Il mio primo impatto con l’Ucraina avvenne all’età di circa otto attraverso la lettura del racconto “Taras Bul’ba” scritto da Nikolaj Gogol nel 1834, pubblicato in un’edizione Mondadori per ragazzi, ampiamente purgata dai passaggi più sanguinosi. Seguirono negli anni molti altri incontri con la letteratura russa, pur se variamente distribuiti nell’arco di oltre mezzo secolo.
In un’impegnativa rilettura notturna dei classici della letteratura russa svolta nell’arco del 2020, durante gli interminabili mesi della fase più acuta della pandemia, volli iniziare proprio da quel ricordo d’infanzia per rivisitare in modo organico e strutturato le edizioni integrali, purtroppo non in lingua originale, dei testi più significativi di una storia letteraria che trova proprio in Gogol il proprio iniziatore.
Il risultato di quella straordinaria esperienza fu la scrittura di molti articoli di approfondimento che il lettore potrà trovare in rete.
In questi giorni, attratto come tutti dalle alterne vicende del conflitto russo/ucraino e dalla rinnovata curiosità sulla storia di quei territori improvvisamente diventati vicini ad ogni parte d’Europa, sono tornato ad imbattermi nella lettura giovanile ambientata in quella terra, un tempo nota soprattutto come “terra dei cosacchi”.
Ma, ecco la trama: ambientato all’incirca nell’Ucraina del XVII secolo, devastata dai tartari, governata dai polacchi e messa a ferro e fuoco dalle scorribande di cosacchi, il racconto narra le imprese di uno dei condottieri di questi ultimi, Taras Bul’ba. Affiancato dai figli Andrej ed Ostap, assalta la città di Dubno, ma Andrej, per amore di una donna polacca, tradisce i suoi, passando nelle schiere nemiche. Durante uno scontro sarà poi isolato in una selva, avvicinato dal padre, convinto a scendere da cavallo e ucciso a sangue freddo con un colpo di fucile.
Ostap, intanto, viene fatto prigioniero e portato a Varsavia dove viene torturato e giustiziato. Nonostante il nuovo Etmano dei cosacchi abbia concluso un accordo di pace con i polacchi, Taras giura vendetta, penetra in Polonia seguito dai cosacchi a lui fedeli ma, dopo scontri che lo vedono vincitore sul campo, viene fermato dal generale Potocki, alle porte di Cracovia. Catturato verrà torturato e in seguito arso vivo, legato ad un albero.
Oggi, tre statue di bronzo, a Lviv, Kiev e Poltava, ricordano i leader (etmani) del popolo guerriero del basso Dnepr; e mentre gli europei hanno scordato cos’è la guerra, le guerre, invece, bisognerebbe tenerle a mente sempre, specie quelle cosacche visti i tempi perché la storia ucraina è storia europea, e ci riguarda da vicino. E poi, perché le vite da romanzo di questi etmani ci dicono che l’invasione di Putin non è diversa da quelle tartare, lituane, turche, polacche e zariste che l’hanno preceduta: nessuna delle quali riuscì a conquistare le steppe ucraine, né a sottomettere la stirpe cosacca che le abitava già nel XIV secolo.
I cosacchi del Dnepr non facevano parte di alcuna comunità, né pagavano tributi. Erano “uomini liberi”, una fratellanza guerriera. Per secoli i loro condottieri, gli etmani, furono il bastione degli zar, con cui condividevano la fede ortodossa, respingendo verso sud gli infedeli tartari e turchi e verso ovest i cattolici polacchi.
A un certo punto, Mosca cominciò a temere i loro reggimenti indisciplinati, e il sentimento di ribellione che li animava. E così, nel 1764, Caterina II fece radere al suolo la Sic – l’ accampamento oltre le cataratte del Dnepr, dove i cosacchi zaporoztsy si allenavano al combattimento allevando cavalli, cacciando orsi e facendo baldoria – e cancellare l’Etmanato dalla carta geografica, senza per questo intaccare il mito dei cosacchi e delle loro guerre alla frontiera europea (Ucraina vuol dire “terra di confine”): un’epopea che ancora oggi rivive non solo nel folklore ma si rinnova attraverso nuovi epigoni di cui dirò più avanti.
Fu a Bohdan Khmelnytsky, in sella a un cavallo di bronzo nella piazza più moscovita di Kiev, che si ispirò Gogol per il suo Taras Bul’ba. In realtà, è ricordato per lo storico patto del 1654 con cui si sottomise allo zar, in cambio di aiuto nella rivolta contro i polacchi. Con esso l’Ucraina (che diventerà poi indipendente nel 1991) fu risucchiata nell’orbita russa, la Polonia uscì per sempre di scena e solo nel 1954 Nikita Kruscev le restituì la Crimea, un atto esecrato da Vladimir Putin sin dal proprio primo insediamento al Cremlino.
La tesi di Vladimir Putin secondo cui la Russia ha invaso l’Ucraina per “denazificarla” è uno degli esempi più chiari di questo fenomeno. I russi sostengono che la rivolta di Maidan del 2014 sia stata un “colpo di stato fascista” e che l’Ucraina sia uno stato nazista. Per anni questa tesi è stata utilizzata da Putin e dai suoi sostenitori come giustificazione dell’occupazione della Crimea e dell’appoggio fornito da Mosca ai separatisti russofoni nella parte orientale del paese. In rete i sostenitori di questa versione non mancano e sovente si rifanno ad episodi della II Guerra Mondiale che vide molti ucraini affiancare i nazisti invasori durante i rastrellamenti di ebrei funzionari comunisti, nella gestione del campo di concentramento di Leopoli nel ruolo di collaboratori e di Kapò.
Quando i tedeschi nell’estate del ’42 raggiunsero l’Ucraina meridionale, la Crimea e le regioni caucasiche, le popolazioni cosacche insorsero contro i commissari politici sovietici, facilitando la conquista dei territori da parte dei tedeschi. A Novocherkassk, la capitale cosacca sul Don, Sergei Pavlov atamano (capo cosacco) locale invitò tutti i cosacchi a prendere le armi per combattere al fianco dei tedeschi contro l’Armata Rossa.Dal giugno 1942 agli alti comandi tedeschi iniziarono a giungere insistenti richieste per l’autorizzazione a formare una forza cosacca volontaria. Nel luglio del 1942 il generale Piotr Krasnoff, formò a Berlino il primo nucleo di un’organizzazione cosacca anti-comunista (Hauptverwaltung der Kosakenheere, Berlin): Krasnoff aveva già collaborato con i tedeschi durante la prima guerra mondiale, procurando armi per i cosacchi controrivoluzionari.
Dopo la disfatta di Stalingrado, le formazioni volontarie cosacche si ritirarono verso ovest insieme alle forze tedesche: i cosacchi portarono con sé anche le famiglie, temendo le inevitabili rappresaglie dei sovietici per la loro collaborazione con i tedeschi.
Durante l’esodo verso ovest, si crearono diversi stanziamenti civili dei cosacchi, in Bielorussia ed in Polonia. In Bielorussia, nei campi di raccolta di Novogrudki e Baranovichi, vennero create altre unità cosacche, subordinate all’amministrazione principale degli eserciti cosacchi presieduta da Krasnoff. Una gran parte dei volontari proveniva dai campi di prigionia tedeschi, grazie all’opera di propaganda dei capi cosacchi. Vennero formati 11 reggimenti cosacchi, ciascuno con la forza di 1.200 uomini. Il 1° Reggimento, agli ordini del colonello Lobisewitsch, venne denominato “1° Reggimento Don Generale Krasnoff”.
Questi reggimenti andarono a formare un’intera Armata cosacca il cui comando fu affidato al colonnello Serghei Vasilevic Pavlov: come capo di Stato maggiore venne designato il colonnello cosacco Timofey Ivanovic Domanov.
Con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa I reparti cosacchi vennero trasferiti insieme alle loro famiglie nell’Italia nord-orientale. Tra il luglio e l’agosto 1944 circa 20.000 cosacchi del Don, del Terek, del Kuban e della Siberia, provenienti dalla Polonia, con al seguito le famiglie, migliaia di cavalli e carri, giunsero nella Carnia in Friuli, loro promessa dai tedeschi quale nuova patria (denominata Kosakenland in Nord Italien).
I cosacchi si arresero agli inglesi che, in base agli accordi di Yalta, li consegnarono ai russi insieme con gli altri cosacchi di von Pannwitz. Molti cosacchi preferirono suicidarsi collettivamente con le famiglie, nelle acque del fiume Drava, piuttosto che cadere nelle mani dei russi. I generali e gran parte degli ufficiali furono impiccati o fucilati, gli altri furono trasferiti nei campi di concentramento sovietici in Siberia.
Mentre ci si chiede chi siano quasi settant’anni dopo i nuovi cosacchi, è ora necessario approfondire fino a che punto il sentimento atavicamente anti- russo radicato in quella popolazione abbia trovato nell’Ucraina di oggi i propri epigoni, in un’alleanza composita ed ora giustificata dall’aggressione di Putin che non ha esitato ad accettare l’appoggio di zone opache della popolazione, confinanti con movimenti dichiaratamente neo- nazisti.
Il movimento Azov è stato fondato nel 2014 da Andriy Biletskyj (ex leader del gruppo neonazista ucraino Patriotti d’Ucraina) durante la battaglia per il controllo di piazza dell’Indipendenza, a Kiev, e la rivolta chiamata Maidan contro il presidente eletto Viktor Janukovič, vicino alla Russia. Nel 2010 Biletskyj ha dichiarato che un giorno sarebbe toccato all’Ucraina “guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro gli untermenschen (subumani) capeggiati dai semiti”. La rivoluzione e la successiva guerra hanno regalato a Biletskyj la visibilità al livello nazionale che cercava da tempo.
Insieme ad altri gruppi di estrema destra come il Pravyi Sektor, nel 2014 il movimento Azov ha svolto un ruolo esterno ai combattimenti contro le forze di sicurezza ucraine che hanno provocato 121 morti e hanno sancito il successo della rivolta. Dopo aver ottenuto dal ministero della difesa l’uso di un grande edificio nei pressi di piazza dell’Indipendenza, Azov ha trasformato la struttura (ribattezzata Casa Cosacca) nella sua sede di Kiev e in un centro di reclutamento. Da allora l’organizzazione ha leggermente smorzato la sua retorica e probabilmente oggi molti combattenti sono attratti più dalla reputazione militare che dalle posizioni ideologiche del movimento.
Tuttavia i militanti di Azov sfoggiano spesso tatuaggi della Ss-Panzer-Division Totenkopf e rune a forma di fulmine, insieme al Sonnenrand (sole nero), simbolo del nazismo esoterico. Derivato da un motivo creato per Himmler nel castello tedesco di Wewelsburg, considerata una sorta di Camelot occulta per gli ufficiali delle Ss, il Sonnenrad è insieme alla runa Wolfsangel della divisione Das Reich uno dei simboli ufficiali di Azov, presente sui distintivi e sugli scudi dietro i quali sfilano i combattenti in cerimonie evocative illuminate da torce.
Il tentativo di Biletskyj di fondare un partito politico (Corpo nazionale) si è rivelato un fallimento e alle ultime elezioni nel 2019, un secolo fa! Il blocco unito dei partiti di estrema destra allora non riuscì nemmeno a superare la soglia di sbarramento (piuttosto bassa) per entrare in parlamento. Gli elettori ucraini, semplicemente, rifiutano l’ideologia di estrema destra. Ma in tempo di guerra Azov e gli altri gruppi simili sono tornati alla ribalta e l’invasione russa sembra aver invertito la spirale discendente generata dalle pressioni internazionali e in molti casi sono acclamati come eroi della resistenza ucraina.
Quando il conflitto finirà, toccherà a Volodymyr Zelens’kyj il medesimo destino di Winston Churchill, “salvatore della patria” ma sconfitto alle elezioni? E quale fine faranno i corposi armamenti ad altissima tecnologia ora in possesso anche delle formazioni di estrema destra? Si ripeterà il fenomeno afghano quando i talebani armati dagli Stati Uniti in funzione antirussa costruirono il proprio stato fondamentalista, o quando Saddam Hussein, a lungo foraggiato da Washington in funzione anti-iraniana, concepì il sogno di annettere il Kuwait, di minacciare l’Arabia Saudita e con essa l’intero Occidente energivoro? In quale parte dell’Unione Europea confluirà un giorno l’Ucraina a cui ciò è stato promesso ormai da mesi: quella dei paesi fondatori o il gruppo delle democrazie illiberali del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) costituitosi proprio in chiave antisovietica nel lontano 1991 ed oggi linea di frattura con Bruxelles sempre più marcata?
Sono interrogativi che ho voluto porre ad Alfio Mastropaolo, già professore ordinario di Scienza della Politica nell’Università degli Studi di Torino e noto saggista di politica internazionale.
Pur condividendo talune perplessità e tenendo conto della profonda diversità della cultura slava, Mastropaolo ha sviluppato un ragionamento anche alla luce dell’esperienza storica della Resistenza italiana quando il Partito Comunista Italiano ripose presto le proprie aspirazioni rivoluzionarie – e con esse le armi conservate segretamente in gran copia – per convergere nell’alveo costituzionale della nascente repubblica e, successivamente, nella NATO e nella Comunità Europea. C’è da auspicare che la funzione di coesione esercitata allora dai fondi del Piano Marshall e domani dalla ricostruzione di cui l’Unione si farà carico possa tutelare l’Ucraina da spinte centrifughe, eventualmente poste in essere da nuove leadership di caratura autoritaria e palesemente antidemocratiche.
Fu il grande merito di Palmiro Togliatti che aprì la strada, anche a costo di dolorose spaccature che pesano ancora oggi nella società italiana, sulla quale avrebbe poi camminato Enrico Berlinguer consumando lo “strappo da Mosca” la ferma adesione all’Alleanza Atlantica e la cosiddetta “via italiana al socialismo”.
Una via a cui il prossimo governo italiano – voluto da elettori sempre più intimoriti e preoccupati delle gravissime emergenze domestiche – nonostante le ampie rassicurazioni fornite in queste ore dall’alleanza vincente, potrebbe imporre una preoccupante inversione. A “U” come Ucraina?