“Forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…” (Il giorno della civetta, L.Sciascia Opere – 1956.1971, p. 479).
Undici anni dopo le cose non erano cambiate di molto, se Leonardo Sciascia volle che nell’ edizione scolastica del romanzo, anch’ essa pubblicata da Einaudi, fosse stampata una sua nota in cui spiegava come allora, appunto, fosse inusuale parlare di mafia facendo letteratura. Quella nota la possiamo ora leggere in appendice alla ristampa de Il giorno della civetta nella “Fabula” di Adelphi. Ed e’ utile leggerla: “…allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava. La seduta alla Camera dei Deputati rappresentata in queste pagine, e’ sostanzialmente, nella risposta del Governo ad una interrogazione sull’ ordine pubblico in Sicilia, vera. E sembra incredibile: considerando che appena tre anni dopo entrava in funzione una commissione parlamentare d’ inchiesta sulla mafia…”. E, limpidamente, a chiudere: “…ma la mafia era, ed e’ , altra cosa: un “sistema” che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato (cioe’ quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, e’ debole o manca) ma “dentro” lo Stato…”.
Così si è espresso sul tema il compianto Giampaolo Pansa su “Il Bestiario”
“Trentotto anni fa Sciascia mi spiegò “la teoria della palma” per indicare l’espansione della mafia al Nord. Tanti anni fa si pensava che la mafia sarebbe rimasta confinata in Sicilia. E che la camorra e la ‘ndrangheta non sarebbero uscite dalla Campania e dalla Calabria. Poi ci siamo accorti che non era così. Un italiano che aveva visto tutto per tempo è stato Leonardo Sciascia: grande scrittore e lucido pessimista, capace di guardare lontano. La prima volta che mi capitò d’intervistarlo fu per ‘La Stampa’ di Alberto Ronchey. Il direttore voleva pubblicare un colloquio con lo scrittore a proposito della mafia. E mi mandò in Sicilia. Era l’ottobre del 1970. Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica.
Lo scrittore mi domandò: “Conosce la teoria della palma?”. Ammisi di no. Lui proseguì: “Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all’anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono”.
Gli chiesi: “Che cosa c’entrano le palme con la mafia?”. Sciascia sorrise: “Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l’Italia del nord. Tra un po’ di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha in Sicilia. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c’erano due Stati, adesso non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l’altro. Un sistema dentro il sistema. Ha vinto il sistema di Cosa Nostra: più rozzo, più spregiudicato, più violento. E vincerà anche al nord”.
Luoghi e date diverse, un solo filo comune avvalorato dalle inchieste della magistratura e dalle indagini delle Forze dell’Ordine: la criminalità organizzata che sta divorando ovunque parti sane dell’economia e della società civile senza guardare in faccia a nessuno: supremazia sul territorio (Sinopoli) speculazione immobiliare (Gallura), traffici di droga e mattone (San Giorgio su Legnano), droga (Foggia), investimenti commerciali e finanziari (Cesena), aziende di trasporto (Firenze), locali notturni (Bologna e riviera romagnola), speculazioni immobiliari e commerciali (Padova), mercato ortofrutticolo (Fondi). Prima e dopo queste date e queste località – geograficamente cosi lontane tra loro eppure così vicine nel mondo globalizzato dell’economia criminale – centinaia di altre grandi, medie e piccole città sulle quali le mafie vecchie e nuove hanno puntato e stanno ingrassando i loro profitti che valgono – solo in Italia – almeno 44 miliardi all’anno (stime Eurispes).
Secondo il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho: “Nessuno è al di fuori e al di là del rischio dell’infiltrazione delle mafie – le mafie vanno ad investire dove trovano maggiore opportunità. Molto spesso è all’estero e non solo in Italia. Le mafie hanno sempre tratto nei momenti di emergenza, momenti di grandissimo splendore e dal punto di vista dell’investimento delle ricchezze. Noi in Italia alla costruzione, posti terremoto, quando camorra ha provato ad intercettare I flussi della pubblica spesa, e in questo modo si infiltrata in tutti i grandi appalti con le proprie imprese, e ha costituito imprese di costruzione, consorzi, etc. Pensiamo al periodo dell’emergenza rifiuti, e ancora una volta le organizzazioni criminali – mafia, camorra, ‘ndrangheta – si sono organizzate con le loro imprese, imprese specializzate nel settore, e via e via si sono sviluppate sempre di più e sono andate poi ad acquisire gli appalti per la raccolta delle scariche per agevolare l’esportazione dei rifiuti laddove lo scarico non l’accettavano più. Anche nel questo settore hanno fatto grande ricchezze”.
Previsto, detto, fatto. Da anni l’Italia è stata fertilizzata con il concime naturale su cui Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra crescono e si espandono fuori dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Campania: Governi e opposizioni cieche, Parlamento addormentato, amministrazioni locali disattente, Chiesa isolata o divisa, classe imprenditoriale impaurita e società civile apatica. Magistrati ancora una volta inascoltati in Calabria come lo furono in Sicilia Falcone e Borsellino.
Dall’agenda della politica nazionale il tema delle mafie sembra ormai cancellato. L’ultima tornata nelle principali città italiane ne è stata la dimostrazione: la parola mafia non è esistita né a destra né a sinistra. Al centro non ne parliamo.
Le leggi che avrebbero potuto e dovuto mettere gradualmente nell’angolo la criminalità organizzata si sono fatte prima attendere e poi sono rimaste nel cassetto. La lotta al riciclaggio, la tracciabilità dei flussi finanziari nelle grandi opere e l’aggressione ai patrimoni delle cosche attraverso rapide confische rimangono limitate e farraginose.
Eppure già negli anni Ottanta un giovane magistrato trasferito da Trapani a Palermo capì immediatamente che per colpire Cosa nostra si dovevano inaridire i portafogli dei boss, perché un mafioso può mettere nel conto carcere e morte ma non il sequestro delle ricchezze, segno del comando e del rispetto sul territorio. Quel giovane magistrato si chiamava Giovanni Falcone.
Sembra che il Parlamento non abbia mai letto gli atti storici dell’ultima Commissione Parlamentare antimafia che mise al centro del proprio operato il legame fra mafie e politica. Fu presieduta da Gerardo Chiaromonte. Correva l’anno 1988.
Le amministrazioni locali tirano a campare. Quelle del Sud sono spesso intimorite o tenute sotto scacco, quelle del Nord ritengono ancora che la pervasività delle mafie sia “cosa loro” e non “cosa di tutti”. Eppure basta girare nel milanese, nel reggiano, nel padovano, nel forlivese, nel mantovano, a Genova, Firenze, Roma e Torino per interrogarsi su improvvise ricchezze, attentati alle attività imprenditoriali e commerciali, curiose migrazioni di imprese edili dal Sud e diffusione di racket e usura. Tutto normale? No, la Commissione Antimafia del Comune di Milano si è insediata soltanto il 9 febbraio 2012 affiancandosi al Comitato antimafia istituito dal Sindaco Giuliano Pisapia.
E gli altri Comuni ? I quanti di essi è stata istituita, nonostante le linee guida emanate nel 2015 dal Ministero dell’Interno?
Se si eccettuano “rituali” e sempre meno partecipate liturgie di commemorazione delle vittime della mafia i cui volti impallidiscono nel ricordo della gente comune e soprattutto dei giovani, balbettano anche la Chiesa e la società civile. Per anni le parrocchie del Sud e del Nord sono state in posizione di stallo: sospese tra la denuncia e il calvario. Per la prima volta in decenni – nella Pasqua 2008 – la diocesi di Reggio Calabria, attraverso il messaggio dell’arcivescovo Vittorio Mondello, ha denunciato con forza la ‘ndrangheta. Un segnale incoraggiante, ma una rondine che non fa primavera. Decine di sacerdoti – nel napoletano, nel milanese, nel foggiano e nel reggino – alzano la voce e fanno tuonare quella del Signore contro la violenza. Molti, però, tacciono e spiace che spesso il quartiere Brancaccio di Palermo e la parrocchia locale si siano divisi, anziché unirsi, nel nome di un sacerdote che il 15 settembre 1993 ricevette il colpo di grazia dai sicari con un sorriso e una frase “vi stavo aspettando”. Quel prete era Don Pino Puglisi.
E spiace la società civile – che pure a Locri e a Palermo è stata capace di esprimere movimenti incoraggianti – sembri addormentata, ma la società civile, la borghesia del Centro e del Nord dove sono?
E dov’è l’indignazione nel novarese, nel lodigiano, nel fiorentino e nel bolognese dove pure la cosche si stanno arricchendo con la movimentazione delle terra e il nolo a caldo e a freddo nella costruzione delle linee ferroviarie per l’Alta velocità? Nessuno si interroga sul fatto che a Firenze un imprenditore toscano (attenzione: non era del Sud) è stato ucciso perché stava importando tecniche di espansione mafiosa sul territorio con la complicità dei siciliani di Cosa Nostra? Nessuno si interroga in tutte le metropoli e medie città d’Italia che spesso dietro le sale scommesse e le improvvise ricchezze dei gestori ci sono capitali sporchi? Nessuno ha dubbi sulla girandola a Roma delle licenze commerciali nelle vie del centro? E le agenzie di money transfer non sono spesso le nuove lavanderie del riciclaggio?
L’imprenditoria, il commercio, i professionisti, il sindacato, l’agricoltura e i servizi si stanno – infine – scrollando di dosso la paura. Molto è stato fatto (in Sicilia), qualcosa si sta facendo (in Calabria) e da Roma (con Confindustria nazionale, le associazioni dei commercianti e degli agricoltori) l’appoggio non manca. Ma un tassello non c’è ancora: la reazione degli imprenditori grandi e piccoli del resto d’Italia, perché le infiltrazioni dei capitali sporchi e il riciclaggio non si fanno a Crotone, ad Agrigento, a Caserta o in Capitanata, ma nel Centro-Nord, ancora ricco e appetibile.
Secondo il Capo della Polizia, prefetto Franco Gabrielli “Sul versante delle mafie, il contributo dei cittadini sarà sempre crescente. Questo anche in virtù delle esperienze precedenti in cui alcuni fenomeni sembravano essere fenomeni lontani e poi invece ci siamo accorti come in regioni del nord Italia come Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna si sono ritrovate individui con le valigette piene di soldi e che le aziende locali hanno visto come una opportunità di dare ossigeno alle proprie attività forse anche poter garantire riprese economiche in determinati settori che non riuscivano a sopravvivere tramite circuiti di credito legali”.
Un ‘emergenza tale al punto che il Progetto Datacross dell’Università Cattolica di Milano del settembre 2021 ha rilevato la necessità di indagare sulle anomalie proprietarie presenti nei paesi dell’ Unione, a rischio di assetti finanziari sospetti.
Presentando il suo ultimo podcast, “Le mani sul mondo” (2020) Roberto Saviano ha detto: ” C’è stato un momento in cui non era così: la lotta alla mafia riceveva molta solidarietà e molta empatia. Se oggi la situazione è questa è anche perché molto spesso nel mondo dell’antimafia abbiamo visto cialtroni, mitomani, gente che ha usato l’antimafia come trampolino per fare carriera in politica. C’è quindi un mondo intero deluso dall’antimafia. E poi c’è il fatto che oggi un mafioso spesso risulta molto più simpatico di un politico famoso: nell’immaginario delle giovani generazioni un boss è coerente, fa quello che vuole, ha i soldi, ha il potere e soprattutto non è falso come tutti quelli che dicono di voler fare del bene ma poi ci guadagnano, di voler combattere il male per un ideale e invece lo fanno per soldi. Quindi il mondo mafioso è visto come un mondo che ha una sua coerenza, ed è una cosa drammatica.”
Mezzo secolo dopo la prima pubblicazione de “Il giorno della civetta” abbiamo assistito al pieno intervento della mafia “ a sostegno” delle piccole imprese messe in ginocchio dalla pandemia. Ora, mentre si prepara la pioggia dei finanziamenti del Piano Nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) su centinaia di settori dell’economia e della Pubblica Amministrazione in ogni parte della Penisola e per città simbolo come Palermo sta per chiudersi un’epoca ed aprirsi l’ennesimo “assalto alla diligenza” da parte di centinaia di candidati consiglieri comunali e di circoscrizione obbligati solo ad esporre un anodino certificato penale, tenere presente il monito di Leonardo Sciascia non è solo utile ma anche necessario.