In TV si sente parlare sempre più spesso di “compensazione” e di aziende a “emissioni zero”. Ma cosa significa?
La lotta ai cambiamenti climatici richiederebbe una drastica riduzione delle emissioni di CO2. Ad operare in tal senso dovrebbero essere prima di tutto i paesi sviluppati (i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra) e le aziende, specie quelle più grandi. Farlo però è molto costoso se non impossibile per alcuni processi produttivi. Ecco, quindi, che per far fronte a questo problema si è pensato bene di ricorrere allo stratagemma della “compensazione”. Il paragone più corretto è quello di una “borsa valori” dove non si scambiano azioni o titoli, ma “crediti di CO2”. Chi non riesce a ridurre le proprie emissioni di CO2 può acquistare carbon credit. In altre parole può “comprare” il diritto di altri di emettere CO2. Il mercato volontario del carbonio ha origini antiche: nacque parallelamente all’attuazione del Protocollo di Kyoto per i settori non inglobati dal mercato normativo. Oggi a gestire questi scambi sono autorità nazionali o sovranazionali (anche l’UE ha una sua “borsa”) che definiscono un valore massimo, un volume definito (in inglese “cap”) di emissioni di CO2 nell’atmosfera a livello globale. Questo valore viene poi diviso e ripartito tra stati e aziende sotto forma di “diritti di emissione”.
Da qualche anno, a questo strumento si è aggiunto quello della “compensazione volontaria” della CO2. Un meccanismo che comprende “tutti gli approcci adottati dagli attori che scelgono volontariamente il metodo di compensazione per limitare le proprie emissioni di CO2”. Il carbon offsetting (questo il suo nome tecnico) è diverso dal mercato regolamentato di compensazione della CO2. Il carbon offsetting può essere definito come “qualsiasi attività volta a compensare l’emissione di anidride carbonica (CO2) o di altri gas a effetto serra (misurati in anidride carbonica equivalente o CO2e) attraverso la riduzione delle emissioni di CO2 altrove”. Solitamente questo avviene acquistando crediti di carbonio (corrispondenti alle tonnellate di CO2 assorbite o evitate). Oggi il numero delle aziende che dichiarano di essere diventate “neutre per emissioni di carbonio” o “carbon neutral” attraverso la compensazione delle proprie emissioni residue cresce a ritmi impressionanti. Questo però, non deve trarre in inganno: non vuol dire certo che non emettono più CO2. Anzi, si sentono quasi giustificati a continuare a farlo.
Quattro i passaggi da realizzare per la compensazione volontaria: misurazione, riduzione, compensazione propriamente detta e comunicazione. Innanzitutto, è essenziale misurare la propria impronta di CO2. Esistono diversi protocolli per farlo. Il più utilizzato e riconosciuto a livello internazionale è il GHG Protocol, lo standard di contabilità dei gas serra, che divide le emissioni di gas serra in tre “obiettivi” (1, 2, e 3) che inglobano le emissioni dirette e indirette causati dalle attività dell’azienda a monte e a valle. Le emissioni di gas a effetto serra sono espresse in tCO2e, tonnellate di anidride carbonica equivalente, e comprendono anche altri gas a effetto serra come il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O). L’impronta di CO2 viene calcolata su base annua ed è solitamente inclusa nel rapporto di sostenibilità o nel rapporto extra finanziario di un’azienda. Da notare che in alcuni paesi, la misurazione delle emissioni di gas serra è obbligatoria per le aziende con più di 500 dipendenti.
Per “compensare” queste emissioni o anche solo quelle “residue” (quelle che sono al di fuori dei limiti consentiti dalla legge) un’azienda può acquistare crediti di carbonio (VERs o Verified Emission Reductions). Questi crediti sono messi sul mercato dopo essere stati certificati da azioni di monitoraggio e di reporting che dovrebbero garantire la loro efficacia e la continuità del progetto. A occuparsi di questo passaggio sono spesso auditor specializzati che emettono i crediti di carbonio dopo aver verificato la quantità di emissioni assorbite o evitate dal progetto rispetto a una “base-line” e seguendo metodologie stabilite dagli standard (degli enti internazionali o nazionali che gestiscono e determinano le metodologie utilizzate per la verifica e la certificazione dei progetti). I crediti certificati sono quindi contabilizzati in registri pubblici. Anche questo passaggio è fondamentale: serve ad evitare il rischio di “doppio conteggio” (quando due o più aziende monetizzano e rivendicano lo stesso credito di carbonio). Diverse le azioni possibili per compensare le emissioni di carbonio. Progetti che proteggono o ripristinano le aree forestali esistenti minacciate dalla deforestazione; realizzazione di infrastrutture per l’energia rinnovabile che contribuiscano alla decarbonizzazione della rete energetica locale; misure di risparmio energetico per ridurre le emissioni di CO2 e sostituire i combustibili fossili con fonti di energia sostenibile; e molte altre ancora (come pratiche agricole che assorbono il carbonio nel suolo ripristinando la biodiversità e sviluppando nuove fonti di reddito per i piccoli proprietari terrieri oppure progetti per fornire acqua pulita alle famiglie delle comunità rurali eliminando così la necessità di far bollire l’acqua, riducendo in questo le emissioni di gas serra, o progetti per catturare il metano rilasciato dallo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e trasformarlo in combustibile “pulito”).
Per la validità di questi “progetti” è fondamentale che lo “scambio” sia certificato (oltre che periodicamente verificato da soggetti terzi). Ma per essere utile anche come strumento di marketing è importante che il progetto sia anche di alta qualità. Per questo motivo, il WWF ha sottolineato alcune caratteristiche progettuali da seguire perché i crediti di carbonio possano essere considerati di “alta qualità”. I “crediti di carbonio devono essere calcolati sulla base di dati scientifici solidi e metodologie verificate. I crediti di carbonio devono rappresentare riduzioni o sequestro di emissioni di CO2 che non si sarebbero altrimenti verificati in assenza della vendita dei crediti di carbonio”, si legge nel rapporto del WWF. Le riduzioni di emissioni rappresentate dai crediti di carbonio devono essere permanenti: non devono essere cancellate dopo la generazione del credito. La generazione di crediti di carbonio non deve violare alcuna legge, regolamento o trattato e deve soddisfare gli standard internazionali delle migliori pratiche per la salvaguardia sociale e ambientale.
Dopo questi passaggi, all’azienda che ha deciso di “compensare volontariamente” le proprie emissioni di CO2 non resta che attuare una strategia di marketing idonea. Si tratta di un passaggio importante: serve a presentare l’azienda come “verde”, ma anche a proteggerla da accuse di greenwashing. È per questo che gli esperti raccomandano di non utilizzare termini come “compensazione delle emissioni”, preferendo “contribuzioni climatiche”. Suggeriscono di non essere vaghi e soprattutto di quantificare l’impatto della contribuzione climatica. E poi, di non dire che l’azienda è “carbon neutral”: non essendo stata ancora stabilita una definizione universale di neutralità del carbonio a livello aziendale potrebbe essere un’arma a doppio taglio.
In questo modo, i clienti dell’azienda si sentiranno felici di rivolgersi a quell’azienda. Anche quando i beni o i servizi offerti hanno un impatto sull’ambiente devastante (come nel caso di energia elettrica prodotta con combustibili fossili).
Tutto questo potrebbe non servirà a salvare il pianeta. Perché queste azioni siano efficaci è indispensabile che il carbon offsetting sia associato a pratiche di riduzione globale delle emissioni di CO2. Ma i dati rilevati costantemente da diversi centri di ricerca le emissioni globali di CO2 continuano ad aumentare. Secondo l’ultimo rapporto dell’iniziativa Science-based Targets (SBTi), è vero che misure di compensazione e neutralizzazione della CO2 (carbon offsetting) sono importanti nell’accelerare la transizione verso le zero emissioni nette a livello globale, ma “non sostituiscono la necessità di ridurre le emissioni di CO2 nella catena di valore aziendale in linea con le ultime scoperte scientifiche”. Il concetto stesso di compensazione non serve a molto. Lo dimostra il fatto che secondo. E da sole queste misure non consentiranno certo di raggiungere l’obiettivo di 1,5°C fissato dall’accordo di Parigi.