Nonostante la retorica della Città Felicissima, Palermo è stata sempre povera e disperata. Fino alle soglie del secondo dopoguerra le condizioni della maggior parte della popolazione erano da “terzo mondo”.
Lo ricordano testi letterari e teatrali, documenti, film che hanno fatto la storia del cinema e interviste preziose, visibili in orari antelucani quando la televisione pubblica sembra rinsavire, come quelle realizzate da Pier Paolo Pasolini nei Comizi d’Amore (1964) – dei cui viaggi in Sicilia ho già scritto su queste pagine non molto diverse da quelle realizzate da Mario Soldati nel Piemonte povero e profondo degli anni ’60 o nel Polesine devastato dall’ inondazione del 1951.
A Palermo, nel centro storico dai palazzi incantevoli si aprivano spelonche in ciascuna delle quali si affollavano in promiscuità decine di persone e animali da tiro. Ho ancora un antico ricordo olfattivo degli effluvi di resti di deiezioni delle une e degli altri che restavano sospesi nell’aria specie in estate e, secondo il vento, raggiungevano anche i confini del “salotto della città”
Tuguri malsani e catoi infetti erano l’abitazione di migliaia di palermitani. Negli anni del “sacco della città” si pensò di svuotare il cuore del capoluogo in vista di un’immensa speculazione edilizia e tale umanità dolente fu deportata nei quartieri satelliti di Borgo Nuovo, del CEP (Centro edilizia Popolare) oggi chiamato San Giovanni Apostolo e del lunare ZEN (Zona Espansione Nord) progettato dall’ architetto Vittorio Gregotti e oggi inutilmente ribattezzato San Filippo Neri. Furono costruiti in anni diversi quale risposte razionali e funzionali; divennero invece veri inferni dell’anima e del corpo, privi di ogni servizio e, sino a quindici fa, anche delle fognature. Allo ZEN la caserma dei Carabinieri è stata aperta soltanto nel 2010. Oggi sono set frequentatissimi per innumerevoli fiction “antimafia” che oltre a perpetuarne il destino come un’oscura maledizione, lasciano poco o nulla ai residenti, facendo invece la fortuna di produttori e registi, quasi tutti provenienti da altrove.
Nei medesimi quartieri fanno notizia quasi ogni settimana le vandalizzazioni di moderni complessi scolatici, vere e proprie Fortezze Bastiani dove i Tartari non si fanno aspettare, presìdi di una legalità che però si interrompe oltre la soglia dell’edificio, doverosamente dedicato a Vittime di mafia. Pur essendone spesso dotati, in tali edifici sono vuoti gli alloggi previsti per i custodi, occupazione che pure dovrebbe essere allettante, viste le entrate dichiarate dai residenti, in molti casi titolari del reddito di cittadinanza. Si preferisce, invece, affidare la sorveglianza a telecamere, primo obiettivo di giovanissimi raiders o, talvolta, non funzionanti, elemento che viene immediatamente a conoscenza di tutto il quartiere.
Un’ insegnante di frontiera mi racconta di come dopo corsi di educazione stradale tenuti in collaborazione con il Corpo di polizia Municipale, i numerosi piccoli sono caricati, anche a tre alla volta, dal genitore in scooter e rigorosamente privo di casco. Tra pochi giorni vedremo in quale conto saranno tenute, all’entra e all’uscita dalle lezioni, le misure obbligatorie di prevenzione del contagio da Covid 19. Confidiamo nell’amore di tante mamme, finora non contagiate dell’infelice slogan “Un c’nnè Covid” che ha fatto il giro del mondo e lanciato influecer in salsa nostrana come la seguitissima Angela Chianello che può esibire al vorace mercato pubblicitario oltre centotrentamila followers su Instagram. Vera povertà civile e culturale, che in certe zone si sposa con la “normalità” dell’imperante lavoro in nero, con il pizzo regolarmente corrisposto alle “famiglie locali”, con le corse clandestine di cani e cavalli.
Un tram molto contestato collega oggi Borgo Nuovo e CEP alla parte nuova della città, pur senza raggiungere il Centro, se non attraverso cambi di mezzo pubblico. E’ stata comunque una risposta, anche se forse più mirata ad alleggerire il traffico privato, vero e proprio incubo per chi vive oltre la cicatrice della Circonvallazione, come i palermitani continuano e chiamare il Viale della Regione Siciliana.
Questa immensa distesa di poveri ha trovato nei secoli il silenzio dei governanti, più inclini all’elemosina che alla giustizia sociale e che ancora oggi li continuano ad illudere con ben differite promesse, utili solo a vincolarne il consenso verso questo o quel populista ante litteram che la città non si è mai fatta mancare.
Come anche le periferie ad est della città definite storiche, sono infatti veri e propri feudi elettorali che hanno fatto la fortuna intere dinastie di amministratori locali. Né la tanto attesa istituzione delle Circoscrizioni, intese come Municipalità decentrate e dotate di un presidente eletto direttamente, sembra aver inciso in modo visibile, anche a motivo di poteri d’intervento e di distribuzione delle risorse umane e finanziarie, mai delegate da parte del Comune, nonostante un regolamento d’avanguardia varato durante la consiliatura 93/97.
Nel silenzio e nella solitudine che accompagnarono per lunghi anni Padre Pino Puglisi e che sovente diventa clamore dinanzi alle ricorrenti denunzie di Fratel Biagio Conte, sono vissuti e hanno operato molti sacerdoti che hanno preso sulle spalle la croce dei poveri, guadagnandosi diffidenza e disprezzo. Spesso, ma non sempre, sostenuti dalle organizzazioni di volontariato presenti sul territorio, hanno dovuto affrontare gli ostacoli di una burocrazia ancor più ostile degli interessi locali che “disturbavano” con la propria azione pastorale.
Nei pochi giorni che ci separano dal ricordo del martirio di Don Pino Puglisi a Brancaccio, trovo giusto ricordare un’altra figura che rappresentò per oltre mezzo secolo a Palermo l’unica risposta alla povertà e alla disperazione degli ultimi e il sicuro rifugio per centinaia di minori abbandonati. Anche allora il potere manifestò perplessità e sospetto piuttosto che vicinanza e aiuto, poiché come si sa, persone così, sono un costante e vivente rimprovero a chi dovrebbe essere e non è, dovrebbe fare e non fa. E sono spesso gli stessi potenti che sono pronti poi a sfruttare mediaticamente quei sacrifici e a diventare, improvvisamente e spesso quando è troppo tardi, laudatori di chi avrebbero dovuto sostenere quando ne avevano la facoltà e il dovere.
Padre Giovanni Messina fu chiamato dal popolo palermitano “il pazzo di Dio”, come in Russia venivano chiamati “i folli di Dio” quelle persone che incuranti della loro persona, che si dedicavano totalmente alla preghiera e all’apostolato fra i fratelli.
Certo, non c’è nessun paragone fra padre Messina e quegli eremiti russi, che vivevano all’ombra delle chiese di Mosca. Ma il termine è ugualmente appropriato, perché se non si è pazzi di Dio, nel senso di innamorati di Dio, non si può svolgere una vita così intensa e sofferta, come quella che narriamo. Giovanni Messina nacque a Palermo il 31 marzo 1871, come spero verrà ricordato dalla Città tra pochi mesi, nel rione Kalsa, da Salvatore Messina e Lo Nigro Rosalia. Crebbe e maturò nel popolare quartiere palermitano, frequentando assiduamente la parrocchia, dove poi sbocciò la sua vocazione sacerdotale.
Il 21 marzo 1896 fu ordinato sacerdote nella Chiesa di S. Gregorio a Porta Carini; subito dopo cominciò a svolgere il suo ministero nella borgata marittima di S. Erasmo, che egli chiamava “l’Africa di Palermo”; riaprì al culto una piccola chiesa (Santo Rosario) e nel contempo prese a predicare in altre zone della città.
Dal 1898 con l’aiuto dei marinai per il restauro, e della madre, della sorella Nunzia e di alcune Terziarie Francescane per l’assistenza, iniziò a raccogliere nei locali già appartenuti ad un orfanotrofio, alcune bambine, intitolando l’opera “Casa Lavoro e Preghiera per gli Orfani Abbandonati”.
L’8 settembre 1901, esattamente centodiciannove anni fa, inaugurò solennemente la prima “Casa Lavoro e Preghiera” destinata agli orfani senza assistenza; gli inizi non furono facili, subì difficoltà e incomprensioni per la mancanza di contabilità e per il modo popolaresco con cui si presentava.
La sua opera creativa, era a volte disordinata e per questo, sottoposta a continue ispezioni da parte dei superiori e della Curia Arcivescovile, ma quel modo di agire, a volte frenetico, era frutto dell’ansia di soccorrere gli emarginati, volendo stabilire anche un rapporto tra loro e Dio, presente in ogni luogo, anche il più misero.
Per tutta la vita girò per le vie di Palermo con un carretto, raccogliendo cibo ed oggetti utili, suscitando l’amore e la venerazione del popolo. Nel 1901 ci fu la vestizione con l’abito delle Terziarie Francescane delle prime due collaboratrici; nel 1904 venne nominato rettore della Chiesa del Buon Riposo e aprì una seconda “Casa Lavoro e Preghiera” condotta da altre Terziarie e alcune ragazze.
I disastrosi terremoti del 1905 e del 1908, che colpirono la Calabria e la Sicilia, lo videro in prima linea negli aiuti ai superstiti, come pure nella grande alluvione di Palermo del 1932.
Nel 1906 le difficoltà economiche per mandare avanti la sua Opera, si fecero pressanti, per cui tentò, ma senza successo, di unificarla con le ‘Terziarie Francescane Oblate del S. Cuore’ di Messina e poi con le ‘Figlie di Maria Ausiliatrice’ di don Bosco.
Su consiglio del cardinale Alessandro Lualdi, unì le sue collaboratrici nella famiglia di s. Angela Merici e quindi il 31 marzo 1915 la Comunità delle “Orsoline Congregate” venne approvata come Istituto diocesano. Subì molte sofferenze per la sua opera, l’ultima delle quali, la notifica della soppressione del suo Istituto, lo fece morire di crepacuore il 24 maggio 1949; i funerali si svolsero con solennità. E’ sepolto nella famosa Cripta dei Cappuccini di Palermo, più nota come Catacombe, di cui scrisse Ippolito Pindemonte e che ispirò Ugo Foscolo.
Il cardinale arcivescovo di Palermo, Ernesto Ruffini, eresse canonicamente in Congregazione religiosa nel 1953 le “Orsoline Congregate del Cuore di Gesù”. Il 9 marzo 1967 le Orsoline si fusero con le “Piccole Suore Missionarie della Carità” fondate dal beato Luigi Orione.
Il processo canonico per il riconoscimento delle virtù eroiche di padre Giovanni Messina, si è aperto il 12 marzo 1982, e concluso il 21 maggio 1991, da allora gli atti sono presso la competente Congregazione per le Cause dei Santi.
Tra i meriti dimenticati di Padre Messina, vi fu quello di tante conversioni specie tra quei ricchi e potenti che attraverso la carità riscattarono il cinismo della propria vita e il tradimento del proprio ruolo al servizio della collettività. Ricordiamocene quando passiamo dal Piano di Sant’Erasmo – dove si trovava anche la camera della morte dei boss corleonesi – e guardiamo la Casa di Lavoro e Preghiera che si affaccia sul mare in cerca di una speranza di riscatto e non solo l’ennesimo porticciolo turistico di cui forse, a trecento metri dalla nuova Cala, si ha meno bisogno. Nei luoghi dove piange la città in ginocchio di ieri, di oggi e speriamo non di domani, a Padre Messina, a don Pino Puglisi ed a Biagio Conte piacerebbero anche altri interventi che più che dalla Carità, che dobbiamo aspettarci dai credenti, nascano dal pieno riconoscimento dei diritti costituzionali di tutte le persone, a partire dalle più deboli e meno favorite.