Fin dalle prime notizie dell’intervento europeo di settecentocinquanta miliardi di euro finalizzato a finanziare la ripresa post pandemia, si sono susseguiti i richiami al piano statunitense European Recovery Program (ERP) che nel secondo dopoguerra contribuì in modo determinante alla rinascita dei paesi occidentali coinvolti dal conflitto e ridotti tutti, più o meno, al medesimo livello di precarietà. Ad essi si aggiunsero Irlanda, Svizzera, Portogallo e Turchia che ne erano rimasti fuori e l’ Islanda che, nonostante la dichiarata neutralità, aveva agito un ruolo strategico decisivo per gli Alleati.
L’intervento statunitense durò dal 1947 al 1951; i paesi che ricevettero le quote più cospicue, superando i mille milioni di dollari furono il Regno Unito (3297 mln) la Francia (2296 mln) l’Italia (1204 mln) i Paesi Bassi (1128 mln). Il Piano, anch’esso un Recovery Fund, è passato poi alla storia con il nome del generale George Marshall, Capo di Stato Maggiore durante la guerra, uomo di fiducia di Franklin Delano Roosevelt e Segretario di Stato nell’amministrazione di Harry Truman; nel 1953 gli fu conferito il Premio Nobel per la Pace. Ci sono generali che danno il meglio di sé anche in tempo di pace, guadagnandosi la gratitudine del proprio paese e non solo.
E’ noto che insieme agli aiuti economici, il Piano introdusse in Europa anche significative trasformazioni della cultura industriale e di massa, nuove tipologie di consumi e stili manageriali che contribuirono al passaggio dell’Italia dal padronato tradizionale a più efficaci modelli d’impresa, a quel tempo riconducibili al post Fordismo.
Il Piano fu molte cose, ma il suo valore materiale derivava sostanzialmente da due fattori. Anzitutto il suo importo – circa 13,2 miliardi di dollari, pari all’1,1% del Pil americano e al 2,7 dei 16 Paesi riceventi – era finanziato con i soldi dei cittadini statunitensi, i quali furono spinti ad accettarlo sulla base di una campagna martellante nella quale si sottolineava il nesso tra la sicurezza economica della Repubblica americana e quello dell’Europa occidentale.
Secondariamente esso non era composto solo da prestiti agevolati (alla cui riscossione gli Stati Uniti poi rinunciarono), ma da beni e materie prime che i 16 Paesi incamerarono gratuitamente e poterono trasfondere nel sistema produttivo attraverso aste o assegnazioni strategiche. Il ricavato delle vendite di quei beni costituì un fondo vincolato al lancio di politiche di produttività e quindi, di fatto, all’adozione di uno straordinario aggiornamento tecnologico rispetto alla grammatica industriale europea. Questo meccanismo inseriva una doppia condizionalità per i Paesi che attuarono il Piano. La prima era protesa allo sviluppo e alla modernizzazione del sistema produttivo, la seconda, squisitamente politica, prevedeva l’allineamento dei Paesi ERP all’American way of life in termini di consumo e accesso ai beni e di adesione a modelli liberal-democratici costituzionali.
Il piano “Marshall” aveva intenti non solo solidaristici e di significativa ricaduta sull’economia americana, ma, soprattutto, eminentemente politici in quanto poneva di fatto alcune condizioni in merito alla configurazione delle istituzioni democratiche dei paesi sostenuti, ritenuta propedeutica all’ingresso nell’ Alleanza Atlantica che sarebbe nata nel 1949 ed a cui nel 1954 l’Unione Sovietica avrebbe contrapposto il Patto di Varsavia tra se stessa e i paesi satelliti dell’Est Europeo.
Tra i due schieramenti, “la Cortina di ferro” già vaticinata da Winston Churchill nel 1945 in un telegramma dell’11 maggio 1945 a Harry Truman, rimasto famoso “Una cortina di ferro è calata sul loro fronte. Non sappiamo che cosa stia succedendo dietro di essa. Non c’è dubbio che l’intera regione ad est della linea Lubecca – Trieste – Corfù sarà presto completamente nelle loro mani. A ciò inoltre bisogna aggiungere l’enorme area tra Eisenach e l’Elba che gli americani hanno conquistato e che presumo i russi occuperanno fra poche settimane, quando gli americani si ritireranno.” La Guerra Fredda ne sarebbe stata l’epopea, il Muro edificato tra Berlino Est e Berlino Ovest nel 1961 il simbolo e ampie zone grigie della storia italiana lo scenario talvolta drammatico.
E’ di tutta evidenza che la presenza in Italia di un forte Partito Comunista fortemente dipendente da Mosca ma che pure aveva contribuito alla Liberazione e alla scrittura della Carta Costituzionale, rappresentava un problema e che solo la vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni del 18 aprile del 1948, rassicurò in parte gli Stati Uniti, mantenne il flusso degli aiuti economici e rese i rapporti tra i due paesi sempre più stabili ed intrecciati. Talvolta, una narrazione controfattuale ha provato ad immaginare quale sarebbe stato il destino dell’Italia nel caso contrario. Ma questa è un’altra storia che solo in parte è sovrapponibile al presente. Qui rileva piuttosto riflettere sulla direzione da imprimere alle riforme necessarie per accedere ai fondi del Recovery Fund dell’Unione che trovano nel PNRR Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) inviato a Bruxelles il 30 aprile scorso, la propria completa e dettagliata esplicitazione.
Anche in questo caso le perplessità non sono mancate e, come già Alcide De Gasperi nel famoso discorso alla Conferenza di Pace di Parigi del 10 agosto del 1946, Mario Draghi ha dovuto mettere, come Brenno la propria spada sulla bilancia taroccata dai Romani, tutto il peso della propria credibilità internazionale, facendosi a tal punto garante nei confronti dell’Unione da aprire il dibattito sulla necessità della sua permanenza a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni del 2023, bypassando il Colle, come più volte sostenuto da molti, compreso chi scrive. Quando sarà reso pubblico il testo effettivamente inviato a Bruxelles e del quale sarà possibile comprendere se e in che misura esso sia stato integrato nel frattempo come ha sostenuto la Fondazione Openpolis il 7 maggio scorso comprenderemo quale ulteriore e gravosa responsabilità il governo si sia assunto per arginare il residuo sospetto che, grazie anche ai due precedenti Esecutivi della XVIII Legislatura, il Paese ha fatto di tutto, nei recenti trent’anni, per guadagnarsi.
Un risentimento che certo risiede anche nella cospicua porzione di fondi (complessivamente 248 miliardi di euro in più tranche) cui l’Italia ha avuto diritto sulla base degli indicatori economico/finanziari già drammatici anche prima della pandemia e che nessuno può pensare di ribaltare nel volgere di pochi mesi, imponendo il tocco delle proprie mani come un tempo si diceva facessero i re merovingi e di cui si legge nel saggio dello storico francese Marc Bloch del 1924 pubblicato in Italia del 1973 per Einaudi “I re taumaturghi. Studio sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra”. Ma anche questa è un’altra storia che varrà la pena di scrivere in presenza delle prime applicazioni del PNRR.
Nel frattempo, può valere la pena di inquadrare nel radar quali iceberg vaghino nel mare dell’attuale Parlamento, in grado di minacciare anche il più risoluto Titanic. I temi più scottanti sono la Giustizia, il Welfare, la riforma del Fisco, l’irrisolta questione meridionale con il pesante deficit infrastrutturale e sociale, le politiche di accoglienza e integrazione dei migranti, l’ulteriore riforma del Titolo V della Costituzione la cui attuale formulazione tanto sta pesando sulla salute psicofisica degli italiani. A margine ma non troppo, viste le implicazioni culturali e sociali, gli aspetti connessi al Disegno di Legge “Zan”, una libra di carne che l’Europa sembrerebbe esigere, in termini di “allineamento” normativo con molti paesi dell’Unione, al punto da indurre parte della maggioranza a sostenerne la definitiva approvazione in Senato, fatto questo non impossibile, ove alcuni saggi e mirati emendamenti ne riducano l’ampia confusione mentale e costituzionale di tutta evidenza nonché i tanti residui ideologici che vi allignano pericolosamente.
Si tratta, dunque, di una sfida epocale che va affrontata con una strategia “a matrice” che veda gli interventi del PNRR – con le tante e varie “transizioni” previste – toccare trasversalmente tutti i temi in questione, evitando di lasciare falle non interessate dal cambiamento, atteso che in una società complessa – dove non esistono compartimenti stagni e tutti gli elementi interagiscono – ciò non è possibile, pena il naufragio dell’intero piano.
Una visione necessariamente olistica che richiede a tutti i soggetti politici di abbandonare la zavorra ideologica che ancora impedisce loro di comprendere la modernità e di vivervi da protagonisti capaci di suscitare nel corpo sociale sentimenti di fiducia verso il futuro, simili nell’intensità ma al tempo stesso diversi nei contenuti, rispetto a quelli che consentirono di tradurre i fondi del Piano Marshall nella più importante trasformazione dell’Italia contemporanea, guidata da un’idea generale e condivisa di un Paese capace di tracciare una riga netta sul passato, consegnandolo alla storia ed impedendogli di pregiudicare il futuro.
Un’idea che, in un mutato contesto sociale e di politica internazionale, oggi non si è ancora manifestata compiutamente e che deve rispondere alla domanda: “Settantacinque anni dopo la nascita della Repubblica, che Paese vogliamo diventare nel volgere del prossimo lustro, nell’orizzonte valoriale della Costituzione e in coerenza con gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite?”.
Un interrogativo a cui le forze politiche in campo – la cui consistenza, almeno nei sondaggi sembra equivalere pur con un certo scarto a favore della Destra – non sembrano volere dare una risposta sostanzialmente omogenea sia sul piano sociale che economico. Una premessa non certo rassicurante per le future riforme a cui l’erogazione dei fondi europei in questione è obbligatoriamente e rigorosamente subordinata.
Si è dunque davanti ad una sfida che deve essere raccolta dalle classi dirigenti di tutti i soggetti politici, dei corpi intermedi e della Pubblica Amministrazione chiamate ad affrontare una fase storica di cui andare domani orgogliosamente fieri, a parziale esimente del debito consistente che stavolta, a differenza del Piano Marshall, sarà lasciato alle nuove generazioni di cui porta il nome e che giudicheranno se ne sarà valsa la pena.