Parafrasando uno dei più noti saggi pubblicati negli anni 80 “Palermo Palcoscenico d’Italia” che conservo gelosamente, verrebbe oggi da domandarsi perché Palermo assurse in quegli anni alla cronaca delle prime pagine di tutti i giornali italiani, conquistando sovente importanti spazi anche in quelli internazionali.
Perchè l’espressione coniata dal padre gesuita Ennio Pintacuda diventò la cifra di un paradigma di cambiamento irrinunciabile e irrevocabile? Perché, già anni prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, l’attenzione del Paese si focalizzò su una tra le più grandi città italiane, da sempre relegata però in luoghi comuni o in stereotipi letterari o cinematografici?
La risposta, pur non semplice, sta probabilmente nel fatto che a Palermo in quegli anni si scontrarono due diverse ed opposte visioni della Politica, della Società, della Città, con molto anticipo (il solito destino di molte delle cose siciliane) rispetto a molte altre, importanti, realtà metropolitane. Un’inedita alchimia che difficilmente potrà ripetersi con le medesime caratteristiche.
Il primo e più importante di questi scontri fu il cosiddetto scongelamento del consenso: davanti alle emergenze poste dalla criminalità organizzata e dalle continue “mattanze”, il voto di appartenenza, quello cieco ed ideologico si “scongelò” polarizzandosi su due nuovi fronti mai considerati tali nel mondo dei partiti: l’onestà e la disonestà. Su quella che poi Enrico Berlinguer chiamerà la Questione Morale”, si spaccarono partiti e correnti e ciò sia nella Democrazia Cristiana che nel Partito Comunista, entrambi non immuni da infiltrazioni mafiose, collateralismi, concorsi più o meno esterni alla mafia, reciproca copertura nel mondo degli appalti, pur regolata dalla ferrea contabilità del Manuale Cenecelli.
Dallo scongelamento del voto prigioniero nei recinti dei partiti nacquero Movimenti e Associazioni che consentirono a uomini e donne di formazione diversa di superare gli steccati e di riconoscersi nella costruzione del Bene Comune. Nessuno si illuse di distruggere i partiti ma molti si impegnarono sinceramente a fare della fase movimentista l’anticamera di una nuova etica della politica, vivendo quella fase come un ponte tra due diversi continenti, una rete di transito su cui costruire nuove identità e non nuove appartenenze.
La seconda storica collisione si ebbe sul piano sociale ed ebbe per protagonisti molti dei giovani della buona borghesia, avviati tradizionalmente alle professioni paterne o, nel caso della politica ad essere posti “sotto le ali” di esponenti navigati, in molti casi onesti, che ne avrebbero curato l’apprendistato e, se del caso, fattone i propri delfini.
In una tarda versione del ‘68 (siamo pur sempre l’unico posto al mondo dove esiste lo stile tardo gotico detto “chiara montano” o “fiorito” e nella terra dove i mandarini migliori si chiamano “tardivi”) quella generazione, o meglio ampia parte di essa, decise di rompere un silenzioso patto generazionale talvolta confinante con l’omertà e più speso con l’indifferenza, assumendo stili di vita, comportamenti e linguaggi che li avrebbero portati verso “sinistra” intendendo con ciò un percorso di trasgressione in direzione di nuove concezione della vita e della società.
Templi sacri ne furono luoghi come Teatro Libero, i cine club La Base e l’Antorcha dove si rappresentavano testi e film che mostravano altre percezioni, altre possibilità, all’insegna di quel “Ribellarsi è giusto” che fu la Bibbia anarchica di un’intera generazione. In quegli anni a Villa Sperlinga la popolazione giovanile era ben altra da quella di oggi, tra lo scandalo dei benpensanti, compreso qualche illustre esponente delle Forze dell’Ordine o della Magistratura che tremava ad ogni retata, temendo di trovare nel mattinale il nome del proprio figlio tra quelli dei fermati.
La terza trasformazione, epocale come si dice oggi, fu la percezione delle Città come spazio di cui riappropriarsi in ogni aspetto, dalle superstiti bellezze ambientali e monumentali alle macerie del 43, dalle strade vetrina ai sordidi vicoli del centro storico dove molti di noi fecero l’impossibile per prendere in affitto (collettivo) un “quartino” pericolante e privo di acqua corrente.
Era il segno di una voglia di appropriazione delle proprie radici, del proprio dialetto, della propria identità, spesso negata in casa dove attenti e severissimi genitori si astenevano con attenzione da ogni uso del dialetto ammonendo al riguardo l’eventuale personale di servizio (non c’erano ancora le colf) generalmente proveniente dalla provincia, perché nessuna eventuale inflessione madonita o capaciota guastasse il purissimo toscaneggiare dei propri pargoli. E fu un fiorire di dialetti, di primissime suggestioni etniche e popolari, di scoperte sublimi di una gastronomia popolare sconosciuta, somministrata in taverne mal frequentate e in bettole dalla dubbia igiene. Rifugi romantici alla massima potenza furono Piazza Marina, allora buia e misteriosa, abitata dal fantasma dello Steri in rovina e del poliziotto Jo Petrosino, prima vittima della Mano Nera (l’antenata di Cosa Nostra in USA), come pure la Vucciria ancora fresca dei pennelli di Renato Guttuso e l’Albergheria dove incontrare quei colleghi che in Università avevano accenti così strani e tanto diversi dal nostro.
Su queste tre grandi scomposizioni si costruì una nuova Città, un palcoscenico in cui irruppero anni dopo parole nuove, messaggi forti, valori mai dichiarati per la cultura palermitana e praticati alla politica quali la stima per gli esponenti della Legalità, fino ad allora chiamati “sbirri” anche dai ragazzi di “buona famiglia”, il sentimento di laica solidarietà interclassista tra i giovani, una nuova considerazione per il mai abbastanza compreso universo femminile, con le sue ombrosità, irrequietezze e smaniosità in cui cresceva e si sviluppava quella piena realizzazione che oggi lo contraddistingue.
Su quel palcoscenico, guardato da tutta Italia con interesse, cresceva un nuovo modo di essere città, unica al mondo perchè diretta emanazione della Medina interculturale in cui era cresciuto scalzo e “malcreato” Federico II, o delle grandi strade confluenti nel Teatro del Sole in cui i figli degli ultimi nobili giocavano con i coetanei generati dagli affittuari delle botteghe poste al piano terra delle nobili magioni o, ancora, si aprivano centri sportivi e gruppi scout nei quartieri oltre la trincea della Circonvallazione (raramente chiamata dai palermitani Viale Regione Siciliana) nei cui nuovi quartieri dormitorio privi di tutto la generazione dei propri padri aveva confinato gli abitanti dei bassi del Cortile Cascino, di Ballarò o del Cassaro Morto, sperando di concludere nel centro storico l’affare del millennio.
Su quel palcoscenico giganteggiavano figure di maestri di matrice diversa ma uniti dal comune amore per la Città, per la sua gente e per quel genius loci fatto di miseria e di nobiltà a, al tempo stesso, di solidarietà vera e non ostentata. Lo calcavano uomini come Padre Angelo La Rosa e Pio La Torre, Padre Pintacuda e Giacomo Terranova, il Cardinale Salvatore Pappalardo e Piersanti Mattarella, Marcello Cimino e Boris Giuliano, donne come Letizia Battaglia, simbolo di clamorose rotture con il perbenismo borghese e impietosa fotografa della disperazione delle donne dei mafiosi o come Elvira Sellerio e Giuliana Saladino, eroine laiche della rivincita femminile nella vita culturale e civile cittadina, finora negata al loro genere. E tante e tanti altri attori del cambiamento le cui ombre sembrano ora retrocedere sempre più opache nel ricordo collettivo.
Su tutto, l’occhio vigile ed i tanti allarmi inascoltati di un giornale d’assalto, scarsissimo di mezzi e ricchissimo di intelligenze, caratteri e personalità che hanno segnato due generazioni di intellettuali e di cronisti e un immenso teatro, “il secondo o terzo d’Europa”, muto e silenzioso come il fantasma della monaca che si diceva lo abitasse.
Eppure dal quel palcoscenico muto, polveroso e degradato sarebbe sorta, prima in sordina e fra lo scherno dei “poteri” che contavano (ascari dei partiti romani, Regione, Banche, Esattorie) e poi sempre più forte in uno sventolare di “lenzuoli”, la Primavera del risveglio, del sogno diventato realtà, dell’idea divenuta Progetto e Statuto. Su quel Palcoscenico cui tutta Italia guardava ormai stordita e stupita, avrebbero diretto Claudio Abbado e “danzato” Pina Baush, avrebbero ricevuto la cittadinanza onoraria il Dalai Lama e Hans Gorge Gadamer e si sarebbero incontrati mondi, culture, religioni nel luogo che un tempo era chiamato Lo Spasimo.
Oggi, dopo alcune repliche meno fortunate che stanno per concludersi tra molti fischi e qualche pericoloso rimpianto del passato, quel palcoscenico appare ancora una volta oscuro, popolato di spettri, mostri, fantasmi e i rari custodi dalla barba incolta ti pregano di non insistere a volerne visitare i saloni perché hanno vergogna dello stato i cui sono ridotte tappezzerie e imbottiture, lordate da egoismi, disonestà e somma stupidità.
Ma, proprio quando ogni speranza sembra spenta, dal fondo del retropalco sembra di udire gli accordi di una melodia dolce e malinconica in cerca di nuovi interpreti che a poco a poco prende coraggio e si alza in un largo maestoso che annunzia un nuovo futuro possibile per i figli di quella città che un giorno osò definirsi “felicissima” e che merita, nonostante tutto, di avere il diritto, contro ogni evidenza, di tornare a sperare.
Palermo vive del suo ultimo respiro e non è più in grado di attendere oltre.