Negli ultimi giorni si è parlato degli Stati Uniti d’America e del rischio default. Alla fine, tutto si è risolto in modo “politico”: il Congresso ha autorizzato un ulteriore aumento del debito pubblico (era già successo durante la presidenza Trump) in cambio di alcune concessioni politiche da parte del presidente Biden. Una soluzione che non è che un palliativo: il debito pubblico americano ha raggiunto somme stratosferiche (oltre 31.400 miliardi di dollari).
Per comprendere la gravità del fenomeno basti pensare che, nel 2007, gli USA erano responsabili del 20% del debito pubblico di tutti i paesi OCSE. Nel 2018, prima ancora della pandemia e della montagna di miliardi di dollari in armi e armamenti regalati all’Ucraina, questa percentuale era salita al 35%. per i cultori della materia, il paese OCSE con il debito pubblico maggiore in rapporto al PIL, era e resta il Giappone. Questi numeri, però, possono essere fuorvianti per i non addetti ai lavori. Per chi volesse capire se la situazione mondiale e quella del proprio paese (anche in relazione agli altri paesi) sta peggiorando o sta migliorando, come continuano a ribadire i politici di turno.
Per fornire una risposta a questo quesito potrebbe essere utile un altro indice (del quale si parla molto poco): il Fragile States Index. Creato dal Fund for Peace si basa su dodici indicatori di rischio suddivisi in quattro macro aree. Indicatori di coesione (tra cui C1: Apparato di sicurezza; C2: Élite frazionate e C3: Lamentele di gruppo). Indicatori Economici (comprendono E1: Declino economico; E2: Sviluppo economico ineguale; E3: Fuga umana e fuga di cervelli). Indicatori politici suddivisi in tre sottogruppi ovvero P1: Legittimità dello Stato; P2: Servizi pubblici e P3: Diritti umani e stato di diritto. Ultimi, ma non meno importanti, gli Indicatori Sociali e trasversali (S1: Pressioni demografiche; S2: Rifugiati e sfollati interni; X1: Intervento esterno).
Il Fragile States Index si basa su un quadro di valutazione dei conflitti – noto come “CAST” – progettato per misurare questa vulnerabilità e valutare come potrebbe influenzare i progetti sul campo, e continua ad essere ampiamente utilizzato dai responsabili politici, dai professionisti sul campo e dalle reti delle comunità locali. La metodologia utilizza indicatori sia qualitativi che quantitativi, si basa su dati di fonte pubblica e produce risultati quantificabili. Questo indice è uno strumento fondamentale per evidenziare non solo le normali criticità degli stati, ma anche per comprendere con un certo anticipo se queste rischiano di portarlo sull’orlo del fallimento. Ma non basta. Il Fragile States Index consente di effettuare una valutazione del rischio politico e fornire un allarme precoce dei conflitti possibili.
Occupare un posto più basso nella graduatoria significa che uno stato è meno fragile, quindi sta “meglio”. Al contrario, più elevata è la sua posizione, più questo è indice di potenziale debolezza. Gli indicatori analizzati per misurare le condizioni di uno stato in un dato momento forniscono una sorta di “istantanea” del paese. Una fotografia che può essere confrontata con quella di altri paesi nello stesso momento o per realizzare una serie temporale e comprendere se le condizioni di singolo un paese stanno migliorando o peggiorando, magari in risposta ad un evento globale (come la crisi del 2007 o la pandemia).
Ad esempio, la posizione degli USA, solitamente altalenante, mostra un netto peggioramento nell’ultimo periodo: se nel decennio dal 2007 al 2017 oscillava tra il 159/160esimo posto recentemente ha avuto una impennata e gli USA sono oggi al 143esimo posto. La graduatoria 2023 vede al vertice (ovvero tra gli strati più fragili e a rischio) la Somalia seguita dallo Yemen, dal Sud Sudan e dalla Repubblica Democratica del Congo. A seguire altri due paesi in guerra: Afghanistan e Siria. La conferma che il metodo di analisi funziona.
Tra le grandi potenze mondiali, sorprendentemente alta la posizione della Russia: 53esima preceduta dalla Turchia e seguita dalla Cambogia. Degno di nota il fatto che la Russia ha perso oltre 20 posizioni in un solo anno: lo scorso anno era 75esima. Un peggioramento probabilmente dovuto anche alla decisione di invadere l’Ucraina. A proposito di Ucraina, non sorprende trovarla alla 18esima posizione nel 2023, conseguenza della instabilità legata alla guerra in atto. Questo non vuol dire, però, che prima della guerra la sua situazione fosse idilliaca: anzi aveva già mostrato un netto peggioramento da quando l’attuale presidente aveva deciso di lasciare le scene per darsi alla politica.
“Fragile” anche l’India: nel 2023 occupa il 73esimo posto. Leggermente migliore, ma neanche tanto, la posizione della Cina: “solo” 101esima. Ma se la posizione dell’India non sorprende più di tanto viste le numerose criticità in corso, diversa è la situazione della Cina: il paese, negli ultimi anni, ha fatto grandi sforzi per mostrarsi stabile e sicuro (dall’aver prolungato la possibilità per il presidente di essere rieletto alle pressioni sulle minoranze etniche alle scelte di politica estera). Dal 2006 al 2023, la Cina ha “perso” oltre quaranta posizioni (passando dal 57esimo posto nel 2006 al 101esimo nel 2023). Segno che è diventata meno fragile. Ma la strada è ancora lunga.
Il primo dei paesi sviluppati che si incontra scorrendo la lista sono proprio gli Stati Uniti d’America seguiti da Polonia, Israele, Spagna, Lettonia, Italia e Regno Unito.
Agli ultimi posti della classifica (ma mai come in questo caso, essere ultimi è meglio), come al solito, i paesi scandinavi e la Nuova Zelanda. E l’Italia? Detto della posizione generale, da sottolineare il peggioramento costante dal 2007: dalla 155esima posizione nel 2007 si è passati alla 141esima nel 2021. Poi un piccolo miglioramento: oggi è al 146esimo posto. Degno di nota, per il Bel Paese, il fatto che mentre il trend con cui sono cambiati gli altri indicatori è stato praticamente costante, quello relativo agli aspetti sociali è cresciuto considerevolmente. Segno le politiche di welfare non hanno funzionato (unico aspetto positivo il dato che riguarda rifugiati e sfollati).
Altra nota dolente deriva dal confronto tra il valore assoluto dell’indice di fragilità dei paesi sviluppati. Mentre per i paesi meno fragili questo indice, frutto della somma degli indicatori visti prima, si aggira tra 14 e 20, per l’Italia è più del doppio (42,6). Ancora più alto per gli USA dove raggiunge il valore preoccupante di 45,3. Poco sotto l’indice di fragilità di paesi come il Botswana, l’Argentina o la Mongolia.
Un dato preoccupante se si pensa che altrettanto (se non ancora più) fragili sono i paesi che pesano di più a livello globale, come Cina e India.