Un gatto randagio lercio seduto nel ciglio di una strada di un qualsiasi quartiere di una metropoli con gli occhi fissi in un punto indefinito nel bel mezzo di una giornata fredda invernale; non si fa più domande, forse non è sua natura farsene ma silenzioso e immobile sembra che segua quella linea dritta che cammina imperterrita; la stessa identica linea che l’uomo chiama da sempre “il tempo”.
Non se ne accorge, magari non gli compete e certamente ignora il motivo che spinge l’essere umano a sentirsi contento e coinvolto a rispettare le solite tradizioni annuali e perpetuare, senza accorgersene magari, la propria appartenenza a quella opulenza che da decenni lo convince che una festa pseudo-religiosa debba essere espressa e tradotta in lauti banchetti e gozzoviglio estremo nel totale soddisfacimento in una perversa e solita ricetta del raggiungimento di una sazietà perversa fatta di assunzione di grosse quantità di cibo e lo scambio di regali.
Riti opulenti spacciati per giusti e legittimi in una via trasversale che poco ha a che fare con le religioni e con la modesta e dignitosa vita fatta di spiritualità, interiorità e concretezza.
Il finto buonismo tradotto in un provvisorio e breve “risciacquo” della propria coscienza circoscritto in un periodo di pochi giorni dove “siamo tutti più buoni” ma pronti a rialzarci da una apparente e ipocrita genuflessione dopo il 6 gennaio per tornare a puntare il dito contro l’immigrato, l’omosessuale e contro chi, nella propria vita, ha trovato disagio fin troppo spesso non per colpa sua.
La via senza ritorno oramai ci ha resi abitudinari in un perverso percorso dove la nostra mente è capace di scacciare pensieri e ragionamenti che non convengono e che riescono a esorcizzare pure lo sguardo di noi stessi nello specchio del bagno ogni santo giorno; non ci fa più male niente, il contatto con la nostra coscienza è perso come un astronauta disperso nello spazio siderale che girovagando nel vuoto silenzioso e freddo resta con lo sguardo fisso nel vuoto come il gatto randagio e lercio la cui sorte non è pari a quella di un suo coetaneo adottato in una comoda culla di una casa calda.
Non è facile accettare che tutto sia dovuto alla casualità quando ogni soluzione è alla portata solo se fortemente compresa e voluta.
La chiave di lettura di una società cosi incline al disastro della propria esistenza sembra provenire da una certezza che forse è la reale soluzione degli abomini della terra: la più grande crudeltà dell’essere umano è sapere che la propria esistenza, a meno di incidenti improvvisi, dovrà concludersi a malapena entro un solo secolo.
Questo cronometro avviato non appena nati, tende nel tempo, a smorzare quel vigore e quell’altruismo che si traduce sempre in operosità verso il prossimo nel raggiungimento della pura e vera felicità che sentiamo solo se la felicità è collettiva senza che dietro l’angolo ci sia qualcuno tagliato fuori dalla festa.
Ma il cronometro corre e la faticosa operosità verso gli altri diventa uno spazio troppo ingombrante e quando il panorama diventa sempre più corto e l’età incalza, allora quello spazio troppo prezioso viene occupato da interessi tesi al proprio piacere, alla propria soddisfazione in una vita che segue la linea del proprio “sollazzo” ed è più facile fare spallucce e dire “che muoia Sansone con tutti i filistei”.
In fondo la nostra esistenza è cosparsa di “turni” dove prima o poi toccherà a noi in ogni cosa e in ogni dettaglio. Siamo una specie animale consapevole di una esistenza circuita in una fascia di tempo alle prese con la costante possibilità che la casualità ci riduca quella fascia, beh allora si vive di gioia e di sollazzo consapevoli che la pace del mondo e la felicità collettiva sono solo bei propositi e sogni da bambino.