Nella vita si può essere diversi. Vivere ai capi opposti dell’Oceano (Atlantico). Fare l’opposto. Eppure finire per pensarla allo stesso modo.
Barbara Iweins è una fotografa belga. Ha passato gli ultimi quattro anni della sua vita a fotografare ogni oggetto della sua casa, dai vestiti ai giocattoli dei suoi figli. L’idea le venne sei anni fa. Costretta a traslocare (per l’ennesima volta), decise di fotografare tutto quello che aveva. “Se avessi saputo quanto lavoro comportava, forse non avrei mai iniziato”. Alla fine ha fotografato 12.795 oggetti. Le foto, frutto di quattro anni di lavoro, sono in mostra al festival di fotografia Cortona on the Move in Toscana, in questi giorni. “Ero stanca di avere di nuovo tutti questi oggetti da mettere in valigia. Volevo davvero vedere com’era: una casa piena di oggetti. Ho deciso di fotografare stanza per stanza e cassetto per cassetto. Mettevo i post-it sui cassetti perché avevo paura di fotografare di nuovo la stessa cosa”. Nel suo reportage non ha escluso nessun oggetto per quanto banale potesse sembrare. Nel fare questo lavoro certosino, la fotografa belga si è resa conto che la sua casa era piena di tanti relitti domestici. Alcuni assolutamente inutili. Altri preziosi, con un significato personale. Dai giocattoli dei suoi figli da piccoli alla miriade di oggetti assolutamente inutili nel cassetto del suo comodino.
Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, negli USA, vive Dave Bruno. Qualche anno fa, a Bruno venne un’idea: vivere per un anno con solo 100 “cose”. 100 oggetti secondo lui sufficienti per vivere ugualmente bene. Anzi meglio. Dave Bruno raccontò la sua esperienza in un libro “La sfida delle 100 cose” (divenuto un cult in breve tempo). La sua fu una vera e propria sfida al superfluo. Il numero 100, deciso quasi a caso, comprendeva tutto (o quasi): abbigliamento, oggetti necessari per il suo lavoro e per la vita di tutti i giorni. Perfino qualcosa per lo svago e lo sport. L’obiettivo di Bruno era dimostrare che le persone possono rinunciare ad una parte considerevole degli oggetti che accumulane. E continuare a vivere bene. Anzi, meglio, se si pensa al tempo e ai soldi che questi oggetti comportano. Addirittura essere più felici. Senza essere sommersi da cose inutili.
La Iweins ha ammesso che lei e i suoi tre figli vivono in un ambiente “estremamente disordinato”, nonostante le sue abitudini di acquisto siano normali. Il punto è proprio questo: cosa vuol dire “normale” in un mondo come quello di oggi invaso dal consumismo sfrenato? La Iweins ricorda il proprio interesse per il consumo e la gratificazione immediata che provava nel comprare o nel possedere qualcosa. Qualsiasi cosa. Come alcuni vestiti: presentavano problemi, soprattutto quelli che aveva comprato e poi dimenticato. “Stiamo nascondendo cose che stiamo acquistando”, si è lamentata. “Tutto è negli armadi”. “Stavo riscoprendo le gonne e pensavo: ‘Non l’ho mai indossata, è davvero carina. Ora lo userò e lo userò.’” Ma poi non l’ha mai indossata.
Alla fine la fotografa belga si è resa conto che “solo l’1% di questi oggetti è importante: il 99% di cui potrei sbarazzarmi. La maggior parte degli oggetti a cui tengo veramente sono cose che non posso sostituire”. Così, la Iweins ha deciso di buttare via decine sacchi della spazzatura pieni. Le sue abitudini di acquisto si sono raffreddate. Accumulare oggetti, dice, “è stata la mia terapia. C’è così tanto caos nel mondo, e nella mia testa, che l’inerzia delle cose – loro sono il mio riferimento. So che quello che sto dicendo è triste, ma è vero”. Una terapia o una malattia? Secondo il vocabolario Treccani, consumismo è il “Fenomeno economico-sociale, tipico dei paesi a reddito elevato ma presente anche nei paesi in via di sviluppo, consistente nell’aumento dei consumi per soddisfare i bisogni indotti dalla pressione della pubblicità e da fenomeni d’imitazione sociale diffusi tra ampi strati della popolazione”.
Nel suo libro “L’idolo”, Silvano Petrosino, filosofo, antropologo e docente, ha scritto che la pubblicità, il marketing o, più in generale, la società in cui viviamo esercitano una continua pressione sulla gente. Spingono i “consumatori” ad acquistare, ad avere, a possedere nuovi oggetti. Anche quando queste persone non hanno alcun bisogno di possedere (e acquistare) quegli oggetti per vivere. Per essere felici. Il perno sul quale si basa l’economia moderna è questo: l’uomo non ha soltanto bisogni, ma anche desideri. E quando non li ha, ci pensano aziende e governi a farglieli venire. È questo l’asse intorno al quale ruota buona parte dell’economia dei paesi sviluppati (e in via di sviluppo): bisogna vendere, vendere e poi ancora vendere. Sempre di più. Non importa se quello che si compra serve davvero. Il centro dell’economia moderna è saper generare sempre nuovi desideri negli individui. Si badi bene: non necessità, ma desideri. In pratica i venditori di fumo hanno capito che l’uomo è per sua stessa natura inquieto. Un’inquietudine esistenziale che i venditori fanno di tutto per far credere possa essere soddisfatta dalle cose, dal possesso di questo o quell’oggetto. Un piacere destinato a svanire presto, giusto il tempo di capire che il proprio bisogno non è soddisfatto dall’oggetto che si è comprato. E l’insorgere del nuovo desiderio. Per decidere di comprare un’altra cosa. Magari più inutile della precedente.
È questo che emerge dai lavori del giornalista americano e della fotografa belga. I loro lavori sono solo apparentemente opposti. In realtà, portano tutti e due allo stesso risultato: che la società di oggi è vittima di un meccanismo distruttivo, della smania di possedere. Anche oggetti inutili. Che, proprio in quanto tali, finiscono presto per essere un problema invece che la soluzione. Un problema in termini di spesa. Di spazio necessario per conservarli. Ma anche di risorse naturali sprecate e di danni all’ambiente. Alla fine non è l’uomo a possedere questi oggetti: è lui (o lei) ad essere posseduto.
Entrambi i protagonisti di queste storie, sia Bravo che la Iweins, ne sono venuti fuori pubblicando un libro. Il primo, un libretto di poche pagine, praticamente la storia del suo anno con cento oggetti. La seconda, un libro con le oltre 12mila foto. “Ora che c’è il libro, tutto può prendere fuoco e almeno avrò questo promemoria che è esistito, che c’era. Questo progetto è stato in un certo senso una consolazione”, ha detto la Iweins. “Pensavo che si trattasse di un consumo eccessivo. E in realtà, ho capito che era più un progetto su me stessa”.
Quanti capiranno che sono vittime inconsapevoli del consumismo? Che continuando a comprare e poi comprare centinaia, migliaia, di oggetti inutili, non saranno mai più felici ma che faranno solo la felicità di chi ha fatto sì che (da circa un secolo) il consumismo diventasse la base di un’economia marcia?