A breve verrà pubblicato “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore”, il libro scritto da Papa Francesco in occasione del Giubileo 2025. Nell’anteprima si legge: “A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali”. Parole che hanno scatenato la reazione di Israele che ha risposto ribadendo, per l’ennesima volta, il proprio “diritto” all’autodifesa dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Le autorità israeliane sembrano aver dimenticato che proprio le norme del diritto internazionale umanitario impongono di non fare quello che stanno facendo.
Da millenni si cerca di capire se esiste una “guerra giusta”. Ci provarono grandi uomini come Cicerone e Agostino d’Ippona , nel I secolo a.C.. E poi S.Tommaso d’Aquino (nel XIII secolo d.C.) e molti altri. L’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, quello che regolamenta l’uso della forza nelle relazioni internazionali e vincola gli Stati membri a “risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici” e ad “astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato” è da sempre una chimera. C’è stato chi ha cercato di distinguere tra Ius in bello (che tradotto dal latino significa “diritto nella guerra”) e Ius ad bellum (dal latino diritto di guerra o diritto alla guerra). Di definire le regole da applicare prima e durante i conflitti armati.
Nel 1924, venne firmato il Patto Briand- Kellog, detto anche Patto di Parigi (dal nome della città dove fu sottoscritto): gli Stati firmatari si impegnavano a non dichiarare mai più o non prendere parte a guerre come strumento per risolvere “dispute o conflitti di qualsiasi natura o di qualunque origine essi siano, che possano sorgere tra loro”. Poco dopo venne modificato dicendo che questo limite riguardava solo le guerre di aggressione, non le azioni di autodifesa. Nel 1945, l’articolo 6 dell’Accordo di Londra, che istituì il Tribunale Internazionale Militare chiamato a giudicare gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, definì crimine contro la pace: “la pianificazione, la preparazione, l’inizio o la conduzione di una guerra di aggressione o di una guerra in violazione dei trattati internazionali, di accordi e assicurazioni, o la partecipazione in un comune piano di cospirazione per il completamento di qualcuno dei precedenti”. Chiaro il riferimento al Patto Briand-Kellogg. Anche l’obbligo di condurre “azioni di difesa pari agli attacchi subiti” è una norma internazionale riconosciuta e condivisa.
La guerra condotta da Israele da oltre un anno in diversi Stati (oltre alla Striscia di Gaza, in Libano, in Siria e in Iran) non può in nessun modo essere definita “atto di difesa”. Il diritto internazionale impone che la difesa deve essere “proporzionata” all’attacco subito e i civili devono essere in ogni modo salvaguardati e protetti. Addirittura dallo Stato che, per difendersi, attacca un altro Stato! Quanto agli attacchi a donne e bambini, questi devono essere sempre esclusi dagli attacchi, in ogni caso. Ma nella Striscia di Gaza, le centinaia di scuole e università bombardate in Palestina non fanno più notizia. Negli ultimi decenni, non c’è stata guerra che non abbia violato questi accordi. Ma quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza va ben oltre. Quella in atto appare sempre di più come una distruzione sistematica di persone e cose e una violazione di ogni regola internazionale (si pensi ai ripetuti attacchi a UNRWA e UNIFIL). Azioni che non possono essere in alcun modo giustificate come tentativo di liberare gli ostaggi o risposta all’attentato del 7 ottobre 2023. E non da ora ma da circa un anno: già nel 2023, il Sudafrica ha presentato una denuncia per genocidio alla Corte di Giustizia Internazionale.
Per comprendere se la domanda del Santo Padre è legittima non servono le parole della Relatrice Speciale dell’ONU per i Territori Occupati Palestinesi, Francesca Albanese, che nel rapporto ufficiale presentato alle Nazioni Unite ha detto, senza mezzi termini, che quello israeliano a Gaza è da considerare un genocidio. Per capire la gravità della situazione basta leggere la “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”. L’Articolo II di questa Convenzione afferma che “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”. In altre parole, proprio quello che avviene nella Striscia di Gaza. Da molto tempo e certamente da prima dell’attentato del 7 ottobre 2023. Anzi, Secondo questa Convenzione (per la differenza – non secondaria – che esiste tra Trattato, Accordo e Convenzione si rimanda ad altra sede) la responsabilità di quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza (il fatto che i media occidentali non ne parlino più non vuol dire che gli attacchi nei confronti di civili siano finiti, anzi) potrebbero non essere limitate a Israele.
L’Art. III della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” dice che dovrebbero essere puniti non solo il genocidio, ma anche l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, il tentativo di genocidio e perfino la complicità nel genocidio. Ma no basta: le persone accusate di questi crimini potrebbero essere processate non solo da un tribunale o da un soggetto internazionale (come la Corte di Giustizia Internazionale o il Tribunale Penale Internazionale): “Le persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell’articolo III saranno processate dai tribunali competenti dello Stato nel cui territorio l’atto sia stato commesso, o dal tribunale penale internazionale competente rispetto a quelle Parti contraenti che ne abbiano riconosciuto la giurisdizione”. Israele conosce bene la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio: l’ha firmata il 7 agosto del 1949 e ratificata il 9 marzo del 1950.
Sia la Carta delle Nazioni Unite che i trattati di Diritto Internazionale Umanitario (a cominciare dai quattro trattati di Ginevra) non sono pezzi di carta, meri elaborati scritti da un momento all’altro, con l’obiettivo di limitare i danni di una guerra. Sono frutto di un percorso storico durato decenni. Un cammino fatto di sofferenze e dell’analisi di cosa aveva prodotto questo dolore. Un percorso che ha portato i leader mondiali a mettere nero su bianco alcuni principi morali profondi la cui origine è molto antica. Principi che dovrebbero essere la risposta agli interrogativi sul significato della guerra, sulle sue cause, su cosa può essere considerato giusto e cosa no quando si sgancia una bomba su migliaia di persone.
È per questo che tentare di giustificare la strage di innocenti che va avanti da anni parlando di diritto alla difesa appare pacchiano e ridicolo: nessun trattato internazionale dà il diritto di massacrare decine di migliaia di uomini, donne e bambini senza rispettare né le regole internazionali né i confini degli altri Stati. A nessuno. La domanda nell’ultimo libro del Santo Padre è legittima. Anzi appare quasi retorica: la risposta è sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che fingono di non vedere le decine di migliaia di bambini uccisi dall’odio razziale e dagli interessi economici e geopolitici.