Distratti dalla pandemia di corona virus (e dalla riapertura del campionato di calcio) sembra quasi non importare più niente a nessuno di tutto il resto.
Anche il crollo del ponte di Genova ormai sembra quasi essere un momento del passato. Per il resto, con la riapertura della circolazione, tutto sembra essere tornato alla “normalità”.
La famosa società Autostrade, in attesa di conoscere quale sarà il proprio futuro, che si è visto riconsegnato il ponte appena rifatto grazie alla benevolenza di un famoso progettista (e ai soldi dei contribuenti). Nessuno parla dello stato delle strade e autostrade. O dei rischi legati al fatto di aver realizzato troppo spesso le opere in zone ad alto rischio sismico o idrogeologico. Ogni volta che si parla di disastri del passato che hanno segnato la storia e causato decine e decine di vittime innocenti, la conclusione è sempre la stessa.
Proprio oggi, ricorre l’anniversario del tracollo della diga di Molare (AL) che causò la morte di 111 persone. Una delle tre maggiori catastrofi idriche che hanno colpito l’Italia, con dramma del Gleno (del 1923) quello del Vajont del 1963.
Nel 1906, sulla base di studi del Politecnico di Milano, iniziati negli ultimi anni del XIX secolo, la Società per le Forze Idrauliche della Liguria chiese e ottenne la possibilità di sfruttare le acque di quello che era considerato un “torrente” per la produzione di energia idroelettrica. Ma pochi anni dopo, la concessione venne revocata (pare per inadempienze contrattuali). A sostituire la SFIL furono le Officine Elettriche Genovesi (OEG), che costruirono un bacino chiuso da una diga alta circa 35 metri al Bric Zerbino.
Nel 1915, si verificò una prima esondazione che raggiunse Ovada. Ma i progettisti non ne tennero conto: i lavori di costruzione iniziarono lo stesso nel 1917 (prima con lentezza, poi in modo frenetico dopo il 1923, anno in cui si verificò il disastro del Gleno). Forse anche per questo il progetto venne modificato radicalmente in corso d’opera: il muro venne alzato di oltre 10 metri in più e, per ovviare al varco aperto da una sella (sella Zerbino), fu costruita una seconda diga in calcestruzzo, alta 15 metri circa. Nel 1925 l’opera era completata: gli sbarramenti avevano creato un lago artificiale a forma di C, lungo 5 chilometri e largo 400 metri.
Nel 1935, si verificò un’estate particolarmente calda e siccitosa. Per questo l’OEG programmò il taglio della produzione elettrica e il blocco degli scarichi della diga. Ma nel mese di agosto, improvvisamente si verificarono violenti temporali: in poche ore caddero più di 40 centimetri di pioggia. Le piogge ingrossarono pericolosamente la portata del lago di Ortiglieto nelle valli piemontesi di Orba e Stura. La sella Zerbino cedette e finì nell’alveo, riversando nel fiume Orba una enorme quantità di acqua e fango.
I responsabili della diga locale, secondo alcuni intervenuti in ritardo, riuscirono ad utilizzare solo uno dei due scaricatori disponibili. Ma l’acqua melmosa (frutto forse anche di una cattiva manutenzione dell’invaso) inceppò rapidamente la via di fuga. Il bacino non riuscì più a contenere il flusso d’acqua e la diga più piccola non resse l’urto dell’esondazione.
L’esondazione colpì prima Molare (in provincia di Alessandria) ma non raggiunse il centro abitato. Il primo ad essere colpito fu un edificio che si trovava nei pressi del torrente: tre persone morirono. La centrale elettrica andò distrutta, e crollò anche il ponte ferroviario Asti-Genova lungo il quale, poco prima, era passato un treno.
Alle 14.00 l’inondazione raggiunse Ovada, la città più grande dell’area circostante (nel 1935, contava circa diecimila residenti). Furono decine le case spazzate via e morirono circa 20 persone.
Poi l’acqua confluì nel fiume Stura che esondò provocando la distruzione del ponte che univa Ovada a Belforte Monferrato e proseguì fino ai comuni di Silvano, Predosa e Capriata. Anche Alessandria venne raggiunta ma in modo meno violento (forse anche perché, nel frattempo, smise di piovere).
Alla fine i morti furono 111. Molti dei corpi vennero recuperati solo molto tempo dopo.
Furono aperte delle indagini e degli studi per valutare le cause del tracollo della diga. Allora come oggi, iniziò una sorta di scaricabarile di responsabilità: gli esperti scrissero che il terreno della sella Zerbino non era idoneo ad ospitare una diga; dal canto loro, i dirigenti delle Officine Elettriche Genovesi (OEG) affermarono di non avere alcuna responsabilità in merito all’accaduto, rispedendo al mittente le accuse del podestà di Ovada che aveva chiesto loro un ingente risarcimento danni.
Alla fine vennero rinviati a processo 12 ingegneri e i dirigenti dell’OEG. Tre anni dopo, (e pensare che ora, per il crollo del ponte di Genova, non è ancora chiaro se sia stato rinviato a giudizio qualcuno), il 4 luglio 1938, la Corte di Appello di Torino assolse gli imputati attribuendo tutte le responsabilità all’eccezionale ondata di maltempo che si era verificata il 13 agosto 1935.
Tornano in mente le dichiarazioni di stato di calamità ormai così diffuse (in Sicilia le ultime due richieste sono state presentate meno di un mese fa ed entrambe relative alle piogge che avrebbero causato allagamenti: possibile che nessuno in fase di progettazione o di realizzazione si sia accorto di cosa sarebbe potuto accadere?). I parenti delle vittime del crollo della diga vennero risarciti (e messi a tacere) con una somma di 30.000 lire. A pagare fu, anche allora, lo Stato. Ovvero i cittadini. Come per il ponte di Genova…