Cinquant’anni fa usciva in anteprima assoluta a New York tra grandi polemiche il film di Stanley Kubrick “Arancia meccanica” un apologo sulla violenza urbana negli ultimi anni della swinging London che aveva prodotto i Beatles, i Rolling Stones, la minigonna ideata dalla stilista Mary Quant e tanto altro, trasformando King’s Road, Kensington e Carnaby Street nei luoghi simbolo dell’emancipazione femminile e della rivoluzione dei costumi giovanili britannici.
Una rivoluzione culturale ed estetica che ribaltava nell’immaginario europeo e del mondo i tradizionali modelli british che, dopo un decennio di governi conservatori – da Winston Churchill ad Alec Douglas Home – nel 1964 aveva aperto le porte di Downing Street al laburista Harold Wilson, sospettoso verso l’ Europa a trazione franco tedesca sorta con il Trattato di Roma del 1956 e portatore di un modello di sviluppo fortemente incentrato sull’estensione del welfare e sul controllo dei redditi volti a risollevare il PIL, a quel tempo tra i più bassi d’Europa, e contenere una dilagante disoccupazione.
In tale clima di profonda insicurezza sociale ed economica, si incrinavano le regole sociali che avevano rappresentato per secoli il cuore dell’Inghilterra dominatrice di quattro quinti della popolazione mondiale; toccò ai giovani dare il colpo di grazia a ciò che restava in patria della dimensione imperiale e delle sue istituzioni. Oxford e Cambridge furono invase da studenti “capelloni” che scandalizzavano i paludati professori mentre le periferie delle grandi città diventarono presto luoghi poco sicuri anche a motivo della diffusione delle sostanze psichedeliche che circolavano con molta facilità tra i giovani, sommandosi dell’antica piaga dell’alcolismo.
Uno spaccato di quegli anni e dello shock subìto dagli altri europei ci è stato regalato da Alberto Sordi nel film “Fumo di Londra” del 1966 in cui il protagonista Dante Fontana, un antiquario di Perugia smodatamente anglofilo, compie un viaggio a Londra alla ricerca di uno stile di vita a lungo ammirato e si scontra con una cultura profondamente cambiata ed un mondo giovanile incline alla contestazione spesso confinante con la violenza.
L’onda lunga della Beat Generation iniziata negli ani ’50 sull’altra sponda dell’ Atlantico e di cui ho scritto altrove in occasione della recente scomparsa di Lawrence Ferlinghetti, aveva raggiunto le scogliere di Dover che avevano resistito a decine di storici tentativi di invasione delle Isole Britanniche; presto sarebbe dilagata nel continente con il Maggio francese, gli scontri Valle Giulia in Italia, la Primavera di Praga, quindi nella Cina di Mao Zedong con la Rivoluzione culturale che in qualche modo ne ridimensionò il ruolo “beatificandolo” e infine sarebbe rifluita dopo l’apice raggiunto a Woodstock nel 1969 che segnò al tempo stesso l’inizio del declino cui seguirono alcune drammatiche derive di quello che è stato il fenomeno sociale più significativo della seconda metà del XX secolo.
Il clima di violenza palese ed occulta che accompagnò quegli anni non poteva sfuggire a Stanley Kubrick che aveva individuato le molteplici manifestazioni di tale caratteristica umana in capolavori precedenti quali “Orizzonti di Gloria” del 1957, “Il Dottor Stranamore” del 1964 e “2001: Odissea nello spazio” del 1964” convinto com’era che: “L’uomo non è un nobile selvaggio, è piuttosto un ignobile selvaggio. È irrazionale, brutale, debole, sciocco, incapace di essere obiettivo verso qualunque cosa che coinvolga i propri interessi. Questo, riassumendo. Sono interessato alla brutale e violenta natura dell’uomo perché è una sua vera rappresentazione. E ogni tentativo di creare istituzioni sociali su una visione falsa della natura dell’uomo è probabilmente condannato al fallimento “come ebbe a dichiarare al New York Times il 30 gennaio del 1972.
Una visione pessimistica e non certo politically correct tanto di moda oggi, ma in larga misura confermata dalla storia dell’Umanità e che lo accompagnò anche successivamente in altri film di grande successo che declinarono il tema della contrapposizione tra bene e male dove spesso l’animo umano soccombe, pur dandosi mille farisaiche giustificazioni , anche se mai coronati da premi Oscar ma soltanto da nominations, quali “Barry Lyndon” del 1975 “Shining ” del 1980 “Full Metal Jacket” del 1987 e “Eyes Wide Shut” del 1999, anno della morte del regista che non riuscì a sviluppare l’idea riguardante “A.I.- Intelligenza Artificiale” che sarebbe stata poi ripresa e condotta in porto da Steven Spielberg nel 2001 e in cui “effetto serra” ed innalzamento degli oceani sono considerati l’ennesimo atto di violenza perpetrato dall’uomo stavolta a danno dell’ ecosistema di cui è uno degli ospiti ma il più spietato e sconsiderato.
Già nel titolo originale “A clockwork orange” (Un’arancia ad orologeria) Kubrick intendeva denunciare come all’interno di una forma esterna gradevole ed inoffensiva si nascondesse un congegno pronto ad esplodere a scadenze periodiche, scatenando quella belva che, come nella sequenza iniziale del già citato “2001: Odissea nello spazio” brandisce l’osso che la propria intelligenza ha tramutato in uno strumento e contemporaneamente in un’arma da rivolgere contro i propri simili. Altre interpretazioni hanno voluto estendere la metafora dell’arancia al Pianeta che starebbe preparando, proprio attraverso la violenza umana, la propria apocalittica distruzione per un nuovo inizio.
Un tema etico e politico di scottante attualità in merito al quale sono rimaste finora inascoltate le lezioni e le tante opere del grande filosofo Emanuele Severino scomparso lo scorso anno e del suo allievo più attento, Umberto Galimberti, che lo ha affrontato già in “Psiche e Tecne. L’uomo nell’età della tecnica” pubblicato da Feltrinelli nel 2002 e dedicato in esergo al venerato maestro, di cui, si parva licet, chi scrive rimpiange la benevola amicizia e le indimenticabili conversazioni nella sua casa di Brescia.
Il film, che nel 2020 è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, fu tratto dall’omonimo testo dello scrittore inglese Anthony Burgess del 1962 ed è la trasposizione cinematografica dell’ analisi e della profezia di un mondo in corsa verso manifestazioni di violenza esplicita presenti in ogni segmento sociale e, elemento ancora più preoccupante, verso forme di controllo sociale e di mistificazione che il potere pone in essere per perpetuarsi, attraverso insospettabili strategie di manipolazione del consenso, oggi rese infinitamente pervasive dall’era digitale e dal controllo esercitato su scelte e comportamenti individuali e sociali.
Una sfida potente a quel libero arbitrio che “affranca l’uomo perfino da Dio” e lo distingue dagli altri esseri viventi; nella Divina Commedia, Dante così lo fa definire al penitente Marco Lombardo nel XVI Canto del Purgatorio:“Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica, lume v’è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica. A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura.” E al tema della libertà ho dedicato su queste pagine una riflessione approfondita lo scorso aprile.
“Arancia meccanica” mostra quanto anche nell’insanabile buonismo di una distopica società moderna sia necessario per una persona riuscire a esprimere la sua libera scelta tra il bene e il male, dovendo scegliere talvolta anche il male per istinto di autoconservazione. Nel film questa possibilità è infatti negata ad Alex, interpretato dal giovane attore teatrale britannico Malcolm McDowell, il quale, dopo essere stato sottoposto al “trattamento Ludovico”, diventa incapace di scegliere il male, per proteggersi, e subisce le angherie di una società oppressiva, di amici convertiti al “giusto” e di genitori indifferenti.
La trama del film, per quanti non avessero avuto l’opportunità di vederlo può essere riassunta come segue:
In un futuro imprecisato, nella metropoli londinese vive il giovane Alexander “Alex” DeLarge, un ragazzo di famiglia operaia, eccentrico, antisociale, capo della banda criminale dei Drughi che trascorre il tempo libero dedicandosi a sesso, furti, bullismo estremo e atti di ultraviolenza.
Dopo l’ennesimo stupro consumato ai danni della moglie di un famoso scrittore e riportato in una delle sequenze più replicate della storia del cinema, nella banda insorgono una serie di contrasti interni che culmineranno nel tradimento dei compagni verso Alex che, nel corso di una successiva rapina conclusasi tragicamente viene ferito dai compagni e lasciato in balia della polizia.
Dopo un breve processo, Alex viene condannato a 14 anni per omicidio e in carcere diventa una preda in mezzo a un branco di predatori, tra uomini violenti e perversi quanto e più di lui. Giunto alla disperazione, si offre volontario per un innovativo programma di “rieducazione” volto ad abbreviare la pena: il trattamento “Ludovico” che consiste nella somministrazione di farmaci unita alla visione di lungometraggi dove sono contenute scene di violenza.
La visione delle pellicole è “obbligata” dalla posizione di Alex, legato a breve distanza dallo schermo e con delle pinze che lo costringono a tenere gli occhi aperti. Un elemento che sarà ripreso, all’opposto, nell’ultimo film di Kubrick, il già citato “Eyes Wide Shut” del 1999 con Tom Cruise e Nicole Kidman tratto dal dramma di Arthur Schnitzler e che letteralmente significa “occhi ampiamente chiusi” ed è chiaramente un ossimoro. In gergo si riferisce ad una persona, spesso ingenua o sprovveduta, che si rifiuta di vedere qualcosa in piena vista a causa di nozioni preconcette o tabù. Il titolo potrebbe alludere alla sessualità dei protagonisti nel voler/non voler “vedere” le fantasie sessuali che li turbano.
Le scene di violenza cui Alex è costretto ad assistere, insieme con l’effetto dei farmaci, incominciano a provocare in lui delle sensazioni di dolore e di nausea che tendono ad aumentare a mano a mano che il trattamento prosegue, associando alle immagini di violenza e di sesso, anche la musica di sottofondo della proiezione che, durante la visione di un documentario su Hitler, è la nona Sinfonia di Beethoven.
Al termine della cura Alex viene portato in una sala e sottoposto ad alcune prove che mostrare loro il buon risultato del trattamento Ludovico al punto da farlo entrare immediatamente in vigore come soluzione ai problemi della criminalità violenta e del conseguente affollamento delle prigioni. Ad opporsi è soltanto il cappellano del carcere che contesta l’annullamento del libero arbitrio nei confronti del soggetto, che non sceglie liberamente di operare il bene, ma è costretto ad astenersi dalla violenza solo a causa della sofferenza e del dolore che gli vengono provocati dall’esperienza del male.
Alex viene quindi scarcerato, ma il suo rientro nella società è tragico e comporta un capovolgimento della sua vita: tutte le persone che prima, quando lui era forte e violento, erano sue vittime, ora che la situazione si è capovolta ed è lui a essere completamente indifeso e innocuo, gli si ritorcono contro e prendono il suo posto nel comportarsi da carnefici, vendicandosi.
Ferito e disperato, raggiunge una villa per chiedere aiuto, ma la casa è proprio quella dello scrittore Frank Alexander, diventato invalido e vedovo dopo la morte della moglie. In un primo momento lo scrittore non riconosce Alex, per via del travestimento che portava all’epoca dell’aggressione. Frank è un oppositore del governo e, riconoscendo Alex come una vittima del trattamento Ludovico, promette di aiutarlo, mentre convoca altri oppositori politici allo scopo di screditare il governo e la sua terapia. Ma appena Alex incomincia a cantare nella vasca da bagno Singin’ in the rain, lo scrittore riconosce la voce dell’autore della violenza subìta e prepara la propria vendetta: prima narcotizza Alex, poi, una volta ottenute da lui le informazioni per screditare il governo, lo chiude in una stanza e gli fa ascoltare ad alto volume la Nona sinfonia di Beethoven, provocandogli un dolore straziante al punto da indurlo a tentare il suicidio.
Alex si risveglia molto tempo dopo in un letto d’ospedale, dopo un lungo coma e nel periodo della convalescenza, una psichiatra gli somministra un test nel quale egli deve aggiungere la battuta mancante in alcune vignette. Alex risponde con spacconeria e strafottenza di un tempo, rendendosi presto conto di non provare più il malessere da cui veniva colto a seguito del trattamento Ludovico ogni volta che tentava di comportarsi in modo violento, mutamento dovuto probabilmente allo shock intervenuto a seguito del tentato suicidio e alle cure ricevute durante il coma. Nel frattempo la stampa, venuta a conoscenza dell’accaduto, attacca duramente il governo per i metodi coercitivi usati su di lui.
Divenuto un personaggio chiave per la tenuta del governo, Alex riceve una visita del Segretario per gli affari interni che gli offre il proprio appoggio in cambio della sua collaborazione. Alex accetta l’accordo, grazie al quale la sua vita potrà proseguire con un buon lavoro, una buona posizione e una retribuzione adeguata e chiede di diventare il capo della polizia: una posizione ideale che gli consentirà di esercitare violenza in modo legale, vendicandosi dei torti subiti.
Il film si conclude con la sequenza in cui un grande numero di giornalisti e di fotografi entra nella stanza dove i due rassicurano l’opinione pubblica in merito alla loro nuova collaborazione e amicizia mentre Alex immagina la sua nuova vita da trascorrere come prima tra sesso, musica e violenza, ma libera dalle angosce dovute alla legge, poiché egli ora lavora per essa.
“Arancia meccanica” incassò oltre 26 milioni di dollari in tutto il mondo (ne era costati 2). In Italia, dopo la proiezione a Venezia, arrivò nelle sale il 7 settembre 1972. Nella maggior parte dei paesi del mondo fu vietato ai minori di 18 anni per le numerose scene di efferata violenza e divenne uno dei bersagli preferiti della censura. L’opera divise l’opinione pubblica e la critica al punto che il provvedimento di divieto ai minorenni durò fino al 1998, quando una sentenza del Consiglio di Stato lo abbassò ai minori di 14 anni, rendendo così il film fruibile anche sul piccolo schermo. Per nove anni, né Rai né Mediaset si mostrarono interessate a sfatare quello che da un quarto di secolo era considerato un “tabù televisivo”.
Analoga fortuna legò “Arancia Meccanica” alla propria colonna sonora; il film utilizza infatti brani di musica classica molto conosciuti: di Rossini sono presenti l’ouverture del “Guglielmo Tell” e le note dell’ opera “La gazza ladra”; di Beethoven, invece, il secondo movimento e, quale leitmotiv del film destinato a rimanere celeberrimo, il quarto movimento, l’Inno alla gioia, dalla “Nona sinfonia” oggi inno ufficiale dell’Unione Europea; infine troviamo la musica barocca composta da Henry Purcell in occasione del funerale della regina Maria II Stuart – moglie di Guglielmo d’Orange – svoltosi nell’Abazia di Westminster il 7 gennaio del 1695.
La novità rivoluzionaria e trasgressiva della colonna sonora del film è l’elaborazione dei brani classici curata da Wendy (all’epoca all’anagrafe Walter) Carlos reduce dal successo planetario dei suoi due album d’esordio, “Switched-On Bach” e “The Well-Tempered Synthesizer” nei quali aveva sottoposto pagine bachiane a rielaborazioni puramente timbriche avviando e via via avvalorando il fraintendimento della musica elettronica come “genere” commerciale e di facile godibilità. Carlos, autore del brano originale “Timesteps” presente nel film, si pone quale ponte tra rigorosa ricerca elettronica e musica pop e mette a punto arrangiamenti strumentali che dell’elettronica utilizzano l’ampio strumentario, come il sintetizzatore Moog.
Il compositore non si spinge oltre elementi coloristici e suggestioni timbriche, però Kubrick resta estasiato dalla capacità della musica di Carlos d’offrire punti di vista proiettati verso un futuro tecnologico, con prospettive d’inquietudine. Le soluzioni proposte da Carlos sembrano offrire a Kubrick un’elettronica moderatamente innovativa tanto da donare nuovi punti di vista, o di ascolto, inediti e non ortodossi su testi musicali carichi di secoli.
Modellato su un romanzo nel quale è già postulata la centralità della musica, convalidata dall’estensione di presenze musicali per circa tre quarti della durata complessiva, “Arancia meccanica” offre a Kubrick l’opportunità di interrogarsi e proporre spunti di riflessione proprio sul valore della musica nella società, sul suo ruolo nella cultura di massa, sulle sue presunte virtù educative così come sugli impulsi “negativi” che, imprevedibilmente, essa riesce invece a coagulare e a portare alla luce.
Il cineasta collega le musiche a un’espressività musicale platealmente negativa e “degenerata”, come quella di un rock satanico o a una qualunque forma d’arte sospettabile di pregiudizio. Kubrick propone una meditazione sulla musica “alta”, quella assoluta e intangibile dei Beethoven, Purcell e Rossini con toni però ben diversi dall’ossequiosa riverenza a essa tributata in “2001: Odissea nello spazio.”
Simmetricamente, Kubrick trasferisce poi questa riflessione circa la natura ambigua e indisciplinabile della musica anche su una pagina ben più recente e leggera ma anch’essa “esemplare”, a suo modo, in termini di morale: la cinematografica e fortunatissima “Singin’ in the Rain”. Il brano viene caricato di valenze bizzarre e sconcertanti, al punto che lo scandalo musicale, e relativi dibattiti con feroci polemiche, finiranno per focalizzarsi quasi più su questa popolarissima e virtuosa pagina che sui numerosi capitoli di musica colta di cui il lungometraggio è gremito.
I contributi critici circa la dimensione estetica del film, vera e propria icona della cultura Pop, sono oggi sterminati, complessi, quanto mai attuali e presenti in rete, almeno quanto le diverse interpretazioni che hanno attirato l’interesse anche di noti vignettisti e disegners italiani quale Alessio Bonvicini (Bonvi) e Andrea Canepari; tuttavia è il caso di riportare qui il giudizio di Paolo Merenghetti reperibile nel volume “Il Merenghetti: dizionario dei film” giunto ormai alla tredicesima edizione:
“Kubrick trae una specie di pamphlet anti utopico sul nostro futuro prossimo, dove dominano violenza e frustrazione sessuale frutti del disorientamento e dell’impossibilità di realizzare i propri desideri. Al centro, il problema della libertà di scelta raccontato senza falsi moralismi. Per questo le scene di violenza (di una brutalità cruda fino ai limiti della sopportabilità ma ironicamente commentate dalla musica) sono necessarie e non gratuite. La straordinaria forza emotiva del film nasce dalla somma di molti elementi: i materiali della cultura alta volgarizzati da quella di massa, il linguaggio gargarizzato, la sistematica distruzione dell’illusione di realtà (accelerazioni, ralenti, grandangoli), la colonna musicale. Se nel 1971 fu uno shock, oggi è ancora un salutare pugno nello stomaco.”
Mentre per vedere il film dovetti aspettare la maggiore età, il long-playing della colonna sonora fu il primo esemplare della mia collezione di vinili, avendolo ricevuto in regalo, insieme all’impianto stereofonico, per il mio quindicesimo compleanno nel 1973, un ricordo personale che si rinnova ogni volta che cerco di mettere ordine tra dischi, CD, libri, periodici, tracce di viaggi mai dimenticati e tanto altro che affolla il mio studio mentre questo articolo viene scritto.
La cover che conservo non è per nulla sbiadita, al pari del ricordo di quegli anni durante i quali, come ogni adolescente, cercavo di orientarmi tra i tanti bivi che la vita non ha mai smesso di mettermi davanti nei successivi cinquanta e che ancora oggi come allora trovano nei celebri versi di Robert Frost, tanto cari a John Fitzgerald Kennedy, l’unica possibile e spietata risposta:
Divergevano due strade in un bosco
ingiallito, e spiacente di non poterle fare
entrambe uno restando, a lungo mi fermai
una di esse finché potevo scrutando
là dove in mezzo agli arbusti svoltava.
Poi presi l’altra, così com’era,
che aveva forse i titoli migliori,
perché era erbosa e non portava segni;
benché, in fondo, il passar della gente
le avesse invero segnate più o meno lo stesso,
perché nessuna in quella mattina mostrava
sui fili d’erba l’impronta nera d’un passo.
Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno!
Pure, sapendo bene che strada porta a strada,
dubitavo se mai sarei tornato.
lo dovrò dire questo con un sospiro
in qualche posto fra molto molto tempo:
Divergevano due strade in un bosco, ed io…
io presi la meno battuta,
e di qui tutta la differenza è venuta.
(La strada non presa, 1916. Tratta dalla raccolta Mountain Interval)