In questi giorni, quotidiani (anche nazionali) e media fanno a gara per pubblicare la notizia (competa di foto) di un appartenente ad una tribù della foresta brasiliana che avrebbe camminato 12 ore “guadando ruscelli, scavalcando burroni, oltrepassando colline senza mai fermarsi e solo con lo scopo di proteggere l’anziano papà dalle conseguenze più gravi e potenzialmente letali di un’infezione” grazie al vaccino. Una scena commovente. Ma che non poteva non far dubitare i lettori attenti.
In Brasile la situazione è ben diversa da quella che si potrebbe pensare vedendo quella foto o leggendo le parole commoventi che la accompagnano. Il medico che avrebbe ritratto quella foto dice di averlo fatto a gennaio 2021. Ma in Brasile, la campagna di vaccinazioni è iniziata solo il 17 gennaio (a San Paolo), quando il governo ha acquistato il vaccino CoronaVac cinese, prodotto sul territorio dall’Istituto Butantan. A gennaio la campagna di vaccinazioni era appena partita. Appare improbabile che avesse potuto raggiungere la foresta amazzonica. Del resto anche i numeri lo confermano: ad aprile 2021 (ovvero quattro mesi dopo l’eroico gesto del figlio che ha portato il padre in spalla per vaccinarlo), in Brasile, solo 21 milioni di persone, circa il 10% della popolazione, aveva ricevuto la prima dose. Solo a dicembre 2021 è stato raggiunto il 90% dei vaccinati almeno con una dose.
Un ritardo frutto di una politica negazionista condotta sin dall’inizio dal presidente Bolsonaro. Solo l’impennata dei casi di contagio (e l’impressionante numero di morti) ha costretto il governo ad un cambio di marcia. Ma con un ritardo non indifferente. “Abbiamo un Programma di Immunizzazione Nazionale (PNI), che è forte e attualmente svolge una delle più grandi campagne di vaccinazione nella storia del Brasile”, ha detto il segretario esecutivo del Ministero della Salute, Rodrigo Cruz. Secondo il ministero, a dicembre 2021 “159,5 milioni di brasiliani hanno iniziato il ciclo vaccinale e 140,5 milioni hanno completato lo schema con la seconda o singola dose dell’agente immunizzante”. Numeri importanti. Peccato che anche questi si riferiscano al mese scorso (dicembre 2021). Un anno fa, a gennaio 2021, la campagna vaccinale era appena iniziata. È difficile che il sistema di vaccinazioni avesse potuto raggiungere chi viveva “nel cuore della foresta Amazzonica”.
Ancora oggi, in Brasile, le decisioni del governo sul ricorso o meno ai vaccini sono legate a scelte politiche più che a studi scientifici. Solo poche settimane fa, il presidente Bolsonaro ha deciso di far decidere al popolo se immunizzare o meno i bambini tra 5 e 11 anni e ha attivato una piattaforma web per chiedere il parere dei cittadini. In attesa dei risultati del sondaggio (era possibile esprimere il proprio parere fino al 2 gennaio 2022), il ministro della Salute Marcelo Queiroga ha detto che i bambini presto saranno idonei per la vaccinazione, ma che i risultati del sondaggio aiuteranno a determinare le linee guida, per comprendere se è necessario solo il consenso dei genitori e la prescrizione di un medico. Molti esperti si sono detti inorriditi: i segretariati sanitari di alcuni stati brasiliani hanno già comunicato che ignoreranno qualsiasi linea guida sulla vaccinazione infantile del ministero della Salute che fosse basata solo sulla consultazione pubblica. Gonzalo Vecina, fondatore e direttore del regolatore sanitario brasiliano tra il 1999 e il 2003, ha detto che questa consultazione pubblica sui vaccini è “senza precedenti”. “Bolsonaro è contro il vaccino e il suo dipendente, il ministro della salute, crede che la salute sia una questione di opinione pubblica. È un approccio sbagliato e senza senso”, ha detto Vecina. “Se solo i negazionisti inviano la loro opinione nella consultazione pubblica, il governo dirà che il vaccino non deve essere usato?”.
A proposito di utilizzo della rete, molti giornali internazionali troppo indaffarati nel pubblicare le foto del membro di una tribù amazzonica che portava il padre per ore e ore sulle spalle per farlo vaccinare, hanno dimenticato di informare i propri lettori che, nei giorni scorsi, “Il sito ufficiale del ministero della Salute brasiliano è rimasto inaccessibile dopo essere stato bersaglio di un attacco informatico con i presunti autori che hanno annunciato di essere in possesso di dati provenienti da persone vaccinate contro il coronavirus”. L’attacco ha riguardato anche il sito del Servizio sanitario nazionale e il portale Covid, preposti al rilascio dei certificati di vaccinazione. Gli hacker, che si sono identificati come Lapsus$Group, hanno parlato di 50 terabite (una quantità enorme) di “dati interni sono stati copiati ed esclusi”. Tra i dati rubati quelli di milioni di cittadini brasiliani che si sono vaccinati. “Contattateci se volete che i vostri dati siano restituiti”, hanno scritto i pirati informatici. Al momento, non è noto l’epilogo di questa vicenda.
Forse non sapremo mai se la foto è vera. Se davvero si è trattato di un membro della tribù dei Zo’è che voleva far vaccinare il padre. “I nativi non comprendono i dubbi sul vaccino dei non indigeni. Anzi, proprio l’irresponsabilità di questi ultimi ha fatto sì che il virus si diffondesse perfino nella selva”, ha spiegato Jennings, il medico che ha aspettato un anno prima di pubblicare la foto del giovane indigeno che aveva portato il padre sulle spalle per far vaccinare entrambi.
Una cosa, però, è certa: le tribù di indigeni che vivono all’interno dell’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del pianeta e famosa per la sua biodiversità, sono da tempo oggetto di altre minacce che mettono a rischio la loro vita. E i responsabili non sono i virus: i terreni vengono disboscati per fare posto a pascoli, coltivazioni, trivellazioni ed estrazioni minerarie. Tutto per farne beni che poi finiscono nelle case e sulle tavole di molti di quelli che si commuovono vedendo la foto di Tawi che porta il padre a fare il vaccino (ammesso che fosse vero). Molte tribù sono costrette a fare lunghi spostamenti. Ma non per vaccinarsi: devono farlo per lasciare spazio al meccanismo del profitto, che distrugge il loro ambiente e a volte li rende schiavi. Solo il mercato della gomma, ad esempio, avrebbe causato la la morte di oltre 300.000 indigeni (per la fame o uccisi o resi schiavi) in soli 12 anni.
Oggi, in Amazzonia, vivono ancora 400 tribù. Alcune di queste non hanno alcun contatto con i membri delle società dominanti (figurarsi sapere dov’è l’hub vaccinale da raggiungere). Spesso sono estremamente vulnerabili perchè non hanno le difese immunitarie verso le malattie a cui le società occidentali sono esposte da secoli. Nella foresta mancano antivirali o medicinali che possano curarli. Basta una semplice influenza (altro che Covid-19) per sterminare intere popolazioni. Come i Matis: dopo il primo contatto con il mondo occidentale la loro popolazione venne dimezzata. Nel 1983, di loro ne rimanevano solo in 87. In questi anni hanno dovuto vedersela con la deforestazione, con malattie come malaria e l’epatite che non sono più riusciti a debellare e con la deforestazione. Ma nessuno di loro è stato vaccinato.
Negli anni Ottanta, alcune società internazionali decisero di cercare petrolio in un’area della foresta amazzonica. Questo causò epidemie e carenze di cibo a causa della deforestazione. E la morte del 60% della popolazione dei Nahua. Nel 1996, un secondo tentativo causò danni ancora maggiori: la multinazionale petrolifera agì con la consapevolezza del rischio che avrebbe fatto correre a un’altra tribù che non aveva mai avuto alcun contatto con gli occidentali: i Nanti. Anche in questo caso di petrolio non trovarono neanche una goccia. Ma gli effetti sulla popolazione locale furono devastanti. Ma anche di loro, nessuno pubblicò foto commoventi.
Anche l’Onu ha parlato di queste popolazioni: recentemente ha lanciato una campagna contro l’estinzione di 35 tribù amazzoniche. Anche di questo, però, nessun giornale ha scritto parole commoventi. Hanno preferito pubblicare la foto che ritrae due indigeni che volevano a tutti i costi farsi vaccinare contro il Covid-19. Quasi uno spot pubblicitario.