Me ne hanno raccontati tanti di giorni di Natale degli anni di guerra. Di molti ho visto immagini, letto libri, ascoltato testimonianze. Non immaginavo di viverne uno anch’io, nato negli anni in cui in Italia scoppiarono la pace e un benessere economico reale, fatto di cose concrete e non dalla ricchezza effimera di titoli derivati e di speculazioni finanziarie.
Da qualche giorno quei racconti, quelle emozioni, mi tornano alla memoria, sollecitati da immagini, notizie, espressioni e scene di varia umanità a cui mi capita di assistere. Oggi ci viene rimproverato di essere stati cicale anziché formiche, pur sapendo che non è vero, perché nonostante i salari più bassi d’Europa, gli italiani hanno comunque risparmiato in altro modo, investendo soprattutto nella casa e sugli studi dei figli, non immaginando che proprio l’una e gli altri sarebbero stati i primi bersagli di ogni semplicistica manovra fiscale a cui si vorrebbe ora aggiungere una tassa patrimoniale.
Altrove sono stati sperperati denari e risorse di ogni genere, in complicità inconfessabili tra politica, finanza, grande impresa e tra questa e, sovente, la criminalità organizzata, pronta a fornire capitali sporchi cui una ridicola legge sull’antiriciclaggio non ha mai fatto neanche il solletico, stante l’assoluta mancanza di ogni etica da parte degli intermediari finanziari, ligi al precetto “pecunia non olet”.
Sarà un Natale di guerra quello che ci apprestiamo a celebrare tra pochi giorni? Molti sono portati a ritenerlo. Tuttavia anche al fine di ristabilire le giuste proporzioni, trovo istruttivo ricordare due altre occasioni in cui tale espressione può più essere appropriata.
Ypres, Fiandre. Nel dicembre di poco più di cento anni fa, il primo della Grande Guerra, soldati inglesi e tedeschi uscirono dalle trincee e tra canti natalizi e nostalgia di casa si abbracciarono e si scambiarono piccoli doni. Dopo un secolo, di quella che fu definita “la tregua censurata” è stato reso pubblico recentemente un episodio del conflitto che mise l’Europa a ferro e fuoco, segnando la fine della Bella Epoque e l’inizio della storia più tormentata del Vecchio Continente.
Bruce Bairnsfather, testimone degli avvenimenti, scrisse: “Non dimenticherò quello strano e unico giorno di Natale per niente al mondo… Notai un ufficiale tedesco, una specie di tenente credo, ed essendo io un po’ collezionista gli dissi che avevo perso la testa per alcuni dei suoi bottoni [della divisa]… Presi la mia tronchesina e, con pochi abili colpi, tagliai un paio dei suoi bottoni e me li misi in tasca. Poi gli diedi due dei miei bottoni in cambio… Da ultimo vidi uno dei miei mitraglieri, che nella vita civile era una sorta di barbiere amatoriale, intento a tagliare i capelli innaturalmente lunghi di un docile “Boche” che rimase pazientemente inginocchiato a terra mentre la macchinetta si insinuava dietro il suo collo”.
Un altro testimone britannico, il capitano Sir Edward Hulse Bart, riferì che il primo interprete che incontrò nelle linee tedesche era originario del Suffolk, dove vi aveva lasciato la propria ragazza e la propria motocicletta; Hulse Bart descrisse anche di una canzoncina “terminata con un “Auld Lang Syne” che unì noi tutti, inglesi, scozzesi, irlandesi, prussiani, württemburghesi etc. Fu una cosa assolutamente incredibile, e se l’avessi vista in una pellicola cinematografica avrei giurato che fosse una messinscena!”. Il tenente tedesco Johannes Niemann scrisse: “afferrato il binocolo e scrutato con cautela oltre il parapetto, ebbi la vista incredibile dei nostri soldati che scambiavano sigarette, grappa e cioccolato con il nemico”.
In molti casi gli episodi di fraternizzazione proseguirono anche la mattina di Natale: una forte gelata indurì il terreno e disperse l’odore di putrefazione dei cadaveri insepolti; diversi gruppi di soldati dei due schieramenti si incontrarono nella terra di nessuno per scambiarsi doni e scattare foto ricordo. Il livello di fraternizzazione fu tale che vennero persino organizzate improvvisate partite di calcio tra i militari tedeschi e quelli britannici. La censura militare coprì tutto.
Quattro mesi dopo, alle 17.30 del 22 aprile 1915 i tedeschi rilasciarono da 5.730 bombole 68 tonnellate di un nuovo gas di cloro su un fronte di circa sei chilometri, causando circa 5.000 morti nello schieramento alleato nel giro di dieci minuti. Il gas colpiva i polmoni e gli occhi causando problemi respiratori e cecità; essendo più denso dell’aria tendeva a raccogliersi sul fondo delle trincee, forzando gli occupanti ad abbandonarle. La cittadina di Ypres venne conosciuta in ogni parte del mondo non a motivo della tregua del 1914 ma poichè da essa prese il nome il primo gas impiegato per usi bellici: l’iprite. Sessantacinquemila furono i soldati siciliani che persero la vita in quella che i superstiti, nominati decenni dopo Cavalieri di Vittorio Veneto, continuarono chiamare sino alla fine dei propri giorni la Grande Guerra.
Quasi trent’anni dopo, mentre infuriava in ogni parte del mondo un’altra e ancor più vasta guerra, gli italiani vivevano una nuova tragedia caratterizzata dal razionamento, dagli sfollamenti e soprattutto dall’apprensione per padri, fratelli e mariti che avanzavano in quei giorni a fatica nel fango dell’inverno balcanico, dove Mussolini li aveva mandati alla fine del 1940 “per spezzare le reni” alla Grecia. Male armati e peggio equipaggiati, sarebbero stati sconfitti dal clima, dalla resistenza dei montanari e dai tantissimi casi di congelamento se in loro soccorso non fossero giunte le truppe della Wehrmacht insieme alle quali, in forma subalterna, mantennero l’occupazione di quel paese fino al 1944.
Alcuni rimasero isolati nelle isole dell’Egeo, come ha raccontato Gabriele Salvatores nel film Mediterraneo del 1991; altri, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, a Cefalonia diventarono eroi. Il loro martirio è stato fatto rivivere dal film Il Mandolino del capitano Corelli del 2001con Nicolas Cage e nel 2005 è stata trasmessa dai Rai Uno una serie televisiva sull’eccidio, con la regia di Riccardo Milani, la splendida interpretazione di Luca Zingaretti e la colonna sonora di Ennio Morricone che ho ricordato su queste pagine il giorno della scomparsa.
Nel Natale del 1942, con temperature diverse ma con analoga sfortuna, altri padri, mariti e fratelli combattevano l’ultima battaglia per la difesa di Tripoli “bel suol d‘amore”; pochi mesi dopo, ad El Alamein si sarebbe concluso il dominio degli italiani sulla Libia iniziato nel più lontano 1911.
Pagine eroiche furono scritte durante la guerra, altre meno commendevoli durante l’occupazione da parte degli italiani non sempre “brava gente”.
Nella patria lontana, intanto, nel dicembre del 1942 si combatteva la guerra del freddo e della fame e così scriveva Miriam Mafai: “È il terzo Natale di guerra! Fà freddo. Nella maggioranza delle case, in città come in campagna, ci si scalda con le stufe. Carbone e legna si fanno sempre più rari. Ci eravamo trasferiti a Temi. Mamma, quando poteva, mi faceva avere, da qualche paesano, un po’ di pane e di uova. Per riscaldarci preparavo durante tutta l’estate delle palle di carta. Si metteva tutta la carta e la cartaccia in un mastello di legno con un po’ d’acqua, poi si strizzava ben bene e se ne facevano delle palle. Bisognava lasciarle per un bel po’ al sole perché diventassero dure, e poi d’inverno si bruciavano al posto della legna. Avevo scoperto che se ci mettevo dentro i noccioli delle pesche o delle prugne, un po’ di aghi di pino o di polvere di carbone, le palle duravano di più, davano più calore e anche un po’ di buon odore. Ci si doveva accontentare. La cenere della stufa, ancora calda, si metteva in un recipiente di rame per scaldare il letto e le mani. Faceva molto freddo. Forse sentivamo tanto freddo anche perché mangiavamo poco. Avevamo le mani sempre piene di geloni.”
Il ricordo di un altro “Natale di guerra” è personale e risale al 1992. Ancora annichilita dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la Sicilia combatteva la mafia con una partecipazione allora corale, oggi solo stancamente celebrativa. Gli uomini delle Forze Armate, impiegati nell’Operazione Vespri siciliani, presidiavano i palazzi delle Istituzioni e le strade prospicienti le abitazioni di molti magistrati. In trecento metri da casa mia erano state posizionate ben tre diverse garitte con altrettanti soldati in assetto di combattimento. La notte del 24 dicembre in molti scendemmo in strada per offrire loro una fetta di panettone e un bicchiere di spumante che bevvero, veloci ma felici. Non dimenticherò mai il sorriso di gratitudine di quei ragazzi che venivano da ogni parte d’Italia a difendere un pezzo del Paese, in un momento di grande disorientamento e di fragilità. Di quel forte sentimento di unità nazionale oggi si avverte un grande bisogno nell’Italia frammentata da una ventina di ras locali che si fanno la guerra dei poveri tra di loro.
In ogni parte del mondo la natura umana è portata alla solidarietà, alla comprensione e alla compassione. E’ sensibile ai deboli ed ai sofferenti ed attenta alle fasi della vita che più richiedono rispetto e sostegno; il tempo natalizio è, nel mondo occidentale, il momento della massima espressione di quei sentimenti.
E’ un Natale di guerra quello che ci apprestiamo a vivere? Non allo stesso modo, ovviamente, ma di quegli altri momenti esso ha le medesime incertezze, le molte lontananze, le tante assenze, l’ansia per figli e nipoti ancora una volta esposti sui fronti più caldi della pandemia o nelle trincee degli ospedali a fare la propria parte di medici, infermieri, portantini, autisti di ambulanze. La domanda che ciascuno si pone, oggi come allora, è: “Finirà?“. Stavolta la risposta appare impossibile da trovare, poiché la fine di una di guerra è sempre una decisone umana, quella di un virus lo è solo in una parte molto limitata. Intanto prevale la sensazione di un mondo al capolinea senza che se ne annunci, anche da lontano, un altro migliore, come è sempre stato anche nei momenti più bui della storia.
Una cappa pesante di paura anche per i mesi che verranno si estende su famiglie, anziani, giovani, gruppi sociali, lavoratori, vecchi e nuovi poveri. Prevalgono domande forti, unite ai tanti complessi di colpa: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità? Dove abbiamo sbagliato: quando ci siamo illusi che il mondo non potesse che progredire? Quando abbiamo proposto ai nostri figli la lunga strada degli studi, certi che li avrebbero tutelati nel futuro? Quando abbiamo investito ogni energia nell’acquisto di una casa senza conoscerne l’impatto ambientale, di un’automobile di cui abbiamo ignorato le emissioni di CO2, di uno o più elettrodomestici che avrebbero progressivamente liberato le donne da attività millenarie? Quando abbiamo creduto che i rappresentanti da noi eletti avrebbero lavorato per costruire garanzie e tutele ove le stesse fossero deboli o assenti? Quando sacrificavamo l’ambiente naturale all’onnipotenza del profitto?
Tuttavia, le domande che ho posto interrogano l’equilibrio psicologico di massa, influiscono sulle nuove generazioni, minano la fertilità individuale e collettiva, fanno della vecchiaia un tempo di bilanci esistenziali in passivo e di ansie per i propri discendenti. La responsabilità di tale cospicua riduzione dell’energia sociale e conseguentemente della volontà di intraprendere e di investire è da rintracciare nell’esercizio malato della democrazia in senso lato che sembra essere ormai la grande sconfitta dell’epoca contemporanea, pur essendo stata il primo frutto maturo dell’Illuminismo. La Politica del nostro tempo divide anziché unire, uccide la speranza piuttosto che nutrirla, contrappone i bisogni ai diritti, l’ignoranza alla competenza piuttosto che essere la massima sintesi di tutto ciò. Accade a partire dalle istituzioni più globali dall’ inutile Organizzazione delle Nazioni Unite alla schizofrenica Unione Europea e raggiunge anche quelle locali in cui massimamente le emergenze sono sotto gli occhi di tutti.
Quanto accade nell’Italia che ci crolla addosso è la conseguenza di aver dimenticato l’insegnamento di antichi maestri e di aver continuato a delegare a pochi ambiziosi ed inadeguati la gestione di quel capitale prezioso che è il Bene Comune. Dalla debolezza della Politica originano i principali detonatori della catastrofe che si identificano nell’errata interpretazione della libertà di mercato, nel delirio ideologico di aver illuso le masse che fosse possibile un mondo di uguali, nella frettolosa pretesa di affidare alla democrazia rappresentativa ad ogni livello la soluzione di tutti i problemi presenti e futuri.
Alla società contemporanea che incerta e confusa si interroga sul proprio destino e attende una necessaria palingenesi, possono ancora servire dopo millenni le parole che Platone riporta nel I Libro del dialogo Repubblica: “Perché pensi che i pastori o i bovari ricerchino il bene delle pecore o dei buoi, e li ingrassino e li curino con uno scopo diverso dal bene proprio e dei loro padroni; allo stesso modo credi che i governanti delle città, quelli che detengono realmente il potere, abbiano verso i sudditi un atteggiamento diverso da quello che si può avere con le pecore, e ricerchino giorno e notte qualcos’altro che il modo di trarne un vantaggio personale. E hai fatto tanti progressi nei concetti di giusto e dì giustizia, di ingiusto e di ingiustizia, da ignorare che la giustizia e il giusto sono in realtà un bene altrui, cioè l’interesse di chi è più forte e comanda, e un male proprio di chi obbedisce e serve, mentre l’ingiustizia comanda su chi è veramente ingenuo e giusto, e i sudditi fanno l’interesse del più forte e lo rendono felice mettendosi al suo servizio, ma non procurano il benché minimo vantaggio a se stessi. Devi considerare, sciocco di un Socrate, che in ogni circostanza un uomo giusto ottiene meno di uno ingiusto. Innanzi tutto, nei contratti privati, quando due persone del genere si mettono in società, allo scioglimento del rapporto non troverai mai che il giusto possieda di più dell’ingiusto: possederà di meno; poi, nei rapporti con lo Stato, quando ci sono tributi da pagare, a parità di mezzi l’uomo giusto paga di più, l’altro di meno, quando invece c’è da prendere l’uno non ricava nulla, l’altro ricava molto. E nel caso ricoprano entrambi una carica, il giusto, anche se non gli capita nessun altro guaio, subisce un danno negli interessi personali perché li ha trascurati e non ricava vantaggio dalla cosa pubblica per il fatto che è giusto, e oltre a ciò diviene inviso a familiari e conoscenti, se non è disposto a favorirli contro giustizia”.
Ed oggi proprio a quei soggetti vengono corrisposte indennità eccessive, “auspicando” che essi abbiano la compiacenza di sostenere, attraverso politiche industriali innovative e del lavoro, famiglie ed imprese che i medesimi hanno consegnato in molti casi nella mani di usurai, più o meno legittimati.
Forse mai come quest’anno il vero simbolo del Natale non è l’Albero addobbato e rutilante di mille colori bensì il Presepe, italianissimo simbolo di un paese sempre precario, con le eterne scene di povertà, di bisogni ridotti al minimo, di sonni all’addiaccio, di veglie ansiose, di fuochi stentati alimentati da pochi sterpi tra i quali si attende la speranza di Redenzione. Nella scenografia del Presepe non manca mai il singolare personaggio dello Spaventato che simboleggia colui che, distratto dalla Stella Cometa, finisce per non accorgersi dell’evento che si sta compiendo a pochi passi e da cui, inevitabilmente, si autoesclude.
Forse mai come quest’anno ogni italiano in difficoltà, e sono tanti in ogni regione, si sentirà vicino e affratellato a persone ed a popoli che, per anni abbiamo commiserato, mentre consumavamo il Cenone, affrettandoci però a cambiare canale televisivo davanti alle scene che più rimproveravano la nostra opulenza, poggiata sul nulla.
E’ un Natale di questo genere di guerra quello che ci apprestiamo a celebrare con le chiese necessariamente vuote e le tavole tristemente deserte. A tali sentimenti di frustrazione e di paura si sta affiancando a poco a poco un crescente desiderio di rivalsa verso coloro che hanno consentito tutto questo, nel passato e nel presente, da parte dei tanti che restano comunque ai margini di ogni misura realmente equa e di quei giovani a cui con il crescente indebitamento pubblico stiamo rubando il futuro. E le rivalse possono intraprendere e percorrere le strade più pericolose.
Nei giorni in cui viviamo l’avvento di quell’ Incarnazione che ci invia il millenario messaggio di rinascita collettiva, abbiamo il dovere di dare un senso all’espressione Next Generation EU, perché non sia solo un programma economico di salvataggio di sistemi e società ormai decotte ma il germe della rigenerazione dei nostri sentimenti privati e delle conseguenti scelte sociali, economiche e politiche non più differibili.
Se l’Italia dovesse equivocare il valore esistenziale che in quella definizione ultimativa è contenuto, essa sarà ancora una volta responsabile del proprio infausto destino e non avrà più alcun diritto di recriminare, attribuendo ad altri o ad altro le proprie colpe, cercando senza speranza un Natale perduto e mai più ritrovato.