I primi migranti prelevati in mare sono stati trasferiti nei centri d’accoglienza costruiti (e gestiti) in Albania con i soldi dei contribuenti italiani. Mentre alcuni paesi UE, sempre più incapaci di gestire i flussi migratori, pensano di “importare” questo “sistema innovativo”, forse il primo passo da compiere sarebbe fare quattro conti sul progetto fortemente voluto dal governo Meloni. Anzi una vera e propria analisi “costi/benefici”.
Cominciamo con i costi. Secondo i dati 2024/28 del Protocollo Italia-Albania, appalti della prefettura di Roma, costruire le strutture (che alcuni hanno definito “lager”) sarebbe costato circa 160 milioni di euro. A questi se ne devono aggiungere altri 133 per la gestione dei centri nel periodo indicato. E una sessantina per le trasferte di avvocati (e altro). Ci sono poi i costi per il trasporto di questi migranti: per i primi 16 migranti prelevati in mare è stata utilizzata una nave militare il cui costo è esorbitante. Complessivamente si calcola che, nel periodo considerato, i costi per le navi saranno di circa 100 milioni di euro. Ma la voce di spesa più elevata è quella relativa al personale in missione in Albania: i documenti parlano di 300 milioni di euro (tra militari e altro personale). Complessivamente quasi 800 (783) milioni di euro per la gestione delle due strutture, una a Schengjin e l’altra a Gjiader.
Tutto questo per accogliere un numero di migranti ancora imprecisato. Già nei giorni scorsi è apparsa evidente la difficoltà nello stimare il numero dei migranti che potranno essere trasferiti in Albania. Dei sedici migranti prelevati in mare e portati nei nuovi centri di accoglienza, quattro (ovvero un quarto) sono già stati trasferiti in Italia: due si sono dichiarati minorenni e due hanno dichiarato di provenienti da paesi nei quali non è possibile il rimpatrio. Per i minorenni la legge prevede che possono essere trasferiti in centri come questi (in origine, c’era stata una mezza idea di portare in questi centri anche i minori sopra i sedici anni, ma è stata immediatamente bocciata). Per gli altri, il problema deriva dal fatto che i rimpatri possono avvenire solo in alcuni paesi ritenuti “sicuri”.
Da tempo si parla di paesi “sicuri”. La definizione di “paese sicuro” è contenuta in una direttiva europea del 2013, che chiarisce le procedure da seguire per esaminare le domande di protezione internazionale presentate dai migranti che arrivano in un paese dell’Unione Europea. Secondo questa direttiva, un paese può essere considerato “sicuro” se “sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
In Italia, ogni anno viene emanato un decreto nel quale sono indicati i paesi di origine “sicuri”. L’ultimo decreto, emanato il 7 maggio scorso, indica come paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.
Premesso che in questo elenco si trovano paesi dove sono in corso gravi scontri (si pensi all’Egitto: basti pensare che il numero dei minori stranieri non accompagnati attualmente presenti in Italia vengono proprio da questo paese), non si spiega come mai in questo elenco non compaiano molti altri paesi. A cominciare dagli Stati Uniti d’America (forse gli USA non sono un paese “sicuro” per rimpatriare i migranti abusivi che dovessero arrivare in Italia?). O il Canada. O l’Australia, tanto per citarne alcuni.
Ma non basta. Con l’ultimo decreto, il novero dei paesi “sicuri” è stato ampliato. Il motivo, forse, è da ricercare nel fatto che la richiesta di asilo di una persona che proviene da uno di questi paesi segue una procedura “accelerata”. Mentre la procedura ordinaria prevede che debba essere la commissione che giudica la richiesta di asilo a farsi carico dell’onere di valutare le condizioni, nel caso di un richiedente asilo proveniente da un paese “sicuro” è a lui che spetterebbe l’onere di produrre le prove che spieghino perché dovrebbe essere accolto come rifugiato.
Tutto questo non solo non risolve il problema, ma ne crea un altro. E non da poco: in base alla direttiva europea, pare che ogni Stato membro dell’Unione Europea possa creare una propria lista di paesi (la Germania, ad esempio, ha una lista che comprende 9 paesi; la Spagna non ha alcuna lista). Il rischio è gestire in modo diverso, all’interno dell’UE, richieste di accoglienza che arrivano da persone che provengono dallo stesso paese.
Non è questa l’unica disparità di trattamento che potrebbe far pensare che tutto questo sistema viola i diritti umani. Un altra criticità deriva dall’aver riservato l’ “ospitalità” in Albania solo ai migranti di sesso maschile (e in salute). Questo, potrebbe far considerare “sessista” questo modo di operare oltre che inspiegabile dal punto di vista del diritto internazionale (e nazionale: che fine hanno fatto le lotte per la parità dei sessi? Perché nessuna associazione per i diritti delle donne non ha chiesto che anche le donne migranti devono poter essere ospitate in Albania?). Lo stesso dicasi per un altro aspetto, tutt’altro che secondario. Tutto il sistema pensato per ospitare in Albania queste persone servirebbe solo per i migranti che arrivano via mare. Ma anche questo costituisce una grave disparità di trattamento rispetto all’accoglienza riservata a quelli che arrivano via terra (magari provenienti dallo stesso paese d’origine).
L’aspetto più sorprendente, però, è un altro: tutto questo, potrebbe non servire a molto. Secondo le stime dello stesso governo (confrontate con i numeri dell’UNHCR e di Eurostat), la percentuale di migranti diretti in Italia che potrebbero essere rimpatriati dopo essere stati portati in questi “centri di accoglienza” è bassissima, intorno al due per cento (!). Il venti per cento, pur essendo “candidabili”, non verrebbero rimpatriati (per vari motivi). E l’ottanta per cento dei migranti che arrivano in Italia non potrebbero nemmeno essere trasferiti in Albania.
Tutto questo fa pensare che, anche a regime, il rapporto costi/benefici di tutta questa macchina potrebbe essere inaccettabile non solo dal punto di vista “umano” ma anche sotto il profilo economico.
Da anni, l’UE spende montagne di fondi pubblici per cercare di arginare i flussi migratori (salvo poi precipitarsi alla ricerca di manodopera a basso costo con misure come il Decreto Flussi). Ma finora i risultati ottenuti sono stati deludenti. Dal 2013 al 2022, in Italia gli ordini di espulsione non eseguiti sono stati più di 180mila. Lo stesso dicasi per la Francia dove, nel 2022, sono stati eseguiti solo il 6,9 per cento degli ordini di espulsione. E in Germania, a fronte di 54mila migranti ritenuti da rimpatriare, solo 8mila sono stati rimpatriati; in compenso, 140mila sono state le espulsioni “non eseguibili” e, addirittura, per 95mila migranti non è stato possibile risalire alla nazionalità dei soggetti!).
A questo punto, la domanda che sorge spontanea è una sola: ma davvero c’era bisogno di buttare quasi ottocento milioni per un progetto pilota per l’ “accoglienza” dei migranti prelevati in mare che fa acqua da tutte le parti? Un sistema attaccabile legalmente anche per un altro motivo: la maggior parte dei migranti che arrivano via mare, vengono “salvati” in mare. Quindi potrebbero essere considerati naufraghi. E le regole del diritto marittimo internazionale sono altre….