Tantissime volte mi sono occupato di commentare il fenomeno degli haters, soprattutto in questo difficile periodo, in cui siamo stati travolti dalla pandemia, ho analizzato diversi episodi di odio sul web.
Negli ultimi mesi, le forme di odio in rete si sono moltiplicate a dismisura, colpendo le categorie più deboli e più fragili. Un esempio è il “Public Shaming pandemic”.
Una delle forme peggiori è il cosiddetto “Hate Speech”. Un termine inglese che identifica il “discorso d’odio”, “incitamento all’odio”, per identificare ogni tipo di comunicazione che aggredisce o si avvale di un linguaggio discriminatorio rivolto a un gruppo, o ad una singola persona, in base alla loro religione, etnia, nazionalità, sesso o altro fattore di identità.
La crescita del fenomeno haters è la rappresentazione più evidente di una assuefazione alla violenza. L’identikit dell’odiatore perfetto è riconducibile alle persone normali nella vita che sul web si trasformano e diventano dei veri e propri “leoni da tastiera”, senza alcun freno inibitore.
I meno pericolosi, i trolls, coloro che provano gusto a disseminare dissenso, attaccare un’idea o una persona e si lanciano con commenti provocatori, nella speranza che la vittima risponda e così si apra un dibattito all’insegna dell’animosità. I più pericolosi sono i five stars haters, gli odiatori a cinque stelle, coloro che non vogliono solo irritare o offendere, ma intendono scatenare gli istinti più bassi degli interlocutori e cosi minare le fondamenta della società, avvelenare la società, generare odio, razzismo, misoginia e discriminazione.
Le motivazioni della violenza verbale, e anche fisica, sono multifattoriali e concernono svariati retaggi socio-culturali. Una possibile risposta a questi interrogativi ce la offre Zygmunt Bauman con la definizione di “società liquida”. Con questa espressione il noto sociologo polacco intende che nella modernità è entrato in crisi il concetto di comunità, di libertà, di ideologia, di rapporti e strutture sociali.
Le vittime predilette degli haters secondo una ricerca condotta dall’ Università La Sapienza e Vox Osservatorio sui diritti: il 63% delle vittime sono donne, 10,8% sono gli omosessuali, 10% sono i migranti e il 6,4% sono i disabili. Basta riflettere per comprendere quanto sia necessario invertire la rotta che sta percorrendo la nostra società.
Tutto ciò, secondo Bauman, produce una società votata al consumismo, egoista, individualista dove nessuno è più amico, ma bensì antagonista di ciascuno da cui guardarsi e difendersi. L’altro è un estraneo. Questo “soggettivismo” e l’assenza di regole, rende la società fragile e mancando ogni punto di riferimento, tutto appare liquido.
Accade anche che la propria vita personale finisca su una piattaforma social e se qualcuno ci ha offesi o feriti non esitiamo ad attaccarlo tramite i social. Purtroppo, molte volte, i nostri sfoghi non risparmiano nemmeno i nostri datori di lavoro.
In un articolo pubblicato da Altalex, Alessandro De Lucia, ha riportato una notizia relativa ad una sentenza, n. 27939 del 13 ottobre 2021, della Cassazione che conferma la legittimità del licenziamento di un ex dipendente TIM. Il lavoratore che insulta i propri responsabili sui social network incorre nel licenziamento per giusta causa.
Nel 2016 R. V, account manager dei profili social di TIM, scrive all’interno di tre email e un post sulla propria pagina Facebook diverse frasi, rivolte ai propri superiori, dal contenuto gravemente ingiurioso e denigratorio.
L’azienda, dopo aver saputo quanto accaduto, lo informa del licenziamento per giusta causa,in applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 48, lett. B, punto 4a del CCNL di riferimento, confermato anche in primo e secondo grado.
Il dipendente ha presentato ricorso in Cassazione, indicando 4 motivazioni ed una in particolare è davvero significativa. Il dipendente ha dichiarato illegittima l’acquisione della società datrice dei post presenti sulla pagina Facebook, poiché privata e aperta solo ai “propri amici”.
La Cassazione ha ritenuto infondata questa motivazione scrivendo: “Premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, pertanto da considerare come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile. Nella fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook. Il mezzo utilizzato è, infatti, idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone“.
Il messaggio non è stato inviato in una chat privata o chiusa, ma in una bacheca alla quale possono accedere gli amici dell’utente. I contatti è vero che non comprendono tutti gli utilizzatori della piattaforma, ma col tempo si possono aggiungere altri “amici” e quindi il numero dei destinatari non è né determinato né determinabile. Il numero di contatti varia col tempo.
Insomma, la Cassazione ha ritenuto scorretto il dipendente per il suo comportamento e per aver violato la dignità della persona umana tutelata dall’art 2. della nostra Costituzione. Questo atteggiamento ha compromesso l’organizzazione aziendale e minato l’autorevolezza dei vertici dell’azienda proprio per i toni disdicevoli del dipendente.
Pertanto, dobbiamo stare molto attenti a rivolgere accuse, offese e ingiurie al nostro datore di lavoro. In generale, dovremmo riflettere prima di pronunciarci su qualcuno sui social o prima di postare un’immagine che possa danneggiare un’altra persona o più persone. Questa sentenza, insieme ad altre sentenze, iniziano a regolamentare quello che è a tutti gli effetti una piazza virtuale. Continuo a ripetere quanto sia necessario educare le nuove generazioni al rispetto e alla considerazione degli altri. Viviamo in un’epoca fatta di tanti “ismi”, dove il cattivismo non lascia spazio all’amore. Seguiamo il consiglio della scrittrice Charlotte Bronte: “La vita mi sembra troppo breve per spenderla ad odiare e a tener conto dei torti altrui”.