Il grande successo della fast fashion deriva dalla rapidità nel ricambio delle collezioni in vendita nei negozi della grande distribuzione che in questo modo tengono il passo delle nuove tendenze della moda. Il termine moda veloce indica il modello di business nato negli anni Ottanta per la produzione e la commercializzazione di capi di abbigliamento generalmente di scarsa qualità e a basso prezzo. Ma la necessità di assecondare così le tendenze del mercato richiede una disponibilità di prodotti sempre nuovi e diversi. Questo ha un grave impatto ambientale sia in termini di produzione (l’industria della moda è una di quelle che consuma più energia e acqua sul pianeta) che per lo smaltimento dell’invenduto e di tutto quanto viene buttato dopo pochi mesi dai consumatori.
Secondo alcuni dati della Commissione europea Il consumo di prodotti tessili nel Vecchio Continente ha il quarto impatto più elevato sull’ambiente e sui cambiamenti climatici, dopo l’alimentazione, le abitazioni e la mobilità. Ogni anno un cittadino europeo getta in media 11 chilogrammi di prodotti tessili e, nel mondo, ogni secondo un camion di indumenti viene smaltito in discarica o incenerito.
Oggi meno dell’un per cento degli abiti usati viene riciclato. La stragrande maggioranza degli scarti di abbigliamento finisce in gigantesche discariche nei paesi poveri. Paesi dove nessuno fa troppe domande sul modo in cui questi rifiuti sono gestiti. Paesi come il Ghana. Qui dall’Europa e dagli Stati Uniti arrivano tonnellate di indumenti di seconda mano. Ufficialmente questi stock sono importati per essere rivenduti. Ma la qualità di questi capi è così scadente che la maggior parte finisce incenerita o abbandonata in discariche a cielo aperto. Per questo le balle di vestiti provenienti dai paesi ricchi sono chiamate ‘obroni wawu’ nella lingua locale Twi: “vestiti morti dei bianchi”.
Lo stesso avviene in Cile. Al porto di Iquique arrivano circa 60.000 tonnellate di vestiti usati all’anno. Iquique è una “zona franca” stabilita dal governo cileno per facilitare il trasporto internazionale delle merci e incentivare l’economia locale. Ciò significa che le aziende della zona non pagano le imposte doganali e possono così ottenere a prezzi stracciati i vestiti della fast fashion di cui il Nord del mondo vuole liberarsi. Qui vengono smistati e selezionati: quelli in buone condizioni vengono venduti nei negozi di altri Paesi dell’America Latina o sui mercati locali, mentre quelli più rovinati (che sono una buona parte) devono essere smaltiti. A questo punto, per non pagare i costi dello smaltimento, i vestiti invenduti vengono portati in discariche abusive come quella nel deserto di Atacama.
Lungo la costa nord-occidentale del Cile, tra la catena delle Ande e la Cordigliera della Costa, si estende il deserto di Atacama, una delle zone più aride del pianeta. Qui le precipitazioni sono inferiori a tre millimetri all’anno e la temperatura oscilla tra 5°C di notte e 40°C di giorno. Questo rende queste zone poco abitabili. Il posto ideale per scaricare abusivamente tonnellate di vestiti usati o invenduti. La discarica di vestiti alla periferia di Alto Hospicio, all’estremità occidentale del deserto di Atacama, appare come un enorme cumulo tra le dune. È così grande che pare sia visibile anche nelle immagini satellitari. Ogni giorno camion carichi di abiti raggiungono indisturbati la discarica e li scaricano dove capita, illegalmente, a cielo aperto. Decine di migliaia di tonnellate di indumenti di ogni tipo. A volte usati, altre volte nuovi. Molti capi sono in tessuti sintetici, derivati dalla plastica. Per decomporsi in modo naturale possono impiegare più id 200 anni. Nel frattempo, rilasciano nel suolo sostanze altamente inquinanti. A peggiorare la situazione il fatto che ogni tanto, per ridurre il volume dei rifiuti, qualcuno dà fuoco a queste cataste. Ma così facendo si liberano fumi tossici che raggiungono le città.
C’è chi ha visto in questi rifiuti indesiderati una potenziale fonte di guadagno. Mary Fleming era in vacanza in Kenya quando vide un cumulo di vestiti di seconda mano ammucchiati per essere mandati in discarica. Un accumulo così grande e disordinato da arrivare fino al mare. Improvvisamente le tornò in mente la sua mania per lo shopping che la portava a comprare un vestito nuovo quasi ogni fine settimana. Improvvisamente vedendo che fine facevano i vestiti usati, Mary si rese conto delle conseguenze della moda veloce e, in generale, del consumo di massa.
Tornata a Dublino, la Fleming si diede da fare. In pochi mesi fondò Change Clothes, un’organizzazione no-profit con sede in uno swap shop dove le persone possono noleggiare, scambiare e acquistare vestiti usati. Vengono anche forniti tutorial su come riparare e riciclare indumenti sfilacciati. “La maggior parte delle persone non saprebbe come rattoppare un buco. Una volta capito, sono felici di sé”, dice la Fleming. “È così semplice che è criminale che non sia meglio conosciuto”. In poco tempo la sua azienda è cresciuta. Ora gestisce punti vendita pop-up e workshop in tutta l’Irlanda. Il suo slogan è: “Perché l’usato è fottutamente fantastico”.
Change Clothes ha avuto un successo inaspettato: pochi mesi dopo la creazione, si è trasferita in una nuova sede nel centro di Dublino. “Arrivavano così tante persone, avevamo solo bisogno di più spazio”. Ora la sua ‘organizzazione no-profit gestisce anche mercati notturni e workshop per realizzare costumi di Halloween, palline di Natale e ghirlande. Ovviamente partendo da abiti usati.
“C’è voglia di cambiamento, un’opportunità di cambiamento”. Indicando rotoli di tessuti dai colori vivaci accatastati in un angolo la Fleming ha detto: “Una rete sotterranea di fanatici del tessile mi ha segnalato una discarica che aveva rotoli di tessuto nuovi di zecca: stava andando in discarica”.
“In alcune comunità c’è ancora uno stigma sui vestiti di seconda mano e sul non voler essere visti come poveri. Stiamo cercando di cambiare la percezione. C’è molto lavoro da fare”. Fleming e il suo team di due dipendenti part-time e una dozzina di volontari hanno tre categorie: vestiti in ottime condizioni, vestiti che “hanno bisogno di aiuto” e vestiti giunti alla fine del loro ciclo di vita. Il tutto con metodi di marketing davvero innovativi. Con poche sterline – si parte da 4,20 sterline -, le persone in possesso di indumenti usati possono prenotare uno spazio di 30 minuti presso Change Clothes, ottenere dei gettoni per le loro donazioni (migliori sono le condizioni o la marca, più gettoni saranno assegnati) e poi utilizzarli per acquistare altri vestiti usati o oggetti dal negozio. É possibile anche noleggiare un articolo e restituirlo (ovviamente dopo aver provveduto a lavarlo). L’anno scorso, la Fleming ha aggiunto a questi vestiti anche il proprio abito da sposa.
Gli indumenti che non possono essere recuperati vengono tagliati e rifiniti e trasformati in qualcos’altro, come striscioni o tovagliette. Gli abiti in eccedenza e in buone condizioni vengono donati ai centri per rifugiati e alle strutture di assistenza. Ma non basta. I collaboratori della Fleming girano l’Irlanda in lungo e in largo: visitano campus universitari, biblioteche e centri comunitari per dare lezioni su come riparare o riutilizzare abiti danneggiati o usurati. Il sistema creato dalla Fleming potrebbe essere un modo per risolvere il problema della gestione degli abiti usati. da gennaio, le nuove norme UE richiederanno agli stati membri di separare la raccolta dei tessuti per il riutilizzo e il riciclaggio, una direttiva che riguarda abbigliamento, coperte, biancheria da letto, tende, cappelli, calzature, materassi e tappeti.
“Se passassi ogni giorno a pensare a cosa ci aspetta, non credo che mi preoccuperei. Voglio concentrarmi sul cambiamento possibile”, afferma Fleming. Ma il suo messaggio è sempre lo stesso: riciclare è fottutamente fantastico!