“Non solo mi congedo da questi amici,
ma tra alcuni mesi queste creature che mantenevo rinchiuse
e che nessun altro conosceva,
diventeranno amici di persone che nemmeno ho visto,
dei gentili lettori che si scomoderanno ad aprire questo libro”
Javier Marìas, Inedito.
Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo
Con colpevole ritardo e nei giorni in cui il Premio Nobel per la Letteratura viene assegnato alla scrittrice francese Annie Ernaux di cui ho tracciato un breve ritratto nei giorni scorsi, mi trovo a ricordare la statura dello scrittore spagnolo Javier Marìas. Adempio volentieri a questo compito con ancora vive le impressioni lasciatemi dalla lettura del suo ultimo libro “Tomàs Nevinson”.
La coincidenza della prematura scomparsa di Marìas – portato via settantenne dalle complicazioni polmonari derivanti dal Covid 19 – con quella della regina Elisabetta II che ha monopolizzato per settimane i media di tutto il mondo, ha ridotto la risonanza dell’evento di cui, peraltro, è stata data notizia dai principali giornali.
Spesso menzionato come possibile vincitore del Premio Nobel per la Letteratura, le sue opere sono caratterizzate da un puzzle da migliaia di pezzi, che va definendosi man mano che i tasselli vengono incastrati al loro posto; i libri di Javier Marías rivelano, un pezzettino alla volta, minuti dettagli della vita dell’autore: dall’universo cinematografico americano al docente spagnolo ad Oxford, dall’uomo tradito e denunciato alla polizia franchista alla stravagante storia del Regno di Redonda, isola disabitata dell’arcipelago delle Antille.
Al tempo stesso, le opere dello scrittore scoraggiano chiunque dall’andarvi a cercare un qualunque legame con la realtà: nei romanzi di Marías l’elucubrazione mentale, articolata da un sapiente e corposo discorso narrativo (e metanarrativo) ipotattico, rischia spesso e volentieri di annientare la fabula; la digressione, che divaga solitaria da una pagina all’altra, associativa e immediata, come se avesse vita propria, è forse una delle principali caratteristiche dello stile dello scrittore.
Nato nel 1951, in piena epoca franchista, Javier Marías Franco esordisce giovanissimo, a soli diciannove anni, nel 1971, quando il regime è ormai agli sgoccioli. Il romanzo “I territori del lupo” (Einaudi, traduzione di Maria Nicola), narra una saga familiare nella buona società di Pittsburgh, in Pennsylvania, dove una tragedia inaspettata innesca una serie di reazioni a catena estremamente diverse tra loro, ma tutte fortemente influenzate dalla cultura pop americana e dal suo immaginario cinematografico, soprattutto il noir statunitense di quegli anni. Un’estetica che l’autore conosceva bene, avendo lavorato come traduttore nel mondo del cinema, a fianco dello zio Jesús Franco, regista e sceneggiatore.
Sin dal primo romanzo, Marías si avvicina a una letteratura anglofila, prendendo le distanze dalla letteratura spagnola contemporanea, fatta eccezione per lo scrittore Juan Benet, che accoglie positivamente il volume, lontano dal più diffuso realismo spagnolo. Questa distanza non è destinata a diminuire con le opere successive, quali “Traversare l’orizzonte” (Einaudi, traduzione di Glauco Felici) del 1972, ispirato al romanzo di viaggio e d’avventura del tardo Ottocento, e “El monarca del tiempo” (del 1978, non tradotto in Italia), che con la sua struttura composta da tre narrazioni, un saggio e un testo teatrale sembra voler destabilizzare il genere stesso del romanzo.
All’Università Complutense di Madrid, Javier Marías studia Filologia Inglese e, per qualche tempo, insegna Letteratura spagnola all’Università di Oxford; nel frattempo si afferma come traduttore, grazie soprattutto alla sua interpretazione del Tristram Shandy di Laurence Sterne, che gli valse il premio nazionale di traduzione nel 1979.
Nel corso della sua carriera, Marías traduce in spagnolo alcuni dei più importanti autori in lingua inglese, scrittori come Thomas Hardy, Joseph Conrad, Laurence Sterne, Yeats e Stevenson. Diventa docente di Teoria e traduzione nella sua alma mater, a Madrid, dove si inscena il romanzo “L’uomo sentimentale” (Einaudi, traduzione di Glauco Felici) pubblicato nel 1986, prima ambientazione spagnola dell’autore e prima comparsa di quella voce narrante maschile, interiore e imprevedibile nel suo vagabondare, che diventerà così caratteristica delle sue opere successive.
Nel 1989 Marías pubblica “Tutte le anime” (Einaudi, traduzione di Glauco Felici), romanzo che echeggia l’esperienza dell’autore come insegnante a Oxford, palcoscenico gotico e sonnolento della vicenda di un docente spagnolo che si mette sulle tracce di libri rari, tra i quali quelli dell’eccentrico avventuriero John Gawsworth; nel frattempo intrattiene una relazione con una donna sposata, ciliegina sulla torta di un soggiorno inglese che assume le caratteristiche di un esilio da se stesso.
La trama si fa quasi inesistente, a favore di una serie di digressioni letterarie ed esistenziali da parte della voce narrante, la stessa che si incontra nuovamente nella successiva, monumentale trilogia, “Il tuo volto domani”.
Nel 1992 vede la luce una delle prime opere di grande successo di Marías, “Un cuore così bianco” (Einaudi, traduzione di Paola Tommasinelli), che gli valse il Premio de la Crítica. Il romanzo comprende una delle più magistrali scene narrative dell’autore: durante un incontro tra Margaret Thatcher and Felipe González l’interprete, Juan, sceglie deliberatamente di inventare la traduzione e pilotare la conversazione tra i due politici, conquistando così l’amore di Teresa, altra interprete presente e sua futura moglie.
La chiave di lettura del testo è fornita dall’autore stesso nella scelta del titolo, tratto dal “Macbeth” di Shakespeare, una citazione che allude alla colpevolezza di chi, pur senza commettere un crimine, ne è complice.
Ancora d’ispirazione shakespeariana è il titolo del romanzo successivo, “Domani nella battaglia pensa a me” (Einaudi, traduzione di Glauco Felici), una citazione tratta dal Riccardo III, che prelude a un’altra narrazione imperniata sull’ambiguità morale, il segreto e il tradimento. Il narratore, Víctor, che nella vita fa il ghost writer, si trova a casa di Marta, donna sposata, quando i due si spogliano e lei, colta da un improvviso malore, gli muore tra le braccia, lasciandolo nell’incresciosa situazione di dover condividere con lei un’esperienza molto più intima del sesso: la morte. Dopo quella notte, Víctor si trova coinvolto con il marito e la sorella di Marta in una situazione paradossale, in cui il moltiplicarsi di interpretazioni possibili e realtà potenziali intrappolano i personaggi in un limbo a metà strada tra l’ironia e la tragedia.
Concepita come un unico romanzo ma suddivisa in tre volumi, l’imponente trilogia “Il tuo voto domani” (Einaudi, traduzione di Glauco Felici) trae il suo titolo da un passo, ancora una volta, shakespeariano, dell’Enrico IV. Il primo volume della serie, Febbre e lancia, del 2002, esordisce con una dichiarazione tanto significativa quanto ossimorica: “Non bisognerebbe raccontare mai niente”, incipit che prelude una narrazione complessiva di oltre 1200 pagine, compresi i due volumi successivi, Ballo e sogno del 2005, e Veleno e ombra e addio del 2007.
Protagonista dai molti nomi è lo stesso docente spagnolo incontrato dal lettore nella Oxford di “Tutte le anime” ora impegnato presso i servizi segreti britannici in un ufficio che cerca di determinare il comportamento delle persone attraverso la penetrazione psicologica, nel tentativo di anticipare possibili soffiate e tradimenti, un compito per il quale il protagonista è straordinariamente portato.
Accanto a questa trama principale si aggomitolano una serie di sotto trame secondarie che aggrovigliano e arricchiscono il tessuto narrativo con diverse incursioni nella storia: l’uccisione del trotzkista Andrés Nin da parte di una spia russa, la propaganda inglese per la segretezza durante la seconda guerra mondiale e la guerra civile spagnola, con un riferimento specifico alla vicenda familiare dell’autore, il cui padre, come il padre del protagonista, era stato tradito da un caro amico e denunciato alla polizia franchista come oppositore del regime, costringendolo a rinunciare al suo ruolo come insegnate di filosofia.
L’intreccio del romanzo, postmoderno nella sua relazione intertestuale con altre opere, offre lo spunto per diverse riflessioni psicologiche, innanzitutto, e sociali, che danno origine a digressioni di diverse pagine, tipiche dell’autore. L’opera, monumentale nel suo complesso e impossibile da riassumere, consacra Javier Marías come uno dei più grandi autori contemporanei.
Scrittore, traduttore, giornalista e sovrano del Regno (fittizio) di Redonda, isola dell’arcipelago delle Antille il cui trono passa in eredità da un uomo di lettere all’altro, è impossibile ridurre Javier Marías a un identikit sommario, che rischierebbe di non rendere giustizia alla complessa varietà della sua opera. Egli stesso, come riporta un articolo del Guardian, dichiara: “Non ho mai avuto un progetto letterario e sento di aver improvvisato per tutta la mia carriera. Ma posso riconoscere alcuni temi ricorrenti: tradimento, segretezza, l’impossibilità di conoscere le cose, le persone, o se stessi. Vi sono anche la persuasione, il matrimonio e l’amore”, temi che l’autore (a ragione, s’intende) identifica come appartenenti alla letteratura di tutti i tempi piuttosto che specifiche di una propria poetica. Sono tuttavia tematiche che ritornano, ancora una volta, nel romanzo “Berta Isla” (Einaudi, traduzione di Maria Nicola), la storia di due persone, Berta e Tomás, che si sono sposate più per inerzia che per amore; entrambi custodiscono un segreto, lui nel suo passato, lei nella sua intimità, nessuno dei due conosce veramente l’altro e la loro vita insieme è fatta di ricordi e risentimenti, tradimenti, frasi non dette e la lealtà che rimane. L’epilogo della loro storia, e della vicenda terrena di Marìas, è nell’opera che ho citato in apertura “Tomàs Nevinson”.
Il filo conduttore che attraversa tutta l’opera dello scrittore, tanto da poter fungere da test di paternità autoriale, è quello stile digressivo di cui si è già parlato; come si legge sul New Yorker, “Marías ama citare Laurence Sterne per descrivere la sua scrittura: “Con la digressione, progredisco”.
La citazione di Sterne calza a pennello: il narrare, in Marías, procede per digressioni, talvolta di pagine e pagine, fitte di accumuli e sinonimi, esaustive fino allo sfinimento. Allo stesso tempo, spiega alla Paris Review: “La mia intenzione – il mio desiderio – è che tutte le digressioni nei miei libri siano abbastanza interessanti in se stesse da far soffermare il lettore”.
Una considerazione che conforta molto chi scrive queste righe e i cui lettori sono ormai pazientemente abituati a seguirlo nei suoi, talvolta arditi, vagabondaggi letterari.
Ha scritto Umberto Eco: “Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come se si parlassero fra loro. Alla luce di questa riflessione, la biblioteca mi parve ancora più inquietante. Era dunque il luogo di un lungo e secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana, tesoro di segreti emanati da tante menti, e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o se ne erano fatti tramite.”
Laddove Daniel Pennac rivendica al lettore il diritto di saltare qualche pagina durante la lettura, questo diritto andrebbe revocato quando si viene ai libri di Javier Marías: qui la digressione non sospende la trama, ma procede lateralmente, attraverso meditazioni necessarie alla comprensione dell’opera nel suo intero. Non leggerla significherebbe spogliare il testo del suo aspetto più prezioso, quell’errare oltre i confini della fabula, nello spazio di una più libera ed universale espressione.