Esistono pezzi di storia di cui non si parla mai. Fatti storici finiti nel dimenticatoio. Uno di questi è la legge Pica.
Poco dopo l’unione” dell’Italia, erano molti i malcontenti. E come sempre in questi casi erano molti i disordini politici e sociali, segno di uno sgretolamento dell’amministrazione sociale (in realtà mai solida). Venivano a galla culture diverse e contrastanti. In realtà l’Italia non era mai stata “unita”: la divisione tra Nord e Sud era evidente sotto tutti i punti di vista, culturale, sociale, ma soprattutto economico. Per questo motivo, già nel 1862, il governo aveva deciso di esercitare forti pressioni sulle province meridionali. Il motivo ufficiale era arrestare l’attività insurrezionale, ma l’obiettivo era impoverire il territorio a cominciare dal comparto rurale (impedendo la migrazione stagionale delle greggi e con la sorveglianza militare dei pastori e del bestiame nelle masserie).
Questa pressione favorì il diffondersi, nel Meridione d’Italia, della figura del “brigante sociale”, quasi una sorta rivoluzionario legittimista, da molti visto come una sorta di Robin Hood meridionale, difensore e protettore dei poveri contro lo Stato oppressore. Ma il fenomeno del brigantaggio fu molto più complesso di quanto si pensasse. Il suo legame con il modo di gestire la “nuova” Italia era difficile da spezzare. Era un problema impossibile da arginare con i mezzi ordinari. Proprio per questo motivo, per un risolvere la “questione meridionale” sedando il malcontento popolare e l’astio dopo l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, il senatore, Luigi Federico Menabrea, suggerì una mossa strategica e pacifica: stanziare 20 milioni di Lire per realizzare opere pubbliche nel Sud d’Italia (sembra quasi di sentire parlare del ponte sullo stretto di Messina o della ferrovia ad alta velocità in Sicilia). La sua proposta non ebbe seguito. Il Parlamento preferì agire diversamente: ad Agosto del 1863, approvò la legge 1409 proposta da Giuseppe Pica.
La nuova norma (promulgata il 15 Agosto) prevedeva l’invio dell’esercito (“contingente di pacificazione”) e l’uso del pugno di ferro in tutte le province meridionali (ad eccezione di Napoli, Teramo e Reggio Calabria) con il passaggio di tutti i poteri civili ai tribunali militari, la sospensione delle libertà costituzionali, la deportazione e il domicilio coatto per briganti e manutengoli. Coloro i quali venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza troppe formalità. Le pene andavano dalla fucilazione, ai lavori forzati a vita, ad anni di carcere. La legge prevedeva anche i “pentiti”: chi si fosse consegnato o avesse collaborato con la giustizia avrebbe avuto uno sconto di pena. Per la prima volta nella legge Pica apparve il reato di camorrismo e il “domicilio coatto”.
Il tutto prevedeva di operare in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto Albertino (la “legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della monarchia sabauda”) appena varato, proprio quello che avrebbe dovuto garantire il principio di uguaglianza di tutti i sudditi italiani. La nuova legge faceva esattamente l’opposto: divideva l’Italia appena unita in due aree ben distinte, Nord e Sud. Ma non basta. La legge Pica avrebbe dovuto avere una durata limitata, cinque mesi, invece venne più volte prorogata per anni, fino al 31 dicembre 1865.
Alla fine dell’estate del 1863, la legge Pica venne estesa anche alla Sicilia, sulla carta oltre che per combattere il brigantaggio, anche per ridurre la renitenza alla leva.
In breve, in tutto il Meridione dell’Italia “unita”, si diffuse un clima di terrore che divenne oggetto di discussione in Parlamento: molti deputati espressero il proprio disaccordo nei confronti della gestione militare e della “severità estrema delle pene erogate”.
A Dicembre del 1863, un deputato siciliano, Vito d’Ondes Reggio presentò un’interpellanza parlamentare nella quale chiedeva spiegazioni in merito al modus operandi del governo che somigliava ad una “profilassi di tipo colonialista”: “Dunque, volete sotto il Governo d’uno Statuto, introdurre tribunali non solo straordinari, ma mostruosi, perché mostruosi son quelli, nei quali negasi la difesa all’imputato, al calunniato, all’innocente” dichiarò d’Ondes Reggio in Parlamento.
Lo stesso aveva fatto pochi mesi prima il senatore Giuseppe Ferrari: “Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi”. Nessuno rispose alle loro interpellanze. Anzi, al contrario, il Parlamento decise di prorogare la legge ben oltre la durata prevista.
In breve, emersero abusi in quella che avrebbe dovuto essere la lotta contro il brigantaggio: tantissimi gli arresti e le esecuzioni, spesso anche senza prove. E decine e decine furono i morti in combattimento, altrettanti i fucilati. Molti di più gli arrestati.
Sotto il profilo giuridico, la legge Pica venne subito accusata di incostituzionalità: non solo prevedeva la sospensione dei diritti costituzionali appena introdotti, ma introduceva il concetto di “responsabilità collettiva”, ovvero potevano essere adottate misure punitive collettive per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi. Per questo, il senatore Ubaldino Peruzzi definì questa legge “la negazione di ogni libertà politica”.
Vincenzo Padula che, nel 1864, scrisse: “Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti”.
I risultati ottenuti dopo l’entrata in vigore della legge Pica furono decisamente scarsi. Forse anche perché la nuova norma aveva sconvolto equilibri e alleanze politico-sociali che esistevano da molti decenni. Servì solo ad accentuare il divario economico, sociale, culturale e soprattutto politico tra Nord invasore e Sud invaso della nuova Italia “unita”. Un divario i cui segni sono visibili ancora oggi a chi sa osservare bene.
Ma non basta. Per tutto il periodo in cui fu in vigore la legge Pica, nelle province meridionali valse la censura militare “che copriva di fatto le operazioni sporche di tipo coloniale”. I giornalisti, sia italiani che stranieri, e perfino i parlamentari non potevano circolare nei territori oggetto delle operazioni militari. I corrispondenti dei giornali potevano inoltrare alle proprie redazioni solo quanto “lasciato filtrare dalle autorità militari”.
É passato oltre un secolo e mezzo. E a sfogliare i giornali sembra quasi di vedere, tra le righe non scritte, una nuova forma di censura. La “legge Pica” è caduta nel dimenticatoio. E nessuno parla dei danni che ha causato. Anche in occasione del suo anniversario, sembra che tutti abbiano cancellato gli effetti di questa legge. E i danni che causò all’Italia “unita”.