento). “Essere così indifesi in queste condizioni altera drasticamente la fiducia di un bambino nella sicurezza di qualsiasi futuro”, ha commentato il dottor Thomas.
Pur essendo ben noti gli effetti dei conflitti armati sui civili, permane una notevole discrepanza tra la voglia di comprendere gli effetti delle esperienze legate alla guerra sullo sviluppo dei bambini e la disponibilità di dati (Burgund Isakov et al., 2022). Spesso mancano i dati sugli effetti delle guerre in corso sui civili. In particolare i danni sui più piccoli [1]. La domanda è: quando un intero paese è sotto assedio, le infrastrutture sono prese di mira e il movimento all’aperto è pericoloso o impossibile, come si fa a fornire queste informazioni essenziali prima che scadano le “ore d’oro”? Una situazione comune a molti paesi in guerra. Spesso appare utopistico sperare di poter fare ricorso a tecniche di recupero come queste quando per i civili non c’è nemmeno l’acqua per sopravvivere.
Guerre fratricide
Gloria è una dei quasi 40 mila rifugiati fuggiti dal Burundi: sono molti quelli che sono scappati. Hanno lasciato il proprio paese per fuggire dealla violenze subite e dalla condizione di instabilità ormai insostenibile. Dal 2015, si contano più di 400 mila burundesi fuggiti per cercare rifugio in paesi confinanti come Tanzania, Ruanda, Repubblica Democratica del Congo o Uganda. Molti cercano di attraversare il confine con la Repubblica Democratica del Congo (RDC). Gloria è una dei quasi 40.000 mila rifugiati burundesi che hanno attraversato il confine con il Congo. Appena varcata la frontiera ha atteso a lungo di essere registrata come rifugiata. Ma i centri di accoglienza dove vengono registrati i nuovi arrivati erano stracolmi. “Stiamo aspettando un posto nel centro di transito da oltre 4 mesi. Di notte dormiamo fuori, sentiamo gli spari e abbiamo paura. Anche il campo profughi nella regione del Sud Kivu è stracolmo: più di 29.000 rifugiati sono ospitati in un campo costruito per ospitarne circa la metà. Vogliamo avere un posto nel campo profughi in modo da poter essere al sicuro”, ha detto Gloria a Voices of Refugees [1].
In Sudan la guerra non è iniziata pochi mesi fa, come si potrebbe pensare seguendo i media. Per molti mesi i media non hanno dedicato nemmeno una parola agli orrori che avvenivano in questo paese. Poi, improvvisamente, l’attenzione mediatica è stata concentrata su questa guerra (c’è chi dice per distrarre da altre guerre, delle quali si preferisce non parlare). Anche qui, come in altri campi di battaglia, vedere distrutta la propria casa, il luogo sicuro per eccellenza, è traumatico per un adulto ma ancora di più per un bambino. In alcune zone non c’è più acqua potabile. In un paese abituato a vivere con lunghi periodi di siccità può sembrare impossibile che questo causi dei traumi. Ma esiste un grande differenza tra essere costretti a fare ogni giorno decine di chilometri per prendere l’acqua per bere (con il rischio di essere rapiti, colpiti o uccisi dai gruppi armati) e non poterlo fare perché non c’è più un posto da cui attingere.
[22] Livia Hazer, Gustaf Gredebäck, The effects of war, displacement, and trauma on child development, Humanities and Social Sciences Communications, 5 dicembre 2023 [23] Voices of Refugees
In Sudan, il 50 per cento della popolazione totale – più di 24,7 milioni di persone, di cui quasi 14 milioni sono bambini – ha grande bisogno di assistenza umanitaria. In questo paese è in atto la più grande crisi di fuga dei bambini al mondo: sono oltre 4,6 milioni i minori costretti a fuggire dalle proprie abitazioni da aprile 2023. Quasi un milione di bambini si trova già oltre confine, in paesi come Ciad, Egitto e Sud Sudan. Anche qui, sono i bambini i più colpiti da incertezza, traumi e violenze. I tassi di insicurezza alimentare, qui come in Sudan, sono allarmanti e la situazione peggiora giorno dopo giorno: ormai sono più di 18 milioni le persone che soffrono di livelli acuti di insicurezza alimentare. Molte famiglie sono rimaste per giorni senza cibo a causa della crisi nel paese colpito dalla guerra. La situazione era preoccupante già prima della guerra: il Sudan ha uno dei tassi più alti di malnutrizione infantile a livello globale. Ora la situazione è peggiorata ulteriormente: le previsioni parlano di circa 3,7 milioni di bambini sotto i cinque anni che soffriranno di malnutrizione acuta. Di questi, 730mila soffriranno di malnutrizione acuta grave. Una condizione pericolosa per tutta la vita. Molti di questi bambini porteranno per tutta la vita i segni della malnutrizione: da adulti non potranno fare le stesse cose che fanno i loro coetanei più fortunati. Nei paesi in guerra non è difficile che si diffondano epidemie debellate o sconosciute, come morbillo e malaria. A causarle sono i danni al sistema igienico sanitario e il calo del tasso di immunizzazione di routine. Ma in Sudan i rischi sono maggiori: un bambino su sei è completamente privo di protezione. Undici milioni di persone, quasi un terzo della popolazione, avevano bisogno di interventi urgenti di acqua, servizi igienico-sanitari e igiene (WASH), mentre le malattie legate al WASH, come la diarrea e il colera, rimangono ad alto rischio a causa della mancanza di servizi igienici adeguati.
Mentre militari e ribelli combattono per il controllo delle materie prime da vendere ai paesi sviluppati, in Sudan (come in Ucraina e in altri paesi) i livelli di istruzione sono crollati: sono 17 milioni i bambini che non vanno regolarmente a scuola. E senza un’istruzione, il loro futuro è segnato per sempre. Nell’area del Medio Oriente e del Nord Africa, il Sudan ospita il maggior numero di bambini che non vanno a scuola [1]. Le ragazze, i più piccoli colpiti da conflitti, i rifugiati, gli sfollati interni, i bambini che vivono nelle aree rurali e quelli che vivono nelle famiglie più povere sono i più vulnerabili. In Sudan il tasso di alfabetizzazione delle ragazze è particolarmente basso: il 45,2 per cento delle ragazze e delle donne di età compresa tra i 15 e i 24 anni non è in grado di leggere o scrivere. Prima il COVID-19 poi la guerra hanno ridotto ulteriormente le opportunità di scolarizzazione.
Violenze contro donne e ragazze
[24] Children in the Middle East and North Africa, The children’s right situation in the Middle East and North Africa, by country, Humanium
Durante le guerre, spesso si registra un aumento delle violenze su donne e ragazze. Nel 2017, in Darfur, i casi di violenze sessuali e aggressioni su donne e ragazze mentre andavano a scuola o a prendere l’acqua erano diminuiti. Era la conseguenza del cessate il fuoco del 2016 e della decisione degli Stati Uniti d’America di revocare le sanzioni economiche nei confronti del Sudan (Coalizione globale per proteggere l’istruzione dagli attacchi, 2018). Ora i casi sono di nuovo tantissimi.
Abiy Addi, è una ragazza con grandi progetti: vuole studiare per diventare ingegnere, per consentire una vecchiaia tranquilla al nonno, unico familiare ancora in vita. Per una bambina africana, è un’ambizione eccezionale: la percentuale di ragazze che non riesce nemmeno a raggiungere la scuola media è altissima. Situazione ancora più difficile per una bambina che vive in Etiopia e per di più in una zona di guerra dove da anni sono in corso scontri tra le forze ufficiali nazionali e gruppi combattenti nella zona del Tigray. Abiy racconta che, un giorno, un soldato che indossava l’uniforme dell’esercito etiope è entrato nella loro casa dicendo di essere alla ricerca di combattenti tigrini. Dopo aver perquisito la casa e non aver trovato nessuno, il soldato ha portato fuori il nonno di Abiy e gli ha sparato alle spalle. Convinto di averlo ucciso, il militare è rientrato in casa e ha violentato la ragazzina. Poi l’ha presa a pugni. Ma non era ancora contento: “mi ha sparato tre volte alla mano destra. Mi ha sparato alla gamba tre volte. Se n’è andato quando ha sentito uno sparo dall’esterno”, ha raccontato Abiy. Il nonno non era morto. Ha chiamato i soccorsi. A causa delle ferite riportate, Abiy è stata ricoverata in un ospedale nella regione settentrionale del Tigray per mesi. I medici non sono riusciti a fare il miracolo: alla fine Abiy ha perso l’uso della mano destra. Quello di Abid non è un caso isolato. Pramila Patten, l’inviata delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti ha dichiarato che ci sono state “notizie inquietanti di individui presumibilmente costretti a stuprare membri della propria famiglia, sotto la minaccia di violenze imminenti” [1]. “Secondo quanto riferito, alcune donne sono state costrette da elementi militari ad avere rapporti sessuali in cambio di beni di prima necessità, mentre i centri medici hanno indicato un aumento della domanda di contraccezione d’emergenza e di test per le infezioni sessualmente trasmissibili, che è spesso un indicatore di violenza sessuale nei conflitti”. La Commissione etiope per i diritti umani ha detto che sono stati segnalati centinaia di casi di stupro in tutto il Tigray. Un medico che lavora in un ospedale di Mekelle ha raccontato che sono frequenti i casi di donne e ragazze che si sono recate in ospedale chiedendo farmaci anti-HIV e contraccezione d’emergenza. Sono i segni inequivocabili che sono state vittime di stupro. Per Weyni Abraha, che fa parte del gruppo per i diritti delle donne del Tigray Yikono (Basta) ed è stata a Mekelle fino a pochi mesi fa, spesso lo stupro viene usato come arma da parte dei gruppi armati. “Molte donne sono state violentate a Mekelle. Questo viene fatto apposta per spezzare il morale della gente, minacciarla e farla rinunciare alla lotta”.
Abiy voleva studiare ingegneria per prendersi cura del nonno. Dopo quello che le è capitato, non è chiaro che ne sarà della sua vita.
[25] United Nations Special Representative of the Secretary-General on Sexual Violence in Conflict, Ms. Pramila Patten, urges all parties to prohibit the use of sexual violence and cease hostilities in the Tigray region of Ethiopia, 21 gennaio 2021
Attacchi alle scuole
I dati sono impressionanti: i bambini che vivono in paesi colpiti da conflitti armati hanno il 30 per cento in meno di probabilità di completare la scuola primaria rispetto a quelli dei paesi non colpiti da conflitti. Per quelli che riescono a scappare, ad allontanarsi dalla guerra, la situazione cambia ma non molto: solo il 50 per cento dei bambini rifugiati ha accesso all’istruzione primaria, rispetto ad una media globale superiore al 90 per cento. Nel 2017, 64 milioni di bambini in età primaria, ovvero il 9 per cento della popolazione in età primaria, non hanno frequentato nessuna scuola. Da allora la situazione non è migliorata considerevolmente. I bambini che vivono nei paesi poveri e quelli colpiti da fragilità e conflitti hanno maggiori probabilità di non poter andare a scuola. Una lacuna che avrà conseguenze pesanti sulle generazioni future in termini di salute, reddito, uguaglianza e benessere psicologico. E che alimenterà il ciclo della povertà. Da non dimenticare anche un altro aspetto: più a lungo viene impedito ai bambini di andare a scuola, più crescono le probabilità che non ci tornino più.
Nel 2013, quando è scappato dalla guerra in Siria, Samer aveva 16 anni. Come per molti suoi coetanei, la sua rassegnazione sulla possibilità di poter completare gli studi è deprimente: “Non tornerò a scuola. Ho perso la mia volontà ora, dopo averla persa per due anni”. Anche se gliene fosse data la possibilità, sarebbe rimasto troppo indietro con le lezioni e richiederebbe molto più tempo per tornare a pieno regime. “Per me e la mia generazione, il futuro non è chiaro”. Il caso di Samer non è l’unico. Nell’indifferenza più totale ci sono generazioni di ragazzi ai quali nessuno è riuscito a garantire il diritto fondamentale a un’istruzione di qualità. Perdere i primi anni di istruzione primaria lascia molti bambini irrimediabilmente indietro. Senza il giusto supporto, molti non riescono a recuperare o imparare. E non potranno mai sfruttare al massimo le proprie potenzialità [1].
Durante le guerre, a peggiorare la situazione sono i danni alle scuole. Nonostante gli accordi internazionali, i trattati e le convenzioni, non c’è guerra dove le scuole sono sono state obiettivo di attacchi disumani. Nel 2020, l’UNICEF ha registrato 535 attacchi accertati alle scuole. Nonostante le chiusure legate alla pandemia di quell’anno, si tratta di un dato considerevole che mostra un aumento del 17 per cento rispetto agli attacchi del 2019. Ancora peggiori i dati della Global Coalition to Protect Education from Attack: parlano di oltre 5mila attacchi segnalati all’istruzione e all’uso militare di edifici scolatici e università tra il 2020 e il 2021 in 85 paesi. Il rapporto del 2022 “Educazione sotto attacco” parla di una media di sei attacchi al giorno[2]. Preoccupante la concentrazione di questi assalti in alcuni paesi: nella sola Repubblica Democratica del Congo si sarebbero verificati oltre 400 attacchi contro le scuole [3].
In Sudan, sono molte le scuole che hanno subito attacchi durante la guerra [4]. Dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011, la regione del Darfur e lo stato del Kordofan meridionale sono stati oggetto di scontri per un decennio. Nel 2013 e nel 2014, gli attacchi governativi e i bombardamenti aerei sulle scuole sono aumentati. A volte le scuole sono state utilizzate come basi operative dai corpi armati. E molti bambini e insegnanti sono diventati bersagli facili.
[26] What does Quality Education mean? Breaking down SDG #4, Concern Worldwide US [27] Jerome Marston and Marika Tsolakis et al., Education under attack, UNICEF 2021 [28] Congo, Concern Worldwide US [29] Violence - Humanium
Questo ha avuto un impatto terribile sull’accesso dei bambini all’istruzione. Oltre che, ovviamente, sulla loro salute. Le insicurezze legate ai conflitti portano molti bambini a rinunciare ad andare a scuola. Ma non basta: per un bambino la scuola è il secondo luogo sicuro (dopo la propria abitazione). Ma quando la scuola diventa un obiettivo militare tutto questo viene stravolto. Qualche anno fa, un giornalista della BBC Fateh Al-Rahman Al-Hamdani ha condotto un’indagine all’interno di 23 scuole del Sudan, o khalwa. Il risultato è terribile: i ragazzi venivano spesso picchiati e ammanettati, frustati e aggrediti sessualmente. I responsabili di queste scuole sono stati visti aggredire i bambini. A seguito di questa inchiesta giornalistica, il governo ha iniziato un’indagine su tutti i khalwa in Sudan (più di 30 mila in tutto).
La sicurezza nelle scuole e delle scuole durante i conflitti armati è un problema che non riguarda solo il Sudan: in tutto il mondo, ovunque c’è una guerra, le scuole sono state attaccate. In Myanmar, l’intensificarsi dei combattimenti nella guerra civile ha portato a un forte aumento degli attacchi alle scuole. Secondo l’associazione Myanmar Witness, questi attacchi hanno ulteriormente messo a dura prova il già frammentato sistema scolastico del Myanmar, privando milioni di bambini dell’accesso all’istruzione. Un problema che si aggiunge al fatto di averli costretti ad abbandonare la propria casa, a saltare le vaccinazioni e a soffrire di un’alimentazione inadeguata. Nel Myanmar, da quando i militari hanno preso il potere, pochi anni fa, sono stati registrati non meno di 174 attacchi a scuole e università. Altri gruppi hanno parlato di un numero maggiore di attacchi. La Global Coalition to Protect Education from Attack ha contato oltre 245 segnalazioni di attacchi alle scuole e 190 segnalazioni di uso militare di strutture educative nel 2022-23 [1].
Ad essere colpite non solo le scuole come infrastrutture ma anche il sistema educativo nel suo insieme. A cominciare dagli studenti. Anche quelli universitari. Qualche giorno fa, un gruppo di studenti dell’Università di Debark in Etiopia è statao rapito: erano saliti su un autobus per tornare a casa alla fine dell’anno accademico, ma non sono mai arrivati a casa. Qualche giorno dopo, alcuni dei familiari hanno ricevuto una chiamata dai cellulari dei loro congiunti. Al telefono uno sconosciuto che ha detto loro che, se volevano rivedere i propri cari, avrebbero dovuto sborsare 700mila birr etiopi (12 mila dollari). La conferma di ciò che temevano: i loro ragazzi, le loro figlie erano stati rapiti dai guerriglieri. Un gruppo di uomini armati hanno costretto i ragazzi a dirigersi verso una remota area rurale dove si ritiene che operi il gruppo ribelle dell’Esercito di Liberazione Oromo (OLA). Ma il portavoce dell’OLA, Odaa Tarbii, ha negato ogni coinvolgimento. Non è la prima volta che si verificano casi del genere in Etiopia: nel 2019, 18 studenti universitari di Oromia vennero rapiti da aggressori armati. Non sono più stati ritrovati. A marzo scorso, è stata rapita una studentessa di 16 anni. I sequestratori hanno chiesto ai genitori un riscatto di tre milioni di birr. La famiglia ha denunciato il rapimento alla polizia. A giugno è stato ritrovato il cadavere della ragazza. Secondo la Commissione etiope per i diritti umani (EHRC) durante i sequestri ragazzi e ragazze spesso subiscono torture e crudeltà di ogni tipo.
Education Under Attack EUA sostiene che i casi di attacchi a ragazze a scuola durante conflitti armati si sono verificati in almeno 11 paesi, tra cui Afghanistan [2] e Pakistan [3]. L’EUA segnala anche l’uso di armi esplosive in attacchi a scuole in Afghanistan, Siria e Yemen (tra gli altri). Anche quando non sono vittime dirette di questi attacchi, per le ragazze sono maggiori le probabilità di perdere la possibilità di completare il proprio percorso di istruzione a causa di conflitti, di essere tenute a casa “per la loro sicurezza” – soprattutto durante gli spostamenti da e verso la scuola – o di essere costrette a matrimoni precoci come mezzo per far fronte all’impatto economico che il conflitto ha sulle famiglie vulnerabili [1].
[30] Grant Peck, Myanmar resistance movement senses the tide is turning against the military 3 years after takeover, AP, 1 febbraio 2024 [31] Afghanistan, Concern Worldwide US [32] Pakistan, Concern Worldwide US
Non solo donne…
I morti degli scontri in Sudan sono migliaia, decine di migliaia. Non esiste un numero certo (anche a causa del problema legato ai casi di neonati non registrati alla nascita). Molte delle vittime sono donne, spesso ancora ragazze. Violenze che a volte assumono l’aspetto di attacchi sessisti o razzisti. Molte ragazze Masalit che hanno detto di aver subito violenze sessuali [1]. Ma le vittime non sono solo donne e ragazze: spesso ad essere sotto attacco sono anche i maschi. Un recente report pubblicato dalla Reuters ha riportato le testimonianze di decine di madri sudanesi della tribù Masalit i cui figli sono stati uccisi dai combattenti dell’RSF.
Bambini come Ibrahim Saleh, di 2 anni. Dopo un attacco durato settimane Ibrahim, sua sorella e la loro madre, Safaa Abdel Karim, sono scappati dalla città sudanese di El Geneina dove miliziani arabi avevano sparato, accoltellato e bruciato molti membri della tribù. Per questo Ibrahim e i suoi familiari hanno cercato di fuggire nel vicino Ciad fermato. A 10 chilometri dal confine, le forze paramilitari arabe e i miliziani li hanno intercettati. Hanno ordinato a Safaa di consegnare Ibrahim. Poi lo hanno ucciso colpendolo con dei bastoni. “Hanno detto che se il ragazzo cresce, ci combatterà”, ha detto la madre di Ibrahim con l’altra figlia in braccio [2]. Delle decine di madri che hanno denunciato che i loro figli sono stati uccisi, sei hanno detto di aver visto i loro figli, alcuni di appena sei mesi, essere stati giustiziati e picchiati a morte. Anche il figlio di Aziza Adam Mohammed, 28 anni, è stato ucciso mentre fuggivano in Ciad con un gruppo di altri rifugiati. Quando i miliziani hanno affrontato il gruppo, “hanno gridato: sparate, sparate ai ragazzi” [3].. Il figlio di Aziza aveva solo sei mesi. Il leader della tribù sostiene che gli attacchi di quest’anno fanno parte di una campagna per sterminare il suo popolo.
Ma di tutto questo ai leader mondiali sembra importare poco [4]. Gli operatori delle Nazioni Unite in Ciad hanno raccolto informazioni su più di un quarto dei 484 mila rifugiati fuggiti dal Sudan quest’anno che risiedono nei campi lungo il confine. Sulla base di questi dati, l’ONU stima che le femmine adulte che hanno attraversato il confine sono quasi il doppio rispetto ai maschi. Segno che molti maschi non ce l’hanno fatta a raggiungere il confine. Il divario pare essere meno pronunciato tra i più piccoli, dove c’è quasi parità tra il numero di maschi e femmine. Ana Scattone, responsabile della protezione di emergenza presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati nella città di confine ciadiana di Adre, ha affermato che il targeting dei maschi ha un significato di più vasta portata.
[33] Lincoln Ajoku, Child marriage and education, Concercn Worldwide US, 3 settembre 2020 [34] http://widespread/ [35] Maggie Michael Ryan Mc Neill, How Arab fighters carried out a rolling ethnic massacre in Sudan, Reuters, 22 settembre 2023 [36] I combattenti arabi hanno ucciso ragazzi e uomini in guerra contro la tribù sudanese, dicono le madri, Reuters [37] https://www.reuters.com/investigates/special-report/sudan-politics-darfur-males/
“L’obiettivo delle uccisioni sembra essere l’eliminazione dei futuri combattenti e della linea di discendenza di uno specifico gruppo etnico”, ha detto. Di diverso avviso Masoud Mohammed Youssef, coordinatore di un gruppo che rappresenta alcune delle tribù arabe di El Geneina, che ha detto che i Masalit stanno “inventando” storie per influenzare l’opinione pubblica. Secondo lui gli unici Masalit che “sono stati uccisi nei combattimenti a El Geneina” erano combattenti armati. L’RSF non ha risposto alle domande di Reuters (in precedenti dichiarazioni, il paramilitare aveva dichiarato di non essere coinvolto in quello che ha definito un conflitto tribale a El Geneina).
Degna di nota – come vedremo più avanti – il fatto che le risposte da parte dei presunti responsabili di queste atrocità sono spesso sorprendentemente simili.
A chi importa dei civili uccisi?
Di tutto questo non si parla mai. Non sono pochi i ricercatori che hanno condotto indagini e studi. Ma le azioni concrete per risolvere questi problemi sono pochissime. Da tempo, le agenzie delle Nazioni Unite invitano a non colpire i civili durante i conflitti armati. Spesso i loro appelli vengono ascoltati. Di fronte a tutto questo enti come UNICEF, UNHCR o l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani OHCHR sono, purtroppo, quasi impotenti. Il loro supporto alle popolazioni colpite in alcuni casi è eccezionale, ma la loro capacità di cambiare lo stato delle cose è legato alla disponibilità di risorse economiche e al peso geopolitico che hanno sui singoli Stati. In un mondo sempre più in guerra, spesso sono costretti a prendere decisioni difficili su chi aiutare prima. E non sempre è possibile fornire un aiuto a tutti.
In occasione dell’anniversario dell’inizio delle “brutalità contro i bambini sudanesi”, l’OHCHR ha lanciato un accorato appello. Anche il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia (CC) ha rilasciato una dichiarazione ai media, esortando il Sudan a porre immediatamente fine a queste gravi violazioni e a smettere di reclutare bambini nelle forze armate. “Dall’inizio del conflitto nell’aprile 2023 tra le Forze armate sudanesi (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF), il Comitato per i diritti dell’infanzia ha osservato ripetuti attacchi contro civili e obiettivi civili, uccisioni diffuse, anche per motivi etnici, e la morte di migliaia di civili, molti dei quali sono bambini…Ci sono state notizie preoccupanti di stupri di civili, compresi bambini, negazione dell’accesso umanitario che ha compromesso l’accesso dei bambini ai beni di prima necessità e altre violazioni del diritto internazionale, comprese le violazioni dei diritti economici e sociali dei bambini”. I risultati sono, purtroppo, noti.
Per i più piccoli c’è anche il rischio di essere reclutati giovanissimi e diventare “bambini soldato”. Come in alcune zone del Sudan orientale. I maschi vengono arruolati per combattere, per fare da corrieri o per diventare bombe umane. Le femmine solitamente per svolgere mansioni di supporto alle milizie armate. Per questi bambini non è possibile rifugiarsi a casa. E nemmeno a scuola: spesso gli edifici che non sono stati distrutti vengono trasformati in depositi, avamposti e rifugi di emergenza. In Sudan sono centinaia le scuole utilizzate per ospitare sfollati interni, mettendo però a repentaglio il diritto dei bambini all’istruzione ed esponendoli, una volta più grandi, al rischio di sfruttamento e tratta sessuale. La guerra ha costretto almeno 10.400 scuole a chiudere, lasciando circa 19 milioni di bambini senza istruzione. Il Comitato ha ricordato “al Sudan i suoi obblighi ai sensi del Protocollo opzionale alla Convenzione sui Diritti del Fanciullo sul Coinvolgimento dei Bambini nei Conflitti Armati, alla luce delle notizie secondo cui entrambe le parti in conflitto hanno reclutato centinaia di bambini nel Darfur e nel Sudan orientale”. Il Comitato “invita il Sudan a cessare immediatamente il reclutamento di bambini e a risparmiarli dall’impatto delle operazioni militari delle due parti. Il Comitato esorta inoltre il Sudan a cooperare con la Missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti per il Sudan, istituita dal Consiglio dei diritti umani nell’ottobre 2023, per porre fine all’impunità per i crimini commessi contro i bambini e altri civili, per consentire l’accesso agli aiuti umanitari e per portare avanti il processo negoziale tra le parti in conflitto per ripristinare la pace e la sicurezza” [1].
Purtroppo anche in questo caso, come per l’UNRWA in Palestina e per molte altre missioni delle Nazioni Unite nel mondo, il peso di questi inviti su chi combatte si è rivelato praticamente nullo. Secondo alcune associazioni umanitarie sono centinaia i bambini che sono stati feriti o uccisi mentre fuggivano dal Sudan. In un importante ospedale da campo oltre il confine col Ciad, circa il 24 per cento delle quasi 2.600 persone ricoverate per ferite da arma da fuoco erano bambini sotto i cinque anni, ha detto l’ONG medica francese Medici Senza Frontiere (MSF).
Bambini come Abdul Latif, nove anni, arrivato all’ospedale di Adrè ferito alla schiena da un cecchino mentre giocava con altri bambini a Geneina, la capitale dello stato sudanese del Darfur occidentale. Anche nel suo caso (come per i bambini della Striscia di Gaza) non si è trattato di una ferita casuale: il cecchino ha sparato un solo proiettile, colpendolo al midollo spinale e lasciandolo paralizzato dalla vita in giù per il resto dei suoi giorni. “È stato colpito da colpi di arma da fuoco. Suo padre ha dovuto portarlo oltre il confine a piedi”, ha detto Tom Shelton, di Humanity & Inclusion. “La maggior parte delle persone con cui ho parlato aveva subito una sorta di attacco indiscriminato ai luoghi in cui vivevano… Così tante persone vanno in giro con le stampelle”, ha detto. Secondo un rapporto di Save the Children, in Sudan, sono più di 10 milioni i bambini che vivono nel raggio di cinque chilometri dalla zona di guerra nell’ultimo anno di guerra [2].
La guerra costringe milioni di persone a scappare. A cercare “rifugio” in un altro paese. Magari non troppo lontano dal proprio, nella speranza di potere, un giorno, tornare a casa. Alcuni sanno che per loro non ci sarà mai più una casa. E allora cercano di trovare un altro posto dove vivere. In altre parole cercano di emigrare. Di fare quanto previsto dell’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”. Un concetto che continua nel primo comma dell’articolo 14: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. Oggi molti paesi “sviluppati” fingono non aver compreso il significato di queste parole (o forse non lo hanno mai capito): l’accoglienza che i governi destinano ai civili che scappano da guerre e conflitti armati o persecuzioni è spesso al limite delle violazioni dei diritti umani. La soluzione che i governi hanno trovato per far fronte all’aumento del numero di rifugiati è stata chiudere le frontiere costruendo barriere fisiche. Muri il cui scopo dovrebbe essere scoraggiare chi cerca un posto per sopravvivere.
[38] Optional Protocol to the Convention on the Rights of the Child on the involvement of children in armed conflict, OHCHR [39] Sudan’s Year of War: half of all children in the line of fire, Save the Children 10 aprile 2024
O, in alternativa, prendere chi arriva nel loro paese chiedendo di essere riconosciuto come rifugiato e spedirlo in un altro paese, il più lontano possibile, dove potrà essere trattenuto in un recinto senza richiamare troppo l’attenzione dei media. É quello che hanno fatto gli Stati Uniti d’America con il Messico. É quello che hanno deciso di fare diversi paesi europei con l’ultimo Patto Migrazioni. É quello che già prima facevano Spagna e Malta (rispettivamente a Gibilterra e in mare con il SAR). É quello che da anni avviene in Australia. É quello che ha deciso di fare il governo sudanese che ha ridotto i punti di accesso lungo il confine con il Ciad, portandoli da sei a uno. È quello che ha fatto l’Egitto al confine con la Striscia di Gaza. In tutti questi casi, le conseguenze umane sono state pesantissime.
Quando i militari ha invaso Ardamatta, in Sudan, Fatime Deffa Ibrahim è stata costretta a fuggire in Ciad con le sue figlie di 10 e 12 anni. “Quando sono arrivata ad Adré, non riuscivo a trovare lavoro e le distribuzioni di cibo non erano sufficienti per sfamarsi”, ha detto. “L’RSF ha saccheggiato tutto ciò che avevamo. Passo le mie giornate a fare mattoni. Per fare mille mattoni mi danno 300 franchi africani (0,38 pence)”. É un altro dei problemi legati alle guerre di cui nessuno vuole parlare. L’escalation delle tensioni e dei conflitti armati ha fatto aumentare il numero dei rifugiati. Molti di loro diventano vittime di sfruttamento lavorativo. Ci si accorge di loro solo quando si verifica qualche incidente sul lavoro. Poi non se ne parla più. Né di loro né delle guerre da cui erano scappati per sopravvivere con la loro famiglia. O delle loro sofferenze che hanno patito lungo il tragitto. E tutto torna a quella finta normalità.
Gli “orrori della guerra”
Una normalità che sembra non voler vedere quali sono le conseguenze delle guerre. Anche quando sono terrificanti. Per gli adulti e, ancora di più per i bambini. Secondo Save the Children, nel mondo, un bambino su sei vive in una zona di conflitto. A causa dei conflitti armati, i più piccoli sono più a rischio oggi che negli ultimi 20 anni. Questo vale per più di 357 milioni di bambini costretti a vivere in zone di conflitto. Rispetto al 1995 (erano circa 200 milioni), il loro numero è aumentato del 75 per cento. Tra i paesi più pericolosi per i bambini Siria, Afghanistan e Somalia. Ma si tratta di un rapporto i cui dati si riferiscono a prima dell’inizio delle invasioni di Ucraina e Striscia di Gaza. È in Medio Oriente che i bambini hanno maggiori probabilità di vivere in una zona di conflitto: due su cinque vivono entro 50 km dal luogo di una battaglia o di un altro attacco mortale. In questa triste classifica, l’Africa è al secondo posto, con uno su cinque. Poco meno della metà dei bambini a rischio – circa 165 milioni – sono stati classificati come residenti in zone di conflitto “ad alta intensità”. Significa che questi bambini corrono il rischio di subire una o più di quelle che le Nazioni Unite chiamano “gravi violazioni”: uccisione o mutilazione, reclutamento e utilizzo dei minori come bambini soldato, violenza sessuale, rapimento, attacchi a scuole e ospedali, negazione degli aiuti umanitari.
I dati forniti dalle Nazioni Unite e da altre ricerche confermano quelle che Save the Children ha definito “enormi lacune” circa i numeri sulle conseguenze delle guerre in atto. Secondo il registro di incidenti verificato dalle Nazioni Unite, dal 2010, il numero dei bambini uccisi e mutilati nel corso di conflitti armati è aumentato del 300 per cento. Un peggioramento che potrebbe essere dovuto, in parte, al fatto che si registra una “tendenza crescente” di fenomeni di guerra nelle città. Ma anche al fatto che i conflitti armati sono sempre più lunghi e complicati. Si pensi alla situazione in Afghanistan o in Siria o nello Yemen o nella Striscia di Gaza. In questi paesi, i blocchi umanitari imposti dai gruppi estremisti e gli assedi a lungo termine rendono difficile soccorrere i civili. “Le tattiche di assedio e le tattiche di fame sono sempre più utilizzate come arma di guerra contro i civili, per cercare di costringere un gruppo armato o un’intera comunità ad arrendersi”, ha dichiarato Save the Children. Gli attacchi a ospedali e scuole sono diventati la “nuova normalità”. Spesso i bambini che vivono nelle regioni dove è in corso un conflitto armato non hanno accesso ai servizi igienici di base, all’istruzione e soffrono di malnutrizione.
L’anno scorso, è emerso che una percentuale di bambini siriani insolitamente alta soffre di “stress tossico” a causa della loro prolungata esposizione agli orrori della guerra [1]. “I bambini stanno soffrendo cose che nessun bambino dovrebbe mai soffrire; dalla violenza sessuale all’essere usati come attentatori suicidi”, ha detto l’amministratore delegato Helle Thorning Schmidt. “Le loro case, le scuole e i campi da gioco sono diventati campi di battaglia”. “Crimini come questo contro i bambini sono il tipo più oscuro di abuso che si possa immaginare, e sono una flagrante violazione del diritto internazionale”, ha aggiunto, invitando i leader mondiali a fare di più.
Il rapporto The War on Children, basato sui dati della ricerca condotta da Save the Children e dal Peace Research Institute Oslo (PRIO), ha analizzato le tendenze della violenza internazionale dal 1995 al 2016 (i dati dal 2017 in poi sono incompleti, quindi alcune recenti escalation, come quelle in Myanmar, non sono pienamente rispecchiate). Si sperava che la diffusione di questi dati in concomitanza della Conferenza sulla sicurezza di Monaco potesse fornire lo spunto per cambiare le cose, un’opportunità per i leader globali per concordare nuove misure per proteggere i bambini in caso di conflitti armati. Non è stato così.
Conclusioni
Come si è visto per il conflitto israeliano palestinese, spesso è difficile fornire stime attendibili sulle vittime civili. Ogni guerra uccide. Giusta o non giusta, non bisogna dimenticare che a vincere non è mai chi è dalla parte del giusto: vince chi è più forte militarmente e chi è più tenace. Tocca al vincitore poi presentare ai posteri una spiegazione di ciò che è avvenuto. E degli effetti collaterali dei combattimenti. Naturalmente si tratta di una versione di parte. I dati storici dicono che, in guerra, non di rado anche i “buoni” violano il Diritto Internazionale Umanitario.
[40] Syrian children in state of toxic stress, BBC News, 7 marzo 2017
A volte anche loro sono responsabili della morte di migliaia di civili. L’unica differenza è che, alla fine, cercanno di trovare una giustificazione più o meno credibile per averlo fatto. È successo ad Hiroshima. È successo a Dresda. E continua a succedere in tutte le guerre che si stanno combattendo. In Ucraina, in Sudan e nella Striscia di Gaza.
“Le guerre iniziano e proseguono solo se le dichiariamo necessarie e le accettiamo come inevitabili, se le edulcoriamo e le acclamiamo come liberatrici, se le immaginiamo asettiche e precise come un videogioco”, ha detto il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. A questo si aggiunge un altro aspetto: più una guerra è lontana più la gente sembra non accorgersi di ciò che sta avvenendo, delle vittime tra i civili. Per un occidentale spesso queste persone sono sconosciute, di un’altra razza, “arabi” o “neri”, ma non “bianchi”. Membri di popoli e culture diverse da quelle che consideriamo “razza occidentale”. Una guerra in Africa o in Medio oriente non è “sentita” come essere una guerra vicina. Anche quando sono decine di migliaia i morti tra i civili. Al più emoziona solo per il tempo della notizia al telegiornale. Si pensi all’atteggiamento nei confronti della guerra in Ucraina e al confronto con altre guerre. Ad esempio, nel 2022, pochi mesi dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, in Italia è stato istituito il Commissario Straordinario per i minori stranieri non accompagnati provenienti dall’Ucraina. Sorprendentemente nessun governo aveva pensato di fare la stessa cosa per gli altri minori stranieri non accompagnati presenti in Italia. Anche quando questi sono molti di più dei minori non accompagnati ucraini.
A questo si aggiunge che non di rado alcune notizie fornite dai media sono deformate. Di alcuni conflitti si parla in continuazione. Di altri quasi mai. Nei giorni scorsi alcuni telegiornali italiani hanno diffuso per intero il discorso del premier israeliano al Congresso USA. Non solo non hanno dedicato la stessa attenzione ad altre notizie (sullo stesso conflitto o su altri conflitti in corso). Ma hanno dimenticato che su Israele, il paese che lui rappresenta, è in corso un processo per genocidio. Il premier ha descritto la strage di civili nella Striscia di Gaza come inesistente (una ventina di persone in tutto!) a fronte di oltre mille civili uccisi da Hamas il 7 ottobre 2023 [1]. Un discorso che il membri del Congresso non avrebbero nemmeno dovuto ascoltare (tanto meno applaudire), ma che è anche questo una deformazione dell’informazione: prima di tutto perché nei confronti di quel paese sono in corso diversi procedimenti da parte della Corte Internazionale di Giustizia e da parte della Corte Penale internazionale, ma anche perché, il 20 maggio 2024, il Procuratore Capo del Tribunale Penale Internazionale ha chiesto al Tribunale l’emissione di mandati di cattura per la persona di Benjamin Netanyahu (e per il Ministro della Difesa Yoav Gallant). Motivo più che sufficiente per non osannare una persona. Invece, in molti paesi occidentali al suo discorso è stato dedicato ampio spazio mediatico. Spazio che nessuno ha mai dedicato ad altri leader di popoli in guerra. Sul resto nessuno ha detto una parola. Silenzio anche sulle vittime morte sotto il fuoco degli israeliani (UNRWA continua a presentare report periodici sulla situazione nella Striscia di Gaza ma ormai non ne parla più nessuno). Silenzio anche da parte degli organizzatori di eventi sportivi internazionali: agli atleti russi e ai loro colleghi bielorussi è stato vietato di utilizzare la propria bandiera alle Olimpiadi di Parigi. Restrizioni che non sono state previste per gli atleti israeliani o per quelli di alcuni paesi arabi o quelli di paesi africani (anche loro accusati di crimini di guerra). Una forma di “psychological warfare”, come l’ha definita lo storico Yuval Noah Harari.
Per chi si è occupato di conflitti in questo nuovo millennio, è impossibile non notare un’evoluzione allarmante di questo fenomeno. Nessuno parla più di quello che avviene in Myanmar o in Siria o nello Yemen o in Afghanistan. E se recentemente alcuni media hanno parlato del conflitto in Sudan, il sospetto è che abbiano deciso di farlo per distogliere l’attenzione dei clienti da altre guerre ormai politically inconvenient. Una disparità di trattamento, un compromesso politico che è stato segnalato anche dal rapporto “The Forgotten Ones” pubblicato lo scorso anno da Save the Children in occasione del lancio della campagna Bambini Sotto Attacco. Il report analizza i dati relativi alla copertura mediatica nei 10 paesi più colpiti dai conflitti da quando la guerra in Ucraina si è intensificata all’inizio del 2022 effettuata grazie alla piattaforma di monitoraggio dei media Meltwater, tra il primo gennaio e il 30 settembre 2022. I numeri dimostrano che l’Ucraina ha ricevuto una copertura mediatica cinque volte superiore a quella di tutti e dieci i Paesi colpiti da conflitti peggiori per l’infanzia messi insieme. Nello stesso periodo, lo Yemen ha avuto solo il 2,3 per cento di copertura mediatica rispetto all’Ucraina.
Molti dicono che si tratta di fenomeni complessi. Un eufemismo per dire che spesso la trasparenza delle scelte fatte durante le guerre è volutamente nascosta. Specie quando si tratta di conseguenze sui civili. Non è raro, ad esempio, che una delle parti coinvolte in un conflitto armato (e quindi potenziale responsabile) contesti l’attribuzione dell’etichetta “civile” ad alcune vittime. Secondo il governo israeliano molte (praticamente tutte) delle quasi 40 mila vittime civili dei bombardamenti nella Striscia di Gaza non sarebbero civili, ma terroristi o affiliati a gruppi terroristici o loro fiancheggiatori. Eppure la definizione di civile, almeno nel contesto dei conflitti armati internazionali, è abbastanza semplice: un civile è qualsiasi persona che non appartiene alle forze armate di una parte in conflitto e non rientra tra le categorie aventi diritto a essere detenuto in caso di guerra. A questo si aggiunge che definire “terroristi” decine di migliaia di bambini morti sotto i bombardamenti israeliani dal 7 ottobre 2023 in poi, va oltre ogni principio di razionalità.
Ancora più difficile collegare la morte di un civile ad un conflitto armato. Secondo alcuni si dovrebbe fare riferimento ai criteri di inclusione dei civili nei conflitti. Ma spesso c’è poca chiarezza circa le categorie di vittime da considerare: persone uccise o ferite come conseguenza diretta della guerra; persone che muoiono, durante una guerra o dopo, a causa degli effetti indiretti della guerra come malattie, malnutrizione e mancanza di risorse; e poi persone che muoiono a causa di effetti indiretti (questa categoria richiede un lavoro molto accurato per distinguere tra livelli “attesi” e “in eccesso”); per non parlare rifugiati e sfollati interni (IDP). Esemplare il caso della Siria: molte persone non hanno più accesso alle risorse essenziali come l’acqua. Per loro, vivere dove hanno vissuto per decenni, dove vivevano i loro nonni e i nonni dei loro nonni, non è più possibile. Molti di loro muoiono (letteralmente) di fame, per la mancanza di risorse idriche o per i danni causati alle infrastrutture dai bombardamenti. Come devono essere definite queste persone? Sono o no vittime civili del conflitto in atto? Questo aumenta la possibilità che a volte i dati sulle vittime civili dei conflitti armati possano essere poco attendibili (se non volutamente manipolati). Come ha osservato Milton Leitenberg, alcuni governi potrebbero distorcere o nascondere alcuni dati. Per alcuni conflitti, poi, i sistemi di registrazione sono incompleti o inesistenti. A volte, i registri sono stati distrutti e generare delle statistiche potrebbe richiedere l’uso di una serie di metodi di campionamento come quelli utilizzati, ad esempio, negli studi epidemiologici e demografici (si pensi al caso dei Rohingya o alla guerra in Sudan).
Ma non basta. A volte le conseguenze sulla salute dei civili si manifestano molto tempo dopo la fine dei combattimenti. In questo caso i danni sulle persone possono derivare dalle condizioni ambientali in cui si trova un territorio dopo un conflitto armato. Lo studio “Scorched-earth: making Gaza uninhabitable for generations to come”, pubblicato da Greenpeace International, Farah Al Hattab sottolinea che “la guerra in corso a Gaza non ha solo un altissimo costo umano, ma sta anche causando danni ambientali gravissimi nelle zone interessate dal conflitto, con conseguenze devastanti per l’aria, l’acqua e il suolo, e per tutte le persone che vivono in questi luoghi” [2]. Secondo Greenpeace, “nei primi 120 giorni di guerra, la stima delle emissioni di carbonio rilasciate a causa del conflitto è pari a circa 536.410 tonnellate di anidride carbonica, il 90 per cento delle quali attribuite al bombardamento aereo e all’invasione terrestre di Gaza da parte di Israele. L’aria è contaminata da sostanze chimiche provenienti da armi come il fosforo bianco, mentre le risorse idriche sono state gravemente compromesse, con circa 60 mila metri cubi di liquami e acque reflue non trattate che confluiscono quotidianamente nel Mar Mediterraneo”. Ma non basta. “Il degrado del suolo ha devastato l’agricoltura nel territorio di Gaza: la distruzione delle fattorie e dei terreni agricoli (pari al 57 per cento nel maggio 2024), unita a 17 anni di blocco e alla distruzione del 70 per cento dei pescherecci, sta creando una gravissima insicurezza alimentare nella Striscia”. A questo si aggiunge che molti sistemi e infrastrutture come gli impianti fognari o quelli per il trattamento dei rifiuti solidi “sono collassati, con un costante rischio di epidemie”. Sopravvivere in un ambiente così non è facile.
Non è raro che, durante un conflitto armato, l’accesso alle risorse primarie venga usato come arma. Alcuni esperti indipendenti delle Nazioni Unite hanno accusato Israele di condurre una “campagna mirata alla fame” che provoca la morte di migliaia di bambini a Gaza. “Dichiariamo che la campagna di fame intenzionale e mirata di Israele contro il popolo palestinese è una forma di violenza genocida e ha provocato la carestia in tutta Gaza”, hanno affermato in un comunicato i 10 esperti, che hanno citato il nome di alcuni bambini recentemente morti “a causa di malnutrizione e mancanza di accesso a cure sanitarie adeguate”.
[41] Luca Ciarrocca, Benjamin Netanyahu non avrebbe dovuto parlare al Congresso Usa, ecco perché, Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2024
Di tutto questo molti giornali occidentali hanno parlato poco. Spesso anche svolgere questa professione è pericoloso in zone di guerra: secondo uno studio condotto da The Intercept solo nella Striscia di Gaza, in nove mesi di guerra, sarebbero stati uccisi 102 giornalisti uccisi. Secondo il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (SPJ) sono molti di più: 140 i giornalisti e lavoratori dei media uccisi dall’inizio della guerra (ai quali si aggiungono 176 feriti). Numeri che rendono questo conflitto il più mortale per i giornalisti. Peggiore addirittura della Seconda Guerra Mondiale, specie considerando che durò diversi anni.
Tutto questo dovrebbe rendere chiaro che non è facile calcolare il numero esatto dei civili morti o feriti durante le guerre e i conflitti armati. In uno studio pubblicato all’inizio di luglio sulla rivista medica britannica The Lancet, Rasha Khatib, Martin McKee e Salim Yusuf hanno detto che i morti a Gaza attribuibili all’azione dell’esercito israeliano a partire da ottobre 2023 non sarebbero circa 40mila, ovvero quelli riportati nel rapporto del ministero della Sanità di Gaza e citati anche dal report dell’UNRWA. Secondo i dati del loro studio, i morti dal 7 ottobre 2023 ad oggi sarebbero più di 180mila. Un numero spaventoso che gli autori definiscono una stima prudente ottenuta tenendo conto sia delle “morti dirette” quelle ufficiali riportate dal Ministero della Sanità di Gaza che delle “morti indirette”. “Nei conflitti recenti”, si legge nel report, “tali morti indirette variano da tre a 15 volte il numero di morti dirette. Applicando una stima conservativa di quattro decessi indiretti per un decesso diretto ai 37.396 [sic] decessi segnalati, è plausibile stimare che fino a 186 mila o anche più decessi potrebbero essere attribuibili all’attuale conflitto a Gaza”. Per gli autori dello studio, “il numero di corpi ancora sepolti tra le macerie è probabilmente considerevole, con stime superiori a 10mila”. Gli autori dello studio pubblicato su The Lancet non forniscono una cifra esatta dei civili morti a Gaza per almeno due ragioni. La prima è il numero di decessi riportati dal Ministero della Sanità di Gaza che, a causa delle difficoltà sul campo, potrebbe essere sottostimato. L’altra è l’uso del numero “quattro” come moltiplicatore che deriva da una determinazione del Segretariato della Dichiarazione di Ginevra del 2008 sulle morti dirette e indirette nei conflitti armati. Inoltre, secondo lo studio pubblicato su The Lancet, il 96 per cento della popolazione vessa in uno stato di insicurezza alimentare preoccupante: “Si prevede che il bilancio totale delle vittime sarà elevato data l’intensità di questo conflitto”. Circa l’8 per cento della popolazione palestinese dei territori.
Anche l’organizzazione non governativa Airwars parla di dati ufficiali riguardanti i morti nella Striscia di Gaza sottostimati: dai dati rilevati sono emersi molti casi di vittime identificabili ma non erano incluse nell’elenco presentato dalle autorità palestinesi. A questi casi si devono aggiungere quelli relativi ai cadaveri non identificabili. Ma non basta. Ai morti a causa dei bombardamenti si devono aggiungere altre vittime civili. Anche se il conflitto finisse immediatamente, migliaia di persone continuerebbero a morire a causa dell’impossibilità di curare alcune malattie (molte delle quali generate dalla guerra). L’offensiva militare israeliana ha messo fuori uso gran parte degli ospedali nei quali c’erano migliaia di bambini.
L’aspetto più importante di questi studi è che, ogni volta che c’è una guerra o un conflitto armato si registrano un gran numero di morti causati dalle condizioni esterne alle operazioni militari. Una situazione che era stata confermata anche dai medici delle strutture ospedaliere di Gaza: la maggior parte delle morti sono conseguenza delle “condizioni di vita” correlate alla guerra: malnutrizione (specie per neonati e bambini), carenza di strutture mediche e di forniture mediche (un medico americano che ha trascorso un periodo in un ospedale di Gaza ha dichiarato che “vedere questo tipo di morti, prevenibili in America, è straziante perché metti i tuoi sforzi per salvare la vita di qualcuno e credi sinceramente che gli avresti salvato la vita o la sua vita, ma è uno shock vederli morire perché non hai nulla con cui aiutarli”).
Nel 1991, il Dipartimento per la Ricerca sulla Pace e sui Conflitti dell’Università di Uppsala pubblicò un rapporto sulle vittime dei conflitti nel quale venivano riportati i dati relativi ai decessi e ai rifugiati/sfollati interni nei 36 principali conflitti armati in corso. Diversi gli spunti interessanti in questo lavoro. Quasi il 90 per cento dei milioni di civili che avevano perso la vita duranti i conflitti armati tra il 1988 e il 1989, erano morti in conflitti armati interni. Il risultato più interessante però era un altro. Riguardava la percentuale di vittime civili sul totale dei morti: nove vittime su dieci erano civili. Partendo da questi dati, Adam Roberts elaborò una riflessione interessante. Visto che quasi sempre il dato relativo ai morti sia civili che militari è basato su delle stime, questo significa che accanirsi per definire questo aspetto potrebbe essere uno spreco di tempo e non produrre risultati attendibili. Esiste, però, un dato incontrovertibile. Ovvero il rapporto che esiste tra militari morti in guerra e vittime civili. All’inizio del XX secolo, questo rapporto era 8:1 (un civile morto ogni otto vittime tra i militari). Oggi la situazione si è praticamente capovolta: negli anni Novanta, il rapporto tra vittime militari e civili è di circa 1:8 (otto civili per ogni militare morto). E questo nonostante le decine di trattati e convenzioni facenti parte del cosiddetto Diritto Internazionale Umanitario che ha come scopo principale proprio la tutela dei civili in caso di conflitti armati. Le vittime civili dei conflitti armati sono passate dal 10 per cento del XIX secolo al 50 per cento, durante la Seconda Guerra Mondiale, fino al 75 per cento e poi al 90 per cento nei conflitti contemporanei. Dati confermati nel 2003 anche dall’economista Paul Collier per il quale “quasi il 90 per cento delle vittime che derivano da conflitti armati erano civili”. Anche la Strategia di Sicurezza Europea dell’Unione Europea dal 1990 conferma che oltre il 90 per cento dei morti in guerra sono civili. Contemporaneamente dal 1980, il numero dei rifugiati è passato da 2,4 milioni a 14,4 milioni, mentre gli sfollati interni sono aumentati da 22 milioni a 38 milioni. Oggi, secondo i dati di UNHCR, solo i rifugiati sono 43,4 milioni dei quali circa il 40 per cento bambini.
[42] Farah Al Hattab, Scorched-earth: making Gaza uninhabitable for generations to come, Greenpeace International, 3 luglio 2024
Cosa vuol dire che il 90 per cento delle vittime di guerra sono civili? Basandosi sui dati a sua disposizione, nel 2003, Randolph Martin, direttore senior delle operazioni dell’International Rescue di New York, affermò che sfollamenti e vittime della popolazione civile erano diventati così numerosi da dover essere considerati “lo scopo e non una conseguenza della guerra”. Indipendentemente dal numero esatto dei civili vittime elle guerre, le dimensioni del fenomeno dimostrano che questi morti non sono un danno collaterale: sono il vero obiettivo di tante guerre. E il fatto che non se ne parli è la conferma che si sta procedendo a grandi passi verso “una sempre minore sensibilità del numero delle vittime umane”, come affermano i sociologi. È questo l’aspetto che più di ogni altro accomuna le guerre contemporanee. Diverse per molti aspetti sono paragonabili in base a due fattori: le conseguenze in termini di morti tra la popolazione civile e il fatto che di queste vittime non sembra importare a nessuno. Una riflessione che rimanda inevitabilmente ad una considerazione: oggi esistono gravi lacune nei sistemi di protezione degli Stati, delle organizzazioni internazionali e organizzazioni non governative. Durante i conflitti armati i civili dovrebbero essere tutelati dal Diritto Internazionale Umanitario. Contro di loro non dovrebbero essere consentiti violenze o trattamenti degradanti.
Invece, negli ultimi 60 anni, le principali vittime della guerra sono stati i civili. Uomini, donne e bambini colpiti dal fuoco incrociato o uccisi volontariamente dalle bombe o morti a causa degli effetti collaterali della guerra. Decine di migliaia di persone innocenti morte senza che nessuno dicesse una parola su di loro. Sul fatto che erano così numerose. In molti casi, morte perché, al di là di scuse e finzioni, l’obiettivo finale della guerra nella quale erano capitate era toglierle di mezzo (per evitare vendette e rivendicazioni territoriali un domani non troppo lontano).
Quando venne introdotta, nel 1991, la proporzione del “nove su dieci” venne pensata per sottolineare l’importanza di adottare misure migliori per proteggere i civili. A distanza di oltre trent’anni, non è stato fatto nulla. L’unico risultato è stato un aumento esponenziale del cinismo collettivo: non solo sempre più civili continuano a morire a causa delle guerre, ma nessuno pensa a loro come vittime dei conflitti armati, come persone con una propria vita, una propria famiglia, magari dei figli, delle aspettative per il futuro. Uomini, ma soprattutto donne e bambini innocenti uccisi, massacrati durante guerre sempre più numerose in tutti e cinque i continenti. Per molti questi sono solo numeri. Dati statistici da aggiungere a qualche bel rapporto. Ma Aya e Lubna, Soswil, Yasmin, Faruq, Muhammed, Selma, Gloria, Abiy, Samer, Petros, Ibrahim, Abdul Latif, Fatime e decine di migliaia come loro, non sono numeri o percentuali: sono bambini. Gli stessi ai quali esattamente un secolo fa, nel 1924, i paesi membri della Società per le Nazioni (precursore delle Nazioni Unite) riconobbero il diritto di essere considerati persone.
Di non essere uno dei tanti “nove su dieci”.
Bibliografia
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