La memoria e il ricordo, due distinte facoltà neurologiche, sono il privilegio e la condanna della società. Chi ricorda non è indifferente, mentre la memoria può essere anche un magazzino di date e di fatti. La memoria, poi, è soprattutto pubblica e storica, il ricordo è soprattutto intimo e affettivo: commemori i defunti, ricordi i tuoi cari.
E’ l’etimologia, innanzitutto, a evidenziare la differenza: “memoria”, dal greco ‘mimnésco”, indica un’attività della mente collegata a una precisa esigenza e a un valore anche etico, la facoltà di mantenere in vita i contenuti del passato; esiste nella tradizione classica una Musa della Memoria, chiamata Mnemosyne, che è nota come madre delle nove muse, come a intendere che le arti hanno il compito di perpetuare la bellezza nel tempo; la cultura dell’età contemporanea ha inventato addirittura una scienza, la Mnemotecnica, atta a preservare nell’uomo ai più alti livelli la facoltà di cui si è detto, e il vocabolo ‘memoria’ è passato nel linguaggio tecnologico a designare una funzione specifica del computer.
“Ricordo” deriva invece dal latino “re-cordor” e significa “richiamare al cuore”: è quindi un termine attinente a un diverso campo semantico, quello dei sentimenti più che della ragione, ed è decisamente più individualistico e più soggettivo; implica inoltre una sorta di filtro (conscio o inconscio?), in base al quale alcune esperienze del passato rimangono vividamente impresse o riaffiorano quando meno ce l’aspettiamo, o se le rievochiamo per trarne conforto.
Ci sono memorie importanti del passato che non sono funeste e ci sono ricordi teneri e dolci: quel che è vivo in loro si fa tradizione. Salviamo i ricordi e la memoria dall’identificazione con l’Orrore. Altrimenti verrà solo voglia di cancellare il passato.
La decisione del Senato polacco nel 2018 di approvare una legge con cui si può condannare fino a tre anni di prigione chi attribuisce allo Stato polacco una qualche corresponsabilità per l’Olocausto o neghi i crimini compiuti durante la guerra contro i polacchi da parte dei nazionalisti ucraini, sorprende fino a un certo punto.
Oggi le leggi volute da Victor Orban per marginalizzare i diritti delle persone con diverso e molteplice orientamento sessuale. Ora in Ungheria sarà per esempio possibile vietare campagne pubblicitarie in favore delle comunità Lgbtq+, o di sensibilizzazione su temi come la ri-assegnazione di genere e l’omosessualità, programmi televisivi e altri contenuti simili, a scuola e nei contesti pubblici frequentati dai minori di 18 anni. Un tema di cui ho scritto su queste pagine.
In generale, le nuove disposizioni sembrano avere un ampio margine di discrezionalità, quindi non è ancora possibile stabilire con precisione quali saranno le conseguenze concrete in Ungheria sui temi legati ai diritti Lgbtq+. Resta il fatto che si profilo un nuovo scontro tra i due più importanti paesi cosiddetti del “gruppo di Visegrad” e l’Unione Europea ed è da tempo nella nostra Europa e in Italia un “certo vento” è tornato a soffiare, anche a causa della continua delegittimazione della politica, dei sospetti su sindacati, associazioni e Ong, dell’indebolimento delle istituzioni, dell’uso di parole razziste, della costruzione di muri più o meno materiali. Sono tutti elementi che minacciano la democrazia e fanno rinascere certi ricordi.
Winfried Georg Sebald è stato più volte annoverato da eminenti critici letterari fra i più grandi saggisti e prosatori contemporanei, prima della sua improvvisa e tragica morte, avvenuta in un incidente stradale, in molti lo avevano individuato come possibile vincitore del Premio Nobel per la letteratura.
Nato nel 1944e cresciuto in Baviera, dal 1948 al 1963 visse a Sonthofen. Suo padre, Georg Sebald, si arruolò nel 1929 nella Reichswehr e rimase nella Wehrmacht sotto i nazisti. Figura scostante nella vita dell’autore, fu prigioniero di guerra fino al 1947; il nonno rimase la presenza più importante degli anni giovanili. A Sebald furono mostrate immagini dell’Olocausto mentre era a scuola a Oberstdorf e narrò come nessuno dei suoi compagni seppe spiegare tali immagini.
Olocausto e Germania del dopoguerra gravitano pesantemente nelle opere di Sebald. Studiò letteratura nelle Università di Friburgo in Germania e di Manchester e nel 1987 fu nominato titolare della Cattedra di Letteratura Europea alla University of Est Anglia e nel 1989 fondò il British Centre for Literary Translation, divenendone anche direttore. In quel periodo visse principalmente a Wymondham e Poringland. Sposatosi con Ute nel 1967, Sebald morì in un incidente stradale nel 2001 forse a causa di un infarto improvviso. È sepolto nel cimitero di St. Andrew a Framingham Earl.
Le opere di Sebald si concentrano soprattutto sul tema della memoria e dei ricordi, specie quelli personali e collettivi. Sono principalmente un tentativo di riconciliare se stesso – in termini sia personali sia letterari – con il trauma della Seconda guerra mondiale e i suoi effetti sul popolo tedesco.
Le sue profonde preoccupazioni in merito all’Olocausto vengono espresse in diversi scritti, che tracciano le sue connessioni biografiche con gli ebrei. Le sue opere sono scritte in tedesco, ma tradotte in diverse lingue, tra le quali l’inglese che lui stesso controllava attentamente insieme ai relativi traduttori, tra cui si annoveravano Anthea Bell e Michael Hulse. Tra le opere principali si segnalano “Austerlitz”, “Gli anelli di Saturno”, “Gli emigrati” e “Vertigini”. Tali scritti sono una combinazione curiosa di fatti (o fatti apparenti), memorie e fantasia, spesso corredati di fotografie in bianco e nero che vengono a fungere da contrappunto alla narrativa, piuttosto che illustrarla direttamente.
W.G. Sebald è uno degli autori poco conosciuto al pubblico dei lettori. Il tema della memoria gli appartiene come la storia che racconta tra parole e immagini, e le sue profonde riflessioni filosofiche. “Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra” ripubblicato da Adelphi nel 2011, è un diario di un viaggio che prende spunto dai pellegrinaggi in Inghilterra che l’autore intraprese nell’agosto del 1992, nel mese dominato dall’influenza di Saturno, lungo le strade delle contee di Suffolk e di Norfok nell’East Anglia. Un seguito ideale ad un altro diario di viaggio, “Tempo di regali” compiuto a piedi dal suo compatriota acquisito, l’inglese Patrick Leigh Fermor, che attraversò l’Europa negli anni ’30 mentre si profilava l’ascesa del nazismo ?
Sebald ha raccolto nel proprio testo i racconti, gli appunti e le note di incontri e luoghi pieni di storia, in un ricordo immutato dei giorni passati a vagabondare, nella splendida libertà di movimento che non l’aveva mai abbandonato.
“Nell’agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro impegnativo.”
Nel libro, che non è un saggio né un romanzo, le prime pagine sono dedicate a Thomas Browne, l’anatomista ed erudito del XVII secolo, studioso d’antichità che nel Norfolk studiava i segreti del corpo umano e che ispirò il dipinto di Rembrandt “Lezioni di anatomia del dottor Tulp” che ho potuto ammirare al al Mauritshuis dell’Aia.
Poi Somerleyton che come gran parte delle residenze delle nobiltà di campagna sono aperte al pubblico solo durante i mesi estivi. La meraviglia della tenuta con il palazzo orientale uscito da un libro di fiabe e con il grande viale dove si disegnano le ombre dei cedri del Libano e delle sequoie di settanta metri di altezza sono viste attraverso le opere di Jorge Luis Borges che maggiormente hanno influenzato Sebald, specialmente “Il giardino dei sentieri che si biforcano” e Sebald fa riferimento a Tlön
Poi la compagnia dell’amico Michael, traduttore di Holderlin, cinquantenne scapolo, esule in Inghilterra che abita in una piccola casa di Portersfield Road, compagno di letture, amante nel viaggiare a piedi come Sebald.
Ma è in “Austerlitz” che piena immersione in una ricerca del tempo, del passato. Sarà un caso, ma il luogo in cui il narratore incontra per la prima volta il protagonista del romanzo, che scopriremo poi chiamarsi Jacques Austerlitz, è la Salle des pas perdus, la Sala dei passi perduti, nella stazione di Anversa nel 1967. Un collegamento che fa subito pensare a Marcel Proust ai meccanismi con cui funziona la memoria intesa come strumento di ricerca che a volte aiuta, spesso involontariamente, a scoprire l’identità e a riappropriarsi della realtà e del tempo.
Non è dato sapere se Sebald abbia mai pensato a Proust, certo è che la storia di Austerlitz (uomo che solo a 50 anni ricorda della sua infanzia a Praga, del fatto di essere ebreo, di chi fossero i suoi veri genitori, della sua lingua madre, il ceco) è un viaggio nel tempo e nella memoria. Un viaggio disperato, difficile, tormentato. Un viaggio che diventa esso stesso il significato della vita di Austerlitz alle prese con quella memoria involontaria che in un attimo riporta a galla momenti, volti, profumi, istanti della vita finiti chissà dove per chissà quanto tempo.
E riporta il passato nel presente, violentemente e senza chiedere permesso. Anzi il passato diventa presente nel momento in cui la sua conoscenza ci rende un’entità nuova. E si proietta nel futuro, laddove le scelte di vita saranno ad esso condizionate.
In “Vertigin” Sebald desidererebbe essere di qualsiasi altra nazionalità ma non tedesca, o addirittura senza nazionalità alcuna – per poi scoprire che non può uscire dall’Italia perché l’albergatore ha dato erroneamente il suo passaporto ad altra persona. Un contrattempo che ricorda quello di Gustav von Aschnbach in “Morte a Venezia” di Thomas Mann. Ritornato a Milano, sale sulle punte vertiginose del Duomo e si sente pervadere da un minaccioso riflesso di tenebre. Dove andare, sembra chiedere il testo, quando essere ciò che si è diventa insopportabile?
Nella parte finale, intitolata “Il Ritorno in Patria” Sebald rivisita la sua città natale in Germania, ed inizia a tirarsi fuori dalla tomba kafkiana di morto-vivente, dall’amnesia che la negazione post-bellica del passato tedesco ha prodotto persino in lui stesso. Nell’album materno di foto, l’autore trova la fotografia di una zingara, che sorride dietro a filo spinato. Qui il peso della memoria diventa asfissiante, mentre il lettore comprende che questa è una delle tante cartoline che il padre inviava da soldato durante l’invasione tedesca della Polonia.
Come Primo Levi, Sebald era ossessionato dal ricordo dell’Olocausto e soverchiato con maggior peso dal complesso di colpa collettivo che ha gravato su più di una generazione di tedeschi. Ciò lo conduce a diffondersi in più passi sull’ambiente familiare, piccolo borghese e retrivo, sul silenzio dei genitori e di tutti tedeschi rispetto ai crimini nazisti, sulla compromissione col nazismo di ampie parti dell’Accademia tedesca, che lo avevano indotto ad abbandonare l’Università di Friburgo in Brisgovia e a completare gli studi di germanistica in Svizzera per poi trasferirsi, appena ventiduenne, in Inghilterra, e ricorda quindi l’impressione sconvolgente riportata dai giovani della sua generazione di fronte al Processo di Auschwitz che si tenne a Francoforte nei primi anni Sessanta.
Un breve viaggio a Monaco nella prima infanzia mise Sebald dinanzi allo spettacolo desolante della città ancora in macerie: un’immagine spettrale che si depositerà un’immagine spettrale che si depositerà nella memoria del futuro scrittore, dando l’avvio a una reiterata e appassionata riflessione sui bombardamenti delle città tedesche (culminata nel celebre e controverso “Luftkrieg und Literatur” del 1999), la cui devastazione si ergerà nel pensiero di Sebald a paradigma esemplare di quel processo universale di distruzione e riduzione in polvere cui tutto il cosmo è fatalmente destinato. Non meno problematico del rapporto con la patria è il rapporto spirituale e culturale che lega Sebald con la letteratura tedesca del secondo dopoguerra, di cui affiorano in queste pagine pochi nomi e scarsi riferimenti: nella conversazione con Michael Silverblatt, Sebald riconosce come predominante l’influsso della prosa “radicale” di Thomas Bernhard, e della sua “forma periscopica di letteratura”, in cui si accavallano diverse istanze narrative, cita più volte l’esempio morale di Jean Améry, menziona in modo elogiativo ma cursorio Wolfgang Hildesheimer e Peter Weiss, deplora i tentativi effettuati negli anni Sessanta-Settanta di raccontare biografie ebraiche da parte di scrittori tedeschi non ebrei; il riferimento, implicito ma evidente, è a Ephraim di Alfred Andersch, con cui Sebald innescò una aspra controversia ma non si diffonde ulteriormente.
Ancora una volta, sorprende in un autore germanista di formazione e scrittore così sensibile alle tematiche della “colpa tedesca”, nonché propugnatore di una feconda commistione di finzione e documento, l’assenza di qualsivoglia riferimento ai grandi scrittori di lingua tedesca del dopoguerra che hanno affrontato il doloroso passato nazionale, innovando le modalità narrative e proponendo un originale intreccio tra piccola e grande Storia, tra biografie individuali e tragedie epocali, da Böll a Grass, da Christa Wolf sino a Uwe Johnson.
Né traspare da queste interviste alcun influsso sul versante della produzione poetica. Alla domanda esplicita di Michael Silverblatt, che chiede ragguagli circa un’eventuale influenza da parte di poeti tedeschi, Sebald nega recisamente ogni influenza; la risposta è sorprendente, se si considera che il poema Secondo natura (1988), che costituì peraltro la prima pubblicazione letteraria di Sebald, mostra, nella impostazione e nel dettato poetico, innegabili influssi della lirica di Hans Magnus Enzensberger, che, del resto, pubblicò il libro di Sebald nella collana da lui diretta, “Die andere Bibliothek”.
Eppure tutta la “scenografia” di “Austerlitz” pubblicato postumo nel 2001– paesaggi industriali in rovina, lugubri stazioni, giganteschi ospedali, carceri labirintiche, enormi fortezze, edifici visionari, imponenti orologi che scandiscono il tempo del lavoro e dunque del progresso tecnico, insomma tutte le inquietanti architetture dell’ “epoca capitalista”– sembra mutuata dalle ballate di “Mausoleum” di Enzensberger, con cui Sebald ha decisivi punti di tangenza, derivanti, in buona sostanza, dalla condivisione della critica al culto del progresso e alla concezione lineare e teleologica della Storia, che entrambi ereditano dalla lezione di Walter Benjamin e dalla Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno.
Il protagonista di “Austerlitz” a un certo punto, come se si trattasse di intraprendere una delle usuali peregrinazioni erudite alla ricerca di un edificio o di un luogo ignorato, si mette alla ricerca delle proprie tracce. Così scoprirà di essere giunto a Londra, durante la guerra, con uno di quei convogli di bambini che dall’Europa centrale partivano per l’Inghilterra, mentre i genitori venivano deportati nei campi di concentramento e di sterminio. Strada per strada (a Praga, Theresienstadt, Parigi), volto per volto, oggetto per oggetto, fotografia per fotografia, emerge un passato lacerante, che Austerlitz sente di avere sempre ospitato in sé come una sequenza di negativi non ancora sviluppati. Tutta la somma sapienza evocativa di Sebald sembra concentrarsi in questo itinerario di ricerca, da cui promana un’angoscia che prende alla gola.
Come ha notato .Paola Quadrelli: “L’estraneità rispetto ai tempi presenti, la noncuranza della sociologia e della politica, la concezione della Storia come movimento ciclico, privo di un telos e di un senso, rendono i personaggi di Sebald figure adelphianamente “post-storiche”; il giudizio con cui Roberto Calasso commentava il concetto di Storia in Oswald Spengler, filosofo peraltro decisivo nell’elaborazione della “post-Storia” si attaglia perfettamente anche all’allucinato Austerlitz sebaldiano: “La Storia diventa con lui ciò che proprio l’aborrito mondo moderno vuole che sia: il magazzino di un trovarobe, una smisurata fantasmagoria, un’incessante allucinazione che perseguita l’uomo perduto nell’età del tramonto”
Una distorsione visuale da cui soltanto il ricordo può redimere, restituendo legittimità alla memoria e che il germanista Michele Cometa, rifacendosi alla “finestra” di Leon Battista Alberti che definì nella pittura il rapporto tra cornice, quadro e realtà, ha così sintetizzato in “Forme e retoriche del contesto letterario”: “Il setting è quello classico dell’immobilità forzata in una camera d’ospedale che costringe il protagonista de “Gli anelli di Saturno” a osservare le nuvole attraverso una buia finestra, vivendo l’esperienza di uno straniamento non più in grado di restituire un’immagine credibile.
La visione è del tutto insoddisfacente e il vero senso del racconto non viene da essa ma dal fatto che il protagonista rivedendo i propri appunti e descrivendo la finestra decide di affidarsi ai ricordi poichè il dispositivo ottico non garantisce altro che “una città sprofondata nell’oscurità; per Sebald «la differenza decisiva tra il metodo dello scrittore e la tecnica del fotografare, desiderosa di fare esperienza quanto di fuggirla, sta nel fatto che la descrizione stimola la memoria, mentre il fotografare stimola l’oblio»”
Nell’epoca in cui fotografare – e fotografarsi – sembra assolvere dall’obbligo e dalla fatica della memoria, la poetica di Sebald da letteratura si fa pedagogia e monito circa la superficialità che tanto preferiamo al rischio del dolore sempre intimamente connesso, come in una lucida autopsia di se stessi, alla scelta di ricordare.