L’arrivo di Enrico Letta alla guida del Partito Democratico ha fatto conoscere ai più l’esistenza dell’ Istituto di studi politici di Parigi, spesso designato come “ Sciences Po” la Grande Ecole francese, che fa parte degli istituti di studi politici, (Instituts d’études politiques) dove l’ex presidente del consiglio ha trascorso i recenti sette anni in qualità di preside della Paris School of International Affairs (PSIA) e di Presidente dell’Istituto Jacques Delors.
La Libera scuola di scienze politiche (Écòle libre des sciences politiques, ELSP) fu fondata nel febbraio 1872 su iniziativa di Émile Boutmy da un gruppo di imprenditori, intellettuali e politici francesi legati al mondo della borghesia protestante tra cui Hippolyte Taine, Ernest Renan, Albert Sorel, Paul Leroy Beaulieu e François Guizot.
In seguito alla sconfitta subita dalla Francia nella guerra franco-prussiana nel 1870 alle dimissioni di Napoleone III e all’episodio della Comune di Parigi, ebbe l’obiettivo di formare le classi dirigenti destinate a guidare la neonata III Repubblica. La scuola sviluppò un programma didattico pragmatico di ispirazione umanista: il corpo docente accoglieva sia accademici a tempo pieno, sia ministri, alti funzionari e imprenditori. L’offerta accademica proponeva inoltre discipline innovative tra cui le relazioni internazionali, il diritto internazionale, l’economia politica e il diritto comparato. Nel 1945 la “Libera scuola di scienze politiche” fu riorganizzata dando origine a due entità distinte:
la “Fondazione nazionale di scienze politiche” (Fondation nationale des sciences politiques, acronimo FNSP), ente di diritto privato responsabile della gestione e dei centri di ricerca e l’”Istituto di studi politici di Parigi” (Institut d’études politiques de Paris, acronimo IEP), istituto universitario di diritto pubblico.
Le due istituzioni furono incaricate dal governo De Gaulle di promuovere “il progresso e la diffusione, dentro e fuori dalla Francia, delle scienze politiche, economiche e sociali”. L’abbreviazione Sciences Po continuò a designare il sistema costituito dalle due entità: infatti il legislatore francese attribuì alla Fondazione la gestione dell’Istituto parigino.
La Fondazione intensificò le attività di ricerca scientifica con pubblicazioni scientifiche e inaugurando la propria casa editrice grazie al contributo del Rockefeller Center, della Fondazione Ford e del Carnegie Endowment for Peace.
Nei giorni scorsi l’istituzione è stata interessata da uno scandalo a seguito delle accuse di abusi sessuali rivolte al suo direttore Frederic Mion che si è dimesso. Un ulteriore motivo per apprezzare la scelta di Letta, da più voci indicato come suo probabile successore, di ritornare in Italia per cercare di porre rimedio alle lacerazioni del partito di cui fu cofondatore nell’ormai lontano 2007 e in cui ha ricoperto molte cariche interne, anche se mai quella di vertice.
Mentre come ogni altro sincero democratico, di ogni provenienza e collocazione, chi scrive gli augura di fare un lavoro estremamente utile e necessario per il suo partito e per il Paese, l’occasione appare adeguata per sviluppare un ulteriore ragionamento sul tema della formazione delle classi dirigenti, oggi diventato strategico e cruciale nell’Italia che si appresta a costruire una nuova era, anche e soprattutto grazie ai fondi europei del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) il cui completo impiego in riforme e in gestione delle medesime è previsto entro il 2026, pena la perdita dei finanziamenti. Un lavoro immane ed urgente – alla soglia del compimento dei centosessant’anni dall’Unificazione che ricorrono il 17 marzo – che richiede il profondo rinnovamento della Pubblica Amministrazione a cui il Governo Draghi ha già posto mano anche a seguito dell’incontro avuto nei giorni scorsi le Organizzazioni Sindacali.
Quando si affronta il tema della formazione e selezione delle classi dirigenti, conviene innanzi tutto interrogarsi a proposito di quale sia l’impatto che le classi dirigenti possono esercitare sul benessere della popolazione. Sebbene discutere sulla qualità della amministrazione e della sua misurabilità esuli dallo scopo di questo contributo, è comunque utile richiamare alcuni principi generali che si rintracciano in letteratura.
Il primo principio fa riferimento alle esternalità positive (o negative) che si producono nell’organizzazione delle attività sociali a partire dalle caratteristiche di chi detiene posizioni di potere sia in ambito economico sia politico. Un elemento cruciale al favorire processi di crescita economica è che la selezione delle élites ne garantisca l’elevata qualità. Poiché nelle società moderne la scelta occupazionale avviene in buona parte sulla base delle predisposizioni innate degli individui e sulla base degli incentivi offerti dal mercato, è evidente come la struttura dei mercati – sia economici sia politici – configuri la selezione degli individui più dotati in posizioni sociali che possono produrre maggior o minor beneficio per la collettività. Se i mercati determinano remunerazioni elevate per l’attività imprenditoriale, gli individui più abili o competenti tenderanno a orientarsi verso la produzione di beni o servizi. Se la struttura sociale assicura maggiori guadagni attraverso l’appropriazione legale o illegale di risorse altrui, osserveremo i migliori orientarsi ad attività di rent seeking (quali carriere politiche, militari, intermediazione, fino a sfociare in corruzione e attività illegali). In generale, in un contesto in cui le forze del mercato siano libere di funzionare, si dovrebbe osservare come i segnali, in termini di remunerazione delle varie scelte, determinino l’autoselezione delle persone in base alle loro caratteristiche/abilità in occupazioni che ne massimizzano la ‘produttività’. In un simile contesto, per analizzare l’impatto sul benessere sociale di una classe dirigente, diviene decisiva l’analisi dei segnali e dei meccanismi che determinano la selezione e l’autoselezione degli individui all’interno delle posizioni di vertice nella gerarchia occupazionale.
Il secondo principio è, invece, riconducibile alla teoria della circolazione delle élites, riferibile a Vilfredo Pareto (1848-1923). Nell’analisi di questo studioso troviamo almeno due idee che è utile richiamare. Data una distribuzione originaria della ricchezza che è (parzialmente o totalmente) indipendente dalle capacità individuali, la stabilità sociale richiede un minimo di permeabilità nell’accesso alle posizioni apicali per evitare che questo risultato venga conseguito attraverso il rovesciamento sociale. È evidente che l’accesso alla classe dirigente non può definirsi solo sulla base delle caratteristiche innate dell’individuo, ma si costruisce anche sulla base della trasmissibilità intergenerazionale degli elementi che caratterizzano lo status di una persona (tra questi la ricchezza e l’istruzione).
Utile può essere la classificazione dell’International standard classification of occupations. Lo schema di classificazione ISCO si articola in base a due criteri, quello della specializzazione (skill specialization), che rileva i compiti e le mansioni relative a una data professione, e quello della competenza (skill level), che viene definita come capacità di svolgere i compiti relativi alla professione stessa. All’interno del primo macrogruppo, che identifica le posizioni di vertice nella gerarchia occupazionale, la classificazione ISCO distingue tre sottocategorie. Nella prima, che per brevità chiameremo legislatori, sono classificati i membri dei corpi legislativi e di governo, i dirigenti amministrativi e giudiziari della pubblica amministrazione e di organizzazioni d’interesse nazionale e sovranazionale. Nella seconda sono classificati gli imprenditori, gli amministratori e i direttori di grandi aziende private nei vari settori dell’economia, dall’industria ai servizi, mentre nella terza categoria troviamo gli imprenditori, i gestori e i responsabili di piccole imprese
Poiché la classe dirigente italiana è sostanzialmente più ‘anziana’ rispetto a quelle degli altri Paesi europei, seppure con limitati segni di progressivo ricambio in anni recenti a vantaggio delle nuove generazioni, non ci stupiremo nel riscontrare che essa è contemporaneamente meno istruita delle altre classi dirigenti europee, tuttavia essa risulta relativamente più istruita rispetto alla popolazione, con una percentuale di laureati circa doppia. Da rilevare anche come l’Italia sia l’unico Paese europeo che nel 2005 esibiva ancora una quota di classe con un livello di educazione primaria superiore a due cifre (26,16%). Appare chiaro da questi numeri come il tema della formazione della classe dirigente italiana, e più in generale dell’istruzione in Italia, sia particolarmente rilevante, poichè si collega direttamente a quello della mancanza di ricambio della nostra classe dirigente, soprattutto considerando che le generazioni più giovani sono progressivamente sempre più istruite. Un ulteriore spunto per l’analisi ci viene in base al genere. Il quadro che ne emerge evidenzia come, con la sola eccezione della Germania, la popolazione occupata femminile sia sensibilmente più istruita rispetto alla controparte maschile, avendo una maggiore quota di individui laureati fra le sue fila. Inoltre, se si analizza il trend temporale, a esclusione della Francia, la crescita della frazione di laureati dal 1995 al 2005 è stata significativamente maggiore per le donne.
A dispetto di un tasso di istruzione tendenzialmente più elevato dei colleghi uomini, le donne continuano a essere sottorappresentate sia all’interno della classe dirigente sia nella popolazione occupata, in particolar modo per quanto riguarda l’Italia e la Germania. A parziale riconoscimento del maggiore incremento del livello d’istruzione, la crescita della componente femminile nella classe dirigente è stata superiore a quella rilevata all’interno della popolazione occupata. In particolare, dal 1995 al 2005, l’Italia ha registrato l’incremento maggiore, pari a circa il 57%. Da essa si nota che l’anzianità favorisce l’ingresso nelle classi dirigenti in tre Paesi su quattro, con esclusione del Regno Unito, dove trascorsi i 50 anni diventa piuttosto un ostacolo. Per contro, l’essere laureati ha l’impatto più forte in Francia e Regno Unito, seppure in momenti diversi della carriera lavorativa (entro i 40 anni in Francia, entro i 60 anni nel Regno Unito), mentre l’effetto si dimezza quando consideriamo Germania e, a maggior ragione, Italia. Si noti altresì che essere laureato rappresenta in modo costante un fattore di vantaggio rispetto all’età per il Regno Unito, mentre tale fenomeno si manifesta solo parzialmente per l’Italia (nella fascia d’età 30-50) e per la Francia (entro i 40 anni). Nel caso della Germania tale effetto è debolissimo e presente solo nella fascia dei quarantenni. L’essere donna comporta uno svantaggio sistematico in tutti questi Paesi, con maggior incidenza per Germania, dove si accresce con l’invecchiamento e per il Regno Unito, dove invece si nota un recupero verso la fine della vita lavorativa).
Possiamo quindi riassumere ricordando che i quattro Paesi analizzati presentano diverse modalità di selezione delle classi dirigenti, giocate tra le credenziali educative (maggiormente rilevanti per Francia e Regno Unito) ed esperienza/anzianità (maggiormente rilevante per Germania e Italia). In tutti i Paesi le donne sono in posizione di svantaggio nell’accesso alle classi dirigenti, nonostante siano più istruite delle loro controparti maschili. Passiamo ora ad analizzare quali caratteristiche dei sistemi formativi possano essere responsabili di questo risultato.
Nel Regno Unito il sistema formativo è caratterizzato da un sistema secondario di tipo misto in cui, a un indirizzo prevalente di tipo unitario (comprehensive), si associa la permanenza di scuole orientate specificatamente all’indirizzo universitario (grammar schools). Esiste una possibilità di differenziazione dei percorsi alla luce delle materie che vengono preparate per l’ammissione all’università (GCE, General Certificate of Education, A level; oppure GCSE, General Certificate of Secondary Education), così come la scelta di indirizzi professionali dopo i 16 anni.
Le università, in quanto enti privati autogovernati, hanno libertà di ammissione, mentre quelle più prestigiose sono anche quelle per le quali i requisiti di ammissione (in termini di materie e di votazione) sono più elevati. Tuttavia, le tasse di ammissione sono uniformi sul territorio nazionale e arrivano attualmente a 3000 sterline per il primo livello dei corsi. Per gli studenti provenienti da situazioni disagiate è prevista la possibilità di esenzione delle tasse d’iscrizione, a cui può aggiungersi un contributo statale che può arrivare fino a 4000 sterline annue. Esiste un’agenzia nazionale per la valutazione della qualità delle istituzioni formative (QAA, Quality Assur-ance Agency for higher education, creata nel 1997) che rende pubblico un giudizio di affidabilità o meno della formazione impartita. Così come sono previste graduatorie pubbliche tra università basate sia sui risultati della ricerca (RAE, Research Assessment Exercise), sia sugli sbocchi lavorativi degli studenti. Chi scrive ha avuto modo di confrontarsi con esponenti di quell’Ente nel corso dei Seminari Cedefop frequentati a Oslo nel 2001 ed a Stoccarda nel 2005.
Gli studenti possono ottenere sostegno economico dal governo centrale, dalle autorità locali o dalle stesse università, in forma di esenzione dalle tasse e/o di assegni aggiuntivi. È prevista, altresì, la possibilità di accedere a prestiti, di ridotto ammontare, che vengono garantiti dal pubblico e sono volti al mantenimento degli studi.
Esistono, infine, istituzioni di formazione terziaria non universitaria (universities colleges, precedentemente polytechnics). Con il libro bianco The future of higher education del 2003, il governo inglese si è dato l’obiettivo di portare al 50% la popolazione frequentante l’istruzione universitaria, alzando contestualmente le tasse d’iscrizione nella forma di un credito d’imposta da riscuotere successivamente alla laurea. Il sistema inglese esercita una forte attrattiva sugli studenti che provengono da Paesi terzi: nel 2005 la quota di studenti che frequentava le università inglesi sul totale degli studenti che studiavano in una università estera era pari al 12%, seconda solo agli Stati Uniti con il 22%.
In Francia il sistema formativo francese è anch’esso caratterizzato da un sistema secondario unitario (collège), che si differenzia dopo i 15 anni tra un indirizzo accademico (lycée général o technologique) e uno professionale (lycée professionnel). Gli studenti che scelgono il primo indirizzo hanno accesso al sistema universitario che si differenzia tra universités e grandes écoles. Sono queste ultime (insieme agli instituts universitaires de technologie) che presentano elevati requisiti di ammissione (nel caso delle grandes écoles esistono corsi di 2-3 anni per la preparazione agli esami di ammissione). La loro creazione risale al periodo della Rivoluzione francese (1793) e la loro missione era specificamente quella di formare le classi dirigenti pubbliche attraverso una rigorosa selezione meritocratica. Gli studenti che sono ammessi a queste istituzioni d’élite sono classificati come funzionari pubblici in addestramento. In quanto membri a tutti gli effetti della pubblica amministrazione, essi ricevono un regolare stipendio per la durata degli studi (attualmente 4 anni), e si impegnano a lavorare almeno per dieci anni circa nella pubblica amministrazione o in imprese di proprietà statale. Per tutte le altre istituzioni universitarie il requisito di ammissione è dato dal conseguimento del diploma di baccalauréat al termine della scuola secondaria (o certificato equivalente).Le tasse di ammissione anche in questo caso sono fissate dal governo centrale a livelli relativamente bassi (nel 2006-07 erano pari a 162 euro per un programma di primo livello, 211 per un corso di laurea magistrale e 320 per un corso dottorale). A questo si aggiunge la possibilità, per gli studenti provenienti da famiglie in difficoltà economiche, di ottenere un contributo aggiuntivo (che varia tra 1300 e 3500 euro per anno), spesso sostituito da benefici in natura (sistemazione in pensionati, contributi pasto). Non esiste un sistema di valutazione esterna delle istituzioni universitarie (anche se un’agenzia ad hoc è stata creata nel 2006), le quali sono tuttavia incoraggiate a sviluppare procedure di autovalutazione interna.
Il sistema tedesco è organizzato su base regionale (Länder) anche se vi è un consistente sforzo di omogeneizzazione a livello federale. Esso è caratterizzato da un orientamento precoce degli studenti al termine della scuola primaria (10-11 anni) secondo un sistema tripartito che dà accesso a diverse opportunità a livello terziario. L’indirizzo accademico (Gymnasium) prevede la prosecuzione a livello universitario, quello tecnico (Realschule) permette la prosecuzione solo in alcuni indirizzi (Fachhochschulen) e/o l’ammissione alla formazione terziaria non universitaria (Berufsakademien), mentre l’indirizzo professionale (Hauptschule) non prevede la prosecuzione a livello universitario.
Il requisito di ammissione è il possesso di un diploma di un corso secondario a orientamento accademico (Abitur) o tecnico (Hochschulreife), anche se esistono altri canali d’ingresso per persone con esperienza lavorativa. Le università non possono invece introdurre requisiti di ammissione.
Anche il sistema italiano, come quello francese o tedesco, è caratterizzato da un indirizzo non unitario a livello di scuola secondaria. A differenza di quello tedesco, esso garantisce una maggiore libertà di scelta a livello di indirizzo secondario e l’ammissione all’università è condizionata esclusivamente all’avere conseguito un diploma di maturità quinquennale. Se si escludono alcuni indirizzi specifici (accademie di belle arti, Accademia nazionale di arte drammatica, istituti superiori per le industrie artistiche, conservatori di musica, Accademia nazionale di danza), in Italia è pressoché assente una formazione terziaria non universitaria. Le università sono soggette a procedure di accreditamento le cui informazioni vengono analizzate da un’agenzia nazionale di nomina governativa (CNVSU, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario) che ha come obiettivo principale la valutazione delle risorse disponibili.
Nel panorama dell’università italiana spiccano tuttavia centri di formazione di ‘eccellenza’ fra cui la Scuola normale superiore di Pisa. Istituita per decreto napoleonico agli inizi del XIX sec. come succursale dell’École normale supérieure di Parigi, la Normale prevede una rigida selezione iniziale tramite concorso degli studenti ammessi a ciascuna delle due classi di studio, la classe di Scienze e quella di Lettere e filosofia. Una volta operata la selezione, e condizionatamente al mantenimento di una votazione media superiore al 27, la Normale fornisce gratuitamente ai propri allievi vitto e alloggio, nonché il completo rimborso delle tasse universitarie e un modesto contributo mensile allo studio. Accanto alla continua selezione dei propri studenti, la Normale si contraddistingue anche per un favorevole rapporto fra numero di studenti e numero di docenti (circa 3 a 1).
Se si mettono in relazione i dati di Regno Unito e Francia, da cui emerge che il possesso di un titolo universitario ha un impatto nell’ingresso nelle classi dirigenti, con i sommari elementi qui richiamati sulla struttura dei sistemi formativi, si possono avanzare alcune ipotesi interpretative:
1) una credenziale educativa è efficace nel promuovere l’ascesa sociale di chi la detiene se e solo se è in grado di segnalare le capacità del possessore. Tale funzione di signaling è possibile se, e solo se, il processo per il suo conseguimento è di tipo selettivo. Il sistema inglese è selettivo all’ingresso, permettendo una stratificazione spontanea del sistema universitario tra università di eccellenza e altre università. Viceversa, nel caso del sistema francese la separazione è intenzionale e discende dal disegno istituzionale di scuole di eccellenza con accesso selettivo. Nel caso tedesco e in quello italiano, il libero accesso all’università, unito all’assenza di centri d’eccellenza, ne riduce il carattere di segnalazione. È vero che nel caso di questi due Paesi vi è un processo di selezione sociale che opera a partire dalla scuola secondaria e che continua a operare anche a livello universitario attraverso gli abbandoni in corso, ma evidentemente l’efficacia di questo segnale è molto più debole;
2) per essere credibile, un segnale non deve essere distorto da fattori confondenti. In particolare, l’assenza di forme di sostegno allo studio per gli studenti universitari differenzia l’Italia dal resto dei Paesi. Il fatto di non possedere una laurea, infatti, può essere indicatore di scarsa capacità individuale così come di mancanza di risorse finanziarie a livello familiare. Se la seconda causa potesse essere esclusa dalla presenza di sussidi pubblici per gli studenti meritevoli ma bisognosi, ecco allora che il segnale si rafforzerebbe. Vale anche il caso simmetrico: incontrare un individuo con una laurea in un Paese dove non vi sono forme efficaci di sostegno allo studio può essere indicativo delle sue capacità individuali ma anche della famiglia di origine;
3) la qualità di una formazione universitaria non può essere basata solo sulla valutazione della didattica, specialmente quando quest’ultima sia impostata su autovalutazioni o valutazioni di natura puramente procedurale. Una valutazione della qualità della formazione offerta non può prescindere dalla valutazione della produttività scientifica degli accademici impegnati in loco, e questa valutazione non può essere realizzata che da agenzie esterne al sistema universitario per evitare forme di collusione tra valutatori e valutati. L’importanza e il valore di quest’attività di valutazione possono essere identificati non solo negli incentivi che essa produce sulle stesse università sottoposte a valutazioni che vengono spinte alla competizione sulla qualità dell’offerta formativa, ma anche nella capacità di attrazione degli studenti migliori, sia in ambito nazionale sia estero. In un contesto di crescente integrazione anche i sistemi universitari dei diversi Paesi sono sottoposti a una competizione internazionale sempre maggiore, sia nell’ambito della ricerca sia in quello della formazione. Pur tenendo conto del ruolo giocato dall’apprendimento della lingua inglese (fatto questo che induce un numero crescente di università non inglesi a impartire corsi in lingua inglese), è evidente che il sistema universitario anglosassone è caratterizzato da un sistema efficace di valutazione della ricerca, un ottimo posizionamento delle proprie università all’interno dei ranking internazionali e si distingue per l’attrattività che esercita verso studenti provenienti dagli altri Paesi.
Le principali caratteristiche della nostra classe dirigente sono state approfondite da Carboni in Élite e classi dirigenti in Italia (2007) e nei due Rapporti Luiss Generare classe dirigente (2007, 2008). Nel primo studio, seguendo un metodo posizionale, si identificano i membri della classe dirigente attraverso l’analisi di circa 5500 curricula tratti dallo Who’s who di personaggi ‘famosi’ che ricoprono posizioni di vertice in diversi ambiti di attività: economico, politico, istituzionale, culturale, scientifico e religioso.
L’Italia si caratterizza per l’assenza di serbatoi di formazione delle élites quali, per es., le grandes écoles in Francia e centri di eccellenza di rinomata tradizione sul modello Oxbridge per il Regno Unito. Come ha notato Giulio Sapelli in uno studio del 2004, la mancanza di specifici centri di formazione, insieme al venire meno del ruolo formativo storicamente svolto dai partiti di massa, ha contribuito al declino della classe dirigente italiana che, facendosi portatrice di istanze particolaristiche, è a sua volta venuta meno al perseguimento dell’interesse generale e alla visione complessiva del benessere della società. Sia nell’ambito politico sia economico, la selezione della classe dirigente sembra operare principalmente attraverso meccanismi di cooptazione e/o relazionali piuttosto che tramite meccanismi di mercato basati sul merito.
A conferma di queste critiche, ricerche in ambito sociologico hanno analizzato i meccanismi di selezione delle classi superiori attraverso lo studio della mobilità intergenerazionale della classe dirigente stessa. Antonio Schizzerotto (1993) fornisce una prima analisi dei processi di mobilità e della struttura di classe delle posizioni al vertice della gerarchia occupazionale. Nel contesto sociale italiano, a sua volta caratterizzato da un livello assai modesto di mobilità intergenerazionale, la classe dirigente (imprenditori, politici, liberi professionisti, dirigenti) si contraddistingue per una sostanziale chiusura alle prospettive intergenerazionali di accesso a essa a partire da posizioni non privilegiate, e per una sostanziale ereditarietà soprattutto delle posizioni imprenditoriali e professionali collegata alla trasmissione intergenerazionale di capitali e di attività ben avviate. Il problema relativo alla selezione della classe dirigente in un contesto che appare caratterizzato da un elevato tasso di auto reclutamento diviene dunque quello del favorire un accesso basato sul merito, facilitando di conseguenza tanto una maggiore mobilità sociale quanto un maggior ricambio all’interno della classe dirigente stessa.
Il declino della classe dirigente italiana, da più parti evidenziato, può essere ricondotto fra le molte possibili concause, da un lato all’incapacità del sistema universitario di fornire segnali e incentivi adeguati alla selezione degli studenti migliori, dall’altro all’incapacità della classe dirigente esistente di rinnovarsi costantemente per accogliere i migliori prodotti del sistema universitario stesso. A testimonianza indiretta di quest’ultimo punto si può notare come il mercato del lavoro italiano, a tutti i livelli, si caratterizzi per una scarsa capacità sia di attrarre giovani lavoratori di talento dall’estero, sia di trattenere i propri (il cosiddetto fenomeno del brain drain), con chiare conseguenze negative nel lungo periodo in termini di potenziali di crescita economica. Evidenza in tal senso può essere trovata nello studio del 2003 di Sascha O. Becker, Andrea Ichino e Giovanni Peri. L’Italia, nell’ambito dei Paesi considerati, risulta essere quello meno in grado di attrarre laureati stranieri (nel 1999 solo 0,3% a fronte dell’1,7% del Regno Unito), mentre risulta essere quello maggiormente esposto all’emigrazione verso l’estero dei propri laureati (nel 1999 il 2,3% contro lo 0,6% dei laureati tedeschi).
Alcune considerazioni aggiuntive devono essere avanzate in merito ai peculiari processi di selezione che riguardano la classe dirigente in ambito politico. In uno Stato democratico quale quello italiano, la capacità del sistema di selezionare un politico di ‘qualità’ dipende da un lato dai meccanismi che determinano la selezione dei potenziali candidati, dall’altro dai meccanismi che influenzano gli stessi risultati elettorali. Tali temi sono stati estensivamente analizzati nella letteratura di political economy. Riprendendo il lavoro di Timothy Besley (2005), il pool dei potenziali candidati dipende dalla relativa attrattività dell’attività politica in rapporto alle opportunità di mercato. Se l’attività politica consente l’appropriazione di rendite elevate e garantisce sostanziosi benefici economici, il pool di coloro che vorranno concorrere alla competizione elettorale sarà necessariamente vasto, comprendendo anche soggetti la cui motivazione etica all’attività politica e all’impegno saranno inferiori a quelli che si osserverebbero in un contesto in cui il rendimento dell’attività politica sia allineato a quello di altre occupazioni sul libero mercato. Un interessante spunto di riflessione in tal senso si trova in un recente contributo di Stefano Gagliarducci, Tommaso Nannicini e Paolo Naticchioni (2008). Analizzando il caso italiano, gli autori evidenziano come la possibilità istituzionalmente garantita di continuare a esercitare contemporaneamente all’attività parlamentare una professione nel settore privato influenzi negativamente la qualità dei politici eletti e la loro produttività politica.
Oltre che dall’attrattività dell’attività politica, la selezione dei potenziali candidati dipende anche dalla relativa probabilità di successo nella competizione elettorale di politici ‘cattivi’ e politici ‘buoni’. Idealmente, la selezione dovrebbe sempre favorire i candidati potenzialmente migliori. Tuttavia, quando i candidati vengono scelti dai partiti, e nel caso in cui questi ultimi siano interessati anche all’estrazione di rendite, la qualità potrebbe essere ritenuta di intralcio al conseguimento di interessi di parte o ancora, all’interno dei partiti, la selezione dei candidati potrebbe operare tramite criteri di conoscenza personale piuttosto che attraverso il criterio del merito. Chiaramente anche la qualità e la libertà dell’informazione influiscono sulla selezione dei potenziali candidati. Da ultimo, la selezione della classe politica dipenderà dalla sua accountability, ossia da come il sistema politico obbliga la sua classe dirigente a rispondere del proprio operato, tipicamente attraverso le opportunità di essere rieletta e rimanere in carica.
L’analisi suggerisce l’esistenza di una relazione tra selezione delle classi dirigenti e assetto del sistema formativo, in particolare a livello terziario. Tuttavia, ogni sistema di segnalazione, per essere efficace, deve essere validato dal sistema politico e/o dal sistema economico-produttivo, dal momento che la selezione che esso produce deve essere del tutto funzionale ai ruoli da ricoprire. Una funzione essenziale assolta, seppure indirettamente, dalle istituzioni formative, è quella della omogeneizzazione dei sistemi valoriali e della creazione di reti di relazioni interpersonali. Provenire da istituzioni di eccellenza deputate alla formazione della classe dirigente diventa così un segnale che si autoconferma. La modalità con cui questo può avvenire dipende dalla forma specifica che i ‘quasi-mercati’ dell’istruzione assumono nei diversi Paesi. Nel caso degli Stati Uniti, e in misura minore nel Regno Unito, la selezione all’ingresso avviene sia sulla base del merito, sia sulla base della capacità/possibilità di pagare le rette d’accesso. All’altro estremo, nel caso francese è la regolazione pubblica del processo selettivo che assicura un risultato analogo. Nel caso tedesco sembrano esservi meccanismi di validazione della selezione che sono centrati sul prestigio individuale dei professori cui è associata la formazione. Nel caso italiano non sembra invece rintracciarsi alcun percorso privilegiato che risulti legato alla formazione delle élites. In conseguenza di questo specifico motivo la creazione di network relazionali avviene attraverso circuiti alternativi che esulano dalle istituzioni precipuamente deputate alla formazione. Per assurdo, anche questo sistema di reclutamento della classe dirigente si fonda su meccanismi di validazione. In assenza di processi formativi comuni, il network di relazioni fiduciarie necessarie allo svolgimento delle attività dirigenziali tende a essere assicurato dal senso di appartenenza ai partiti, alle organizzazioni oppure alle dinastie di potere. In un mondo dove non è possibile segnalare le proprie capacità, non più il criterio del merito, ma quello della semplice ‘appartenenza’ fornisce ipso facto informazioni sulle caratteristiche non osservabili degli aspiranti membri alla classe dirigente.
Da questo punto di vista lo stesso istituto della ‘raccomandazione’, che nel contesto estero assume la veste di conferma di segnali oggettivi (la lettera di reference di un docente di un’università prestigiosa a proposito di un laureato della stessa università è un segnale che si auto rafforza), si trasforma nel contesto italiano in un segnale di appartenenza a una rete relazionale autoreferenziale, cui appartiene sia il raccomandante sia il raccomandato. Chiaramente, non vi sarebbe nulla di scandaloso in questo sistema qualora vi fosse la possibilità di una validazione esterna della capacità gestionale degli appartenenti alla rete stessa. Tuttavia, in assenza di riscontri oggettivi, il sistema di selezione della classe dirigente italiana rischia il collasso. Alla luce di queste considerazioni, riteniamo che favorire lo sviluppo d’istituzioni formative d’élite ad accesso strettamente meritocratico (di cui pure esistono esempi illustri quali la già citata Normale di Pisa) rappresenti la politica più efficace allo scopo di sconfiggere il clientelismo e il familismo che affliggono la selezione di molta della classe dirigente nel nostro Paese e ne impediscono il rinnovamento.
È da più di un decennio che la scienza sociale e politica rileva una sorta di malessere democratico delle società occidentali, che rende la politica invisa ai cittadini e imprevedibile il voto popolare. Alcuni mercati politici si sono rattrappiti per via dell’astensionismo, altri si sono radicalizzati con partiti-movimenti antieuropeisti e populisti; altri ancora, come quello italiano, non si sono fatti mancare niente, si sono rattrappiti e radicalizzati. Perché? Il nodo è sempre il medesimo: nel mondo occidentale, circola un mood anti-élite – in parte spiegabile con la deprivazione economica da crisi – che diffonde il timore di votazioni deflagranti, come nel caso di Brexit, dell’elezione di Trump o del recente referendum costituzionale italiano.
La gente vorrebbe élite visionarie, oneste e competenti: una vera e propria classe dirigente in grado di fare rotta sul bene comune. Al contrario, oggi, la politica tradizionale destra-sinistra non appare più in grado di mediare e schermare il divario d’autorità che corre tra rappresentanti e rappresentati (uno dei punti “molli” della democrazia rappresentativa già indicati da Norberto Bobbio): l’élite politica autoreferenziale diviene il bersaglio della protesta e trascina nella sfiducia popolare altri settori di classe dirigente, come sta avvenendo nel nostro Paese. Anche grazie a già citati studi “critici” (Ornaghi-Parsi 2004, Carboni 2007 e poi agli studi Luiss), abbiamo pian piano imparato a dare maggior peso alle responsabilità delle élite, in particolare politiche, rispetto a ritardi e difficoltà del Paese. In economia, perdiamo terreno da quasi due decenni rispetto ai competitor del gruppo di testa e molta parte della popolazione non si è sentita sufficientemente protetta durante e dopo la crisi economica e massimamente oggi con le conseguenze devastanti della pandemia da Covid 19.
Inoltre, instabilità e crisi politica ci accompagnano da quando – almeno da tre decenni – la politica è metabolizzata dai media e si è personalizzata e “finanziarizzata”. Il Paese è percorso da un malessere sociale che si scarica nell’exit astensionista o nella voice della protesta grillina e leghista. Dunque tempi duri per le élite, troppo chiuse e troppo frammentate per poter recuperare autorevolezza e fiducia al cospetto del mood anti-casta che ottusamente si compiace del suo pessimismo e del gusto di esagerarlo. Invece di creare nuove alleanze ed egemonie nell’alternanza bipolare per guidare il Paese, ognuno tira l’acqua al proprio mulino, a partire dalle alte sfere. Questo rapporto nodale tra élite e società, innanzitutto esigerebbe serietà nel selezionare e generare classe dirigente. Questa selezione riguarda non solo la politica ma anche altre dimensioni come il mondo economico, che, pur agevolato dalla selezione del mercato, ha comunque evidenziato non pochi problemi di passaggio imprenditoriale e di formazione di una cultura imprenditoriale 4.0.
Non è semplice dare risposte a come, dove e perché nasce e si forma una classe dirigente. Un leader non si crea in vitro, al pari della conoscenza generativa: si forma sul campo e si forgia nel contesto, anche se conoscenza e competenze codificate ne sono oggi un “fertilizzante” formidabile. Dopo la chiusura delle scuole di partito e l’evanescenza delle fondazioni politiche, dopo le palestre di cultura e di competenza imprenditoriale allestite dai nostri grandi gruppi pubblici e privati, gran parte del compito di formazione e selezione è ricaduto sulle fragili spalle delle nostre università anche se negli ultimi 15 anni, si sono create alcune scuole e collegi speciali con alunni meritevoli.
Il grande giurista e politologo palermitano Gaetano Mosca, senatore del regno dal 1919, fu tra i pochi dopo il delitto Matteotti nel 1924 ad avversare il fascismo ed a firmare nel 1925 il del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Egli sosteneva già agli albori del secolo scorso che un tema principe della democrazia e del rapporto tra rappresentanti e rappresentati attiene alle modalità di selezione della classe dirigente pubblica e privata. Un tema che non può che apparire lancinante in una terra che pure ebbe sul proprio territorio a partire dagli anni ’60, l’ISIDA fondato da Gabriele Morello e due decenni dopo il CERISDI di Salvatore Teresi – sull’esempio dell’ENA e dell’INSEAD francesi e dello IESE di Barcellona – due realtà apprezzate più all’estero che in Italia, che avrebbero potuto riscrivere la storia dell’Isola, e non solo.
La decisa affermazione espressa da Gaetano Mosca che cento anni fa poteva apparire come un ammonimento dinanzi all’avanzare del regime e dei suoi arroganti gerarchi, costituisce oggi la differenza tra il definitivo tramonto dell’Italia e il suo possibile ritorno tra i protagonisti, ed i decisori, dell’Unione Europea.
N.B. (l’autore è stato docente presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, Roma, Direttore Master ISIDA in Human Resources e Consulente dell’ultimo presidente del CERISDI, Salvatore Parlagreco)