Secondo lo studio “Is green growth happening? An empirical analysis of achieved versus Paris-compliant CO2–GDP decoupling in high-income countries”, pubblicato su The Lancet Planetary Health da Jefim Vogel del Sustainability Research Institute dell’università di Leeds e da Jason Hickel, dell’Universitat Autònoma de Barcelona, “Le riduzioni delle emissioni negli 11 Paesi ad alto reddito che hanno “disaccoppiato” le emissioni di CO2 dal prodotto interno lordo (PIL) sono ben al di sotto delle riduzioni necessarie per limitare il riscaldamento globale a 1,5° C o anche solo a “ben al di sotto di 2°C” e per rispettare i principi di equità internazionale, come richiesto dall’Accordo di Parigi”.
La tesi dei due ricercatori si basa sul confronto tra la riduzione delle emissioni di carbonio nei Paesi sviluppati e quanto previsto in base agli Accordi di Parigi del 2016. Lo studio parte dai dati di 11 Paesi ad alto reddito (Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito) che, tra il 2013 e il 2019, avrebbero raggiunto il “disaccoppiamento assoluto” ovvero la diminuzione delle emissioni di CO2 e contemporaneamente l’aumento del PIL. “Non c’è nulla di verde nella crescita economica nei Paesi ad alto reddito. È una ricetta per il collasso climatico e un’ulteriore ingiustizia climatica. Chiamare “crescita verde” queste riduzioni fortemente insufficienti delle emissioni è fuorviante, si tratta essenzialmente di greenwashing. Affinché la crescita possa essere legittimamente considerata “verde”, deve essere coerente con gli obiettivi climatici e i principi di equità dell’Accordo di Parigi, ma i Paesi ad alto reddito non hanno ottenuto nulla di simile, ed è altamente improbabile che lo raggiungano in futuro. La continua crescita economica nei Paesi ad alto reddito è in contrasto con il duplice obiettivo di evitare un catastrofico collasso climatico e di sostenere principi di equità che proteggano le prospettive di sviluppo nei Paesi a basso reddito. In altre parole, un’ulteriore crescita economica nei Paesi ad alto reddito è dannosa, pericolosa e ingiusta”, sono state le conclusioni dei ricercatori.
Secondo gli autori dello studio: “Nessuno dei Paesi ad alto reddito che hanno “disaccoppiato” le emissioni dalla crescita è riuscito a ottenere riduzioni delle emissioni abbastanza velocemente da conformarsi all’Accordo Parigi. Ai ritmi attuali, questi paesi impiegherebbero in media più di 200 anni per portare le loro emissioni vicine allo zero, ed emetterebbero più di 27 volte la loro giusta quota del bilancio globale di carbonio per 1,5°C”.
La situazione non è molto diversa per gli “altri” Paesi dell’UE. Primo fra tutti l’Italia. Secondo i dati basati sull’analisi degli scambi dei prodotti con codice doganale 27160000 Energia elettrica, l’Italia sarebbe al primo posto nel mondo per importazioni di energia elettrica (dopo l’UE nel suo insieme). Nel 2021, le importazioni di elettricità in Italia avrebbero rappresentato il 9,9% delle importazioni globali (espresse in dollari USA) di energia elettrica. Una percentuale enorme. Prima in assoluto in Europa (la quota complessiva dei 28 Paesi europei è stata del 71%). E come se non bastasse, in aumento. Sia in rapporto agli altri Paesi che in assoluto: dal 2020 al 2021 le importazioni globali di elettricità sono cresciute di 2,2 volte; nello stesso periodo l’Italia ha mostrato un aumento di 3,57 volte. In altre parole, tolta l’UE nel suo insieme, l’Italia sarebbe il primo importatore al mondo di energia elettrica. Più della Germania (al secondo posto). Molto più di Paesi come la Francia o il Regno Unito e perfino di Paesi con un numero di abitanti ben maggiore come gli Stati Uniti d’America o la Cina o la Russia. Il confronto con questi Paesi lascia a bocca aperta. L’Italia avrebbe importato energia elettrica per quasi il triplo del valore delle importazioni degli USA (6.4 miliardi di dollari contro 2,6 degli USA). Trenta volte il valore delle importazioni della Cina (che avrebbe importato poco più di 280 milioni di dollari di energia elettrica). E infinitamente di più della Russia (che avrebbe importato poco più di 25 milioni di dollari di energia elettrica).
Altro aspetto non secondario, ai primi posti della classifica dei maggiori importatori di energia elettrica, dopo l’UE nel suo insieme e Italia e Germania già citati, ci sono praticamente tutti i Paesi europei. Francia, Regno Unito, Ungheria, Spagna, Austria, Finlandia, Belgio, Danimarca e così via a scendere.
Che fine ha fatto il New Green Deal tanto sbandierato dalla presidente della Commissione Europea? Che fine hanno fatto le promesse di ridurre i consumi e le emissioni di CO2? Già perché se in Europa pare esserci ancora qualche blando tentativo di fare ricorso a fonti energetiche meno inquinanti per produrre energia elettrica, oltre i confini comunitari, ovvero dove compriamo energia elettrica, tutto questo non esiste. Secondo i dati dell’IAE la principale risorsa per la produzione di energia elettrica rimane il gas naturale (che – bene ricordarlo – è pur sempre un combustibile fossile). Anche il carbone è molto diffuso. Più di quanto si vorrebbe far credere: nonostante i progressi degli ultimi anni resta la terza fonte di energia per produrre elettricità.
La realtà che emerge da questi numeri (dei quali – stranamente – i media non hanno parlato) è che i Paesi ricchi sono molto indietro rispetto alle promesse di ridurre le emissioni per rimanere entro la quota di 1,5°C di aumento delle temperature medie. Per raggiungere quell’obiettivo, Paesi come Belgio, Austria o Germania dovrebbero ridurre le loro emissioni 30 volte più velocemente di quanto hanno fatto tra il 2013 e il 2019.
Per questo motivo, la conclusione di Vogel e Hickel è che “I tentativi di perseguire una “crescita verde” nei Paesi ad alto reddito non porteranno alle riduzioni delle emissioni necessarie per raggiungere gli obiettivi climatici e i principi di equità dell’Accordo di Parigi”. Per ottenere risultati concreti dovrebbero essere adottate misure ben più drastiche. La prima dovrebbe essere abbandonare la crescita economica come obiettivo principale (torna in mente la “decrescita felice” di Maurizio Pallante). E poi ridurre le forme di produzione e consumismo non necessarie e ad alta intensità di emissioni di carbonio (tra gli esempi citati dai ricercatori i viaggi aerei, il consumo esagerato di carne e latticini industriali, le crociere, i jet privati e molti altri). Sarebbe importante anche promuovere l’isolamento termico degli edifici e la riconversione degli edifici per ridurre al minimo le nuove costruzioni. Fondamentale anche evitare gli sprechi alimentari e passare a tecniche agricole agro ecologiche. E poi introdurre leggi per allungare la durata di vita dei prodotti e garantire il diritto alla riparazione. In poche parole, fare tutto il contrario di quello che si fa oggi, dove a comandare sono il consumismo e gli sprechi. E dove dei danni prodotti all’ambiente importa solo quando si fanno conferenze con la bambina ambientalista di turno. Quella bambina è ormai cresciuta e di ambiente si parla molto meno. La gente non crede più alle sue promesse. E nemmeno a quelle della maggior parte dei politici. Resta solo da capire quanto ci vorrà perché capisca che la crescita economica a tutti i costi, il consumismo non sono più una strada percorribile. È necessario parlare di post-crescita. La prova che la strada dovrebbe essere questa è sotto gli occhi di tutti: “A differenza dei Paesi ad alto reddito, le nazioni a basso reddito hanno emissioni pro capite inferiori, il che rende più fattibile per loro rimanere entro le quote eque del budget di carbonio, anche aumentando la produzione e il consumo per obiettivi di sviluppo umano”, hanno dichiarato gli autori dello studio.
Il problema è farlo capire ai consumatori e soprattutto alle multinazionali.