Con la messa al bando dei combustibili fossili per motivi ambientali, in molti sono tornati a sottolineare la necessità di trovare alternative al petrolio, al gas naturale e soprattutto al carbone. Una situazione che è stata resa ancora più critica dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sotto il profilo delle fonti energetiche sostenibili, la produzione di energia idroelettrica ha avuto un tracollo a causa della riduzione della portata di molti fiumi e bacini. E fonti energetiche rinnovabili come il solare fotovoltaico e l’eolico sono purtroppo troppo poco diffuse per costituire una reale alternativa ai combustibili fossili. L’unica soluzione, per alcuni, sarebbe il nucleare. Ma i rischi legati a questo modo di produrre energia elettrica sono noti. Basti pensare a quanto è avvenuto a Fukushima, in Giappone.
A questo si aggiunge un altro problema. Le centrali nucleari attive sono mediamente “vecchie”. La vita utile di una centrale nucleare dovrebbe essere venti anni. In alcuni casi, e in casi particolari, quaranta. Ma secondo i dati del Power Reactor Information System (PRIS) dei 422 reattori operativi in tutto il mondo a marzo 2023, la maggior parte (ben 262) sono in funzione da 31 a 50 anni. In altre parole, circa il 62% di tutti gli attuali reattori nucleari sono stati messi in opera tra il 1973 e il 1992. Al problema dell’usura delle centrali si aggiunge il fatto che, quando questi reattori sono stati progettati, le tecnologie erano ben diverse da quelle attuali. Pochi i reattori nella fascia di età compresa tra 11 e 20 anni. Molti dei quali in Cina dove continua l’espansione a causa della crescita della domanda di energia. Nel mondo, i reattori “nuovi”, vale a dire con dieci anni di vita o meno, sarebbero solo 67, pari al 18% della capacità elettrica nucleare globale. Al contrario molti i reattori “vecchi”. Alcuni hanno addirittura 54 anni. Vale a dire che sono entrati in funzione nel 1969. Sarebbero cinque: due negli Stati Uniti, due in India e uno in Svizzera, a pochi chilometri dal confine con l’Italia.
Dismettere un reattore ha un costo economico elevatissimo. Costruirne uno nuovo ha un costo ancora maggiore. Nel primo caso per la gestione delle scorie e la dismissione degli impianti. Nel secondo per i costi legati alla sicurezza. È per questo che, in molti Paesi “nucleari”, si sta cercando di adottare politiche per consentire estensioni della durata dei reattori esistenti. Molti hanno già concesso rinnovi di licenza per reattori obsoleti. Negli USA, uno dei Paesi più “sviluppati” del pianeta, 88 dei 92 reattori attivi hanno ricevuto approvazioni per operare fino a 60 anni. Alcuni avrebbero richiesto addirittura ulteriori estensioni di 20 anni, per continuare a produrre energia fino a quando saranno vecchi 80 anni.
E in Europa? Nei Paesi Ue l’uso del nucleare come fonte di energia è più diffuso di quanto si pensi. E non solo in Francia. Nel 2020 l’energia nucleare ha coperto il 13% del consumo totale di energia. Secondo i dati ufficiali sarebbero 122 i reattori presenti (e 6 in costruzione). La maggior parte di questi si trovano in Francia ma ce ne sono anche in Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania (ha deciso di chiudere gli impianti nel 2022), Ungheria, Paesi Bassi, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito. L’Italia ha detto no (con un referendum) alla produzione di energia elettrica. Salvo poi accettare che tutti i Paesi confinanti (ad eccezione dell’Austria) avessero centrali nucleari poco lontane dal confine. Anzi, da molti anni, compra dalla Francia energia elettrica prodotta con il nucleare.
Una decisione incoerente (viste le risorse energetiche sostenibili di cui potrebbe disporre). Che trova riscontro nelle decisioni dell’Ue. A conciare da quella del 2012 della Commissione europea che ha stabilito gli standard di sicurezza dell’UE in quel momento e sottolineato la necessità di ulteriori miglioramenti al fine di garantire una maggiore coerenza tra Stati membri e l’allineamento alle migliori prassi internazionali (COM(2012)0571). Nel 2014, le norme di sicurezza per gli impianti nucleari nell’Ue sono state aggiornate (direttiva 2014/87/Euratom). Ma solo un anno dopo, nel 2015, la Commissione ha proposto di riesaminare le prescrizioni in materia di informazione ai sensi degli articoli 41 e 44 del trattato Euratom per allinearle ai nuovi sviluppi strategici. Nel 2018, la Commissione ha proposto un nuovo regolamento per la cooperazione internazionale in materia di sicurezza nucleare (regolamento (Euratom) 2021/948 del Consiglio).
A giugno 2021, infine (in piena pandemia) è entrato in vigore un nuovo strumento europeo per la cooperazione internazionale in materia di sicurezza nucleare. Una misura che prevedeva una dotazione finanziaria di 300 milioni di EUR per il periodo 2021-2027. Pochi. Troppo pochi. Basti pensare che, per la disattivazione degli impianti nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in Bulgaria (Kozloduy), Slovacchia (Bohunice) e Lituania (Ignalina), compresi gli impianti di ricerca nucleare in quattro siti del Centro comune di ricerca della Commissione, sono stati stanziati, sempre per il periodo 2021-2027, 466 milioni di euro per il programma relativo a Kozloduy e per il programma relativo a Bohunice e 552 milioni di euro per Ignalina. Somme che dovrebbero coprire solo in parte il costo di disattivazione egli impianti e la messa in sicurezza.
La sicurezza era e rimane una delle criticità delle centrali nucleari. L’ultimo caso in Francia solo pochi mesi fa: a marzo su un reattore dell’impianto di Penly, si è aperta una crepa che ha compromesso il sistema di raffreddamento del reattore e ha costretto a spegnerlo. Il guasto è stato classificato con rischio di “livello 2”, un gradino sotto quello che viene definito “incidente grave”. Quello di Penly non è l’unico reattore a mostrare crepe: anche a Cattenom, Civaux e Chooz l’Edf, l’ente che gestisce l’impianto, ha individuato un alto livello di corrosione che ha costretto l’agenzia a fermare la loro attività. Edf ha più volte denunciato che il “parco” reattori è vecchio, Ma gravi buchi di bilancio hanno frenato gli investimenti e causato un debito di decine di miliardi. Nel 2022, Edf è stata costretta a operare con la metà dei suoi 56 reattori. Gli altri erano fermi per manutenzioni ordinarie o straordinarie. E secondo Rte, il gestore della rete francese, non è escluso nel corso dell’anno possano avvenire delle interruzioni di elettricità “mirate”.