Premessa – In questa serie di articoli parleremo delle Istituzioni dell’Unione Europea, della loro costituzione e del percorso che le ha portate ad essere quello che sono. Il nostro obiettivo è spiegare a tutti, MA IN PARTICOLARE AI GIOVANI (sia quelli che saranno chiamati a votare tra poche settimane che in generale quelli che diventeranno maggiorenni tra poco) quello che non sempre a scuola o in televisione viene detto. Il tutto in modo ASSOLUTAMENTE APARTITICO e APOLITICO, senza alcuna indicazione o forma di influenza che possa portare a scegliere un partito o l’altro, questo o quel candidato.
Nelle scorse “puntate” abbiamo cercato di fornire qualche informazione (il termine formazione è ben altra cosa: vista la materia complessa e richiederebbe molto più tempo – ma a questo potranno provvedere i Professori) sul Parlamento europeo e su ciò che gira intorno ad esso. Per i giovani più curiosi ecco alcune …curiosità.
Quanti sono i paesi membri dell’Unione europea? E in cosa consiste la procedura di “allargamento”?
Dopo l’uscita del Regno Unito sono 27, ma il loro numero potrebbe aumentare: diversi paesi, infatti, hanno fatto richiesta di entrare a far parte dell’UE. Allargamento dovrebbe significare (il condizionale è d’obbligo) una maggiore stabilità politica, la possibilità per i cittadini di vivere, studiare o lavorare ovunque nell’UE, maggiori finanziamenti e investimenti, ma soprattutto l’adozione di standard sociali, ambientali e di tutela dei consumatori più elevati. Per gli Stati quindi no significa solo ampliare il mercato libero per le proprie aziende (spesso questo obiettivo è già stato raggiunto grazie ad accordi bipartisan).
Naturalmente “crescere” comporta dei vantaggi anche per l’UE: maggiori opportunità per le imprese, ma soprattutto essere più forte sul panorama mondiale e una maggiore sicurezza e stabilità in Europa. Purtroppo l’iter per un paese che desidera entrare a far parte dell’UE è abbastanza lungo e farraginoso (al contrario di quanto vorrebbe far credere qualcuno per l’Ucraina). Il primo passo che un paese che desidera candidarsi deve compiere è presentare una domanda formale di adesione al Consiglio dell’Ue. A questo punto, il Consiglio chiede alla Commissione europea di verificare se il paese candidato gode dei requisiti necessari. Fatto questo il paese riceve il titolo di “paese candidato” e possono essere avviati i negoziati formali per l’adesione all’Unione. Una decisione, questa, che deve essere approvata da tutti gli Stati membri dell’UE. Per il paese candidato il passaggio successivo consiste nell’adeguare leggi e norme interne per renderle conformi a quanto previsto dai regolamenti Ue.
Attualmente i negoziati formali includono 35 capitoli e coprono i diversi settori. Se i negoziati e le riforme del paese candidato hanno esito positivo, si passa al completamento del Trattato di adesione che deve essere ratificato anche da tutti i membri dell’UE. Il documento finale deve essere quindi approvato dalla Commissione europea, dal Consiglio europeo e dal Parlamento europeo. E deve essere firmato e ratificato da tutti gli Stati membri dell’UE (oltre che, ovviamente) dal paese candidato.
Per aderire all’Ue un paese deve dimostrare i rispettare i criteri di adesione, anche noti come criteri di Copenaghen. Deve avere istituzioni stabili in grado di garantire la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani, la tutela delle minoranze; la sua economia deve essere stabile e deve essere in grado di far fronte alla concorrenza del mercato dell’UE.
Tutti passaggi che rendono tutt’altro che semplice aderire. Basti pensare che tra i paesi che hanno presentato la propria candidatura per entrare a far parte dell’UE, alcuni lo hanno fatto oltre un decennio fa. E la loro istanza non è stata ancora completata. L’Albania (ovvero il paese dove tra poco si cominceranno a mandare i richiedenti asilo in Italia) ha presentato la propria candidatura nel 2014. La Serbia nel 2012. Il Montenegro nel 2010. La Macedonia del Nord nel 2005. La Turchia addirittura nel 1999. Ma nel 2018 i negoziati di adesione di questo paese sono stati “congelati” a causa delle preoccupazioni circa lo stato di diritto e la libertà dei media (e non solo).
Lo stesso dicasi per altri due paesi candidati: Albania e Macedonia del Nord. In una risoluzione di ottobre 2019, il Parlamento europeo ha espresso disappunto per il fatto che questi paesi non sono stati in grado di avviare i colloqui di adesione. Colloqui di adesione no, ma ospitare migranti e richiedenti asilo in strutture che sembrano delle prigioni questo sì. C’è anche un paese, il Kosovo, che pur avendo presentato la propria richiesta di adesione non ha ancora ricevuto neanche il riconoscimento di “paese candidato”.
A marzo 2022, Ucraina, Georgia e Moldova hanno presentato domanda di adesione all’UE. Per questi paesi il comportamento del Parlamento europeo è stato diverso. Recentemente, il Parlamento UE ha chiesto che venisse concesso “senza indugio” lo status di candidato dell’UE all’Ucraina e alla Moldova. Il 23 giugno 2022, la presidente del Parlamento, Roberta Mesola, in un discorso rivolto ai leader dell’UE disse che l’accesso di questi paesi rafforzerebbe l’Ue: “Dovremmo essere chiari che non si tratta semplicemente di un atto simbolico, questo rafforzerà l’Ue e rafforzerà l’Ucraina e la Moldova. Mostrerà alla nostra gente, così come alla loro, che i nostri valori contano più della retorica. Quella speranza che può portare risultati, anche per altri Paesi che sono in attesa – quelli dei Balcani occidentali – devono vedere che la speranza si traduce in risultati. È ora”. Alcuni leader dell’UE hanno invitato anche a riconoscere la Georgia come paese candidato.
Ma l’allargamento verso est non è una novità: è iniziato ben prima della guerra in Ucraina. Già a febbraio 2018, la Commissione europea aveva pubblicato un documento strategico sull’allargamento, nel quale si parlava del 2025 come possibile data di adesione per Serbia e Montenegro. Contemporaneamente la CE aveva presentato la propria strategia. Ma molti europarlamentari hanno espresso giudizi contrastanti su questo documento ribadendo la necessità di riforme nei Balcani occidentali, prima di concedere loro l’adesione all’UE.
Il processo di adesione dei paesi dei Balcani occidentali deve tenere conto anche di un quadro speciale noto come processo di stabilizzazione e associazione. Questo iter ha come obiettivo quello di stabilizzare politicamente i paesi e incoraggiarne una rapida transizione verso un’economia di mercato e, al tempo stesso, di promuovere la cooperazione regionale. Gli accordi di stabilizzazione e di associazione prevedono diritti e obblighi reciproci. Intanto, a marzo 2024, è stato raggiunto un accordo per avviare i colloqui per l’adesione della Bosnia Erzegovina.
Tutto questo conferma che il processo di adesione di uno Stato all’UE non è semplice (come qualcuno vorrebbe far credere). Spesso la fase che richiede più tempo è quella per l’adozione, l’attuazione, l’adeguamento e l’applicazione da parte del candidato di tutte le norme vigenti nell’Ue (“acquis”). Norme che riguardano sia diversi settori politici, come i trasporti, l’energia, l’ambiente e altri (ciascuno dei quali prevede un negoziato indipendente), ma anche le modalità finanziarie, ovvero l’importo che il nuovo membro è in grado di versare e quello che potrà ricevere dall’Ue (anche sotto forma di storni).
Da quando sei paesi europei “fondatori” (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) hanno deciso di unirsi, il 25 marzo del 1957, firmando il trattato di Roma che istituì la Comunità economica europea (CEE), ci sono stati sette allargamenti (e un’uscita). L’ultimo allargamento, il settimo, è avvenuto a luglio 2013 con l’ammissione della Croazia. L’uscita è ancora in discussione: non si sono ancora conclusi i passaggi per la cosiddetta Brexit. A otto anni dal referendum che vide gli abitanti del Regno Unito chiedere al proprio governo di avviare le procedure per uscire dall’Ue e a quattro anni dalla formalizzazione dell’uscita, sono molti ancora gli aspetti da chiarire e le questioni da risolvere. Gli accordi post-Brexit come sono stati definiti dovrebbero servire a orientare e disciplinare le future relazioni tra Regno Unito e UE, tutelando i diritti dei cittadini e garantendo nel contempo una concorrenza leale e il proseguimento della cooperazione. Solo poche settimane fa, il nuovo premier britannico laburista ha parlato della necessità di rinegoziare il “pasticciato” accordo sulla Brexit firmato da uno dei suoi predecessori, Boris Johnson. “non è solo una questione di sicurezza e difesa, abbiamo molte questioni sul tavolo di cui parlare”. Segno che a distanza da otto anni dal referendum che ha portato alla Brexit, la strada è ancora lunga. E molte delle questioni più delicate (da alcuni controlli alle frontiere sui beni importati dall’Ue – previsti dall’Accordo di commercio e cooperazione (Tca) del 2020 – ai requisiti sull’etichettatura dei prodotti previsti dal Quadro di Windsor fino ad alcune questioni irrisolte relative ai diritti dei cittadini dell’UE che vivono nel Regno Unito o agli accordi post-Brexit per Gibilterra) rimangono irrisolte.