La decisione del governo italiano (dimissionario) di prestare soldi all’Ucraina per il settore dell’educazione ha riaperto una discussione che, in realtà, non si era mai chiusa del tutto: perché i paesi europei e gli USA stanno concedendo così tanti aiuti economici all’Ucraina?
In alcuni casi, come per armi e armamenti, non si tratta nemmeno di “prestiti”: si tratta di regalare milioni e milioni di euro (o dollari). In cambio di cosa? Della “democrazia”? Leggendo i rapporti degli esperti dell’UE pubblicati alla fine del 2021 non sembra che la situazione fosse tanto rosea già prima dell’invasione sovietica. Anzi. Ma allora cosa c’è dietro tutto questo interesse? Dietro tutti i viaggi di leader europei e statunitensi avanti e indietro dall’Ucraina?
Per rispondere a questa domanda basta analizzare la situazione dell’Ucraina qualche decennio fa. Che l’Ucraina fosse un paese ricco, anzi ricchissimo, di materie prime non è una novità. Quello che pochi giornali hanno detto è che, già da molti anni, in Ucraina era in corso una spartizione di queste risorse da parte di molti paesi esteri e di potenti multinazionali.
Emblematico, da questo punto di vista, il settore della produzione agricola. Tra la fine degli anni novanta e gli inizi degli anni duemila, in Ucraina, si verificò un cambiamento epocale. Si passò da un sistema di produzione agricola di stile socialista, condiviso e basato su un gran numero di piccoli proprietari ad un sistema latifondista.
In pochi anni, il sistema agricolo cambiò radicalmente: nel 2012, il 60% di tutti i sussidi statali all’agricoltura finì nelle casse delle grandi imprese. Nel frattempo, la popolazione rurale finì sull’orlo della povertà: il 44% con redditi inferiori al minimo di sussistenza e il 7% che soffriva di malnutrizione.
Nel 2015, un altro passo avanti (o indietro, secondo i punti di vista): il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale decisero di intervenire. E con loro alcune multinazionali attirate dalle enormi potenzialità del paese (Monsanto aveva aperto un ufficio in Ucraina proprio in coincidenza con l’accaparramento di terreni con prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale). Per cercare di fermare (almeno apparentemente) l’accaparramento delle risorse, la vendita di terreni agricoli in Ucraina venne vietata fino al gennaio 2016.
Nel 2018, la Banca Mondiale incluse l’Ucraina nella lista dei paesi ricchi di risorse e poveri di risorse finanziarie che erano diventati appetibili per l’accaparramento delle terre: il 60% dei terreni agricoli ucraini risultava controllato da grandi aziende agricole, le cui dimensioni erano paragonabili al più grande latifondo diffuso in paesi come il Brasile e l’Argentina.
Nel 2020, il presidente ucraino Zelensky (allora non era come oggi onnipresente in tuta mimetica in tutti i TG) firmò una legge sulla vendita dei terreni agricoli. Una manovra multimiliardaria (in dollari) destinata, in teoria, allo sviluppo dell’agricoltura biotecnologica e alla vendita delle colture e dei prodotti chimici. Una promessa che non sorprese i tecnici: Michael Cox, direttore di ricerca della banca d’investimento Piper Jaffray, dichiarò: “l’Ucraina e, in misura più ampia, l’Europa dell’Est, sono tra i mercati di crescita più promettenti per il gigante delle attrezzature agricole Deere e per i produttori di sementi Monsanto e DuPont”.
Fuori dall’Ucraina, pochi sapevano chi fosse davvero Zelensky: di lui non si parlava praticamente mai (altro che copertine di riviste mondiali abbracciato alla moglie). E ancora meno si parlava delle proteste delle associazioni degli agricoltori per quello che fu definito “un tentativo di colonizzazione del paese”. Lo scopo della nuova legge apparve subito chiaro: un giornale di Kiev la definì “la più grande truffa del XXI secolo”. Alle proteste di piazza seguirono quelle sui social network. Si parlò del rischio di processi incontrollati che avrebbero portato all’accumulo di milioni di acri di terreno di proprietà delle banche. Una nuova forma di vecchio landgrabbing, nascosto sotto l’egida della nazionalizzazione. Un sistema noto e stranamente vicino, in termini cronologici, alle proroghe dei finanziamenti all’Ucraina da parte degli organismi internazionali (arrivati poco dopo l’approvazione della legge fondiaria). Dopo la firma della legge, un banchiere d’investimento, Sergei Fursa, definì la manovra “un’occasione persa”. Una legge che, se da un lato prevedeva di acquistare non più di 100 ettari per individuo nel periodo tra luglio 2021 e gennaio 2024, dall’altro non poneva limiti alle terre di proprietà dello Stato (vietate alla vendita ma spesso gestite da funzionari corrotti pronti a cederle sotto altre forme al miglior offerente).
La riforma agraria, inoltre, prevedeva pochi meccanismi di controllo della circolazione della terra (un affittuario poteva concedere ad altre persone il diritto prioritario di acquistare la terra consentendo la concentrazione fondiaria fino a livelli impressionanti). Secondo uno studio dell’Ufficio per le riforme del Consiglio dei Ministri ucraino, nella maggior parte delle regioni (ad eccezione di Volyn, Zhytomyr, Zakarpattia, Ivano-Frankivsk, Lviv, Rivne, Ternopil, Kherson e Chernivtsi), la quota di terra arabile utilizzata dai maggiori proprietari terrieri supera già il limite imposto dalla nuova legge, cosa questa che indica un potere monopolistico.
Con le “campagne” ucraine da parte delle grandi aziende, negli anni 2000, le condizioni socio-economiche rurali divennero spaventose. Il processo di de-collettivizzazione avviato negli anni 1990 causò livelli di disoccupazione rurale del 40%. La scomparsa del sostegno formale e informale alle famiglie (in precedenza, alle famiglie era permesso di utilizzare strutture collettive, come pascoli, macchinari e input) causò un ulteriore impoverimento e il deterioramento delle infrastrutture rurali (fino ad allora parte delle responsabilità dei collettivi).
A beneficiarne furono le grandi aziende agricole (nazionali ed estere) che rivitalizzarono la produzione su larga scala, convertendo l’Ucraina in uno dei principali esportatori al mondo di prodotti agroalimentari. Il tutto anche grazie alla totale assenza di programmi di sviluppo agricolo su piccola scala. Di livelli di corruzione diffusa e dilagante e di uno stravolgimento culturale di cui nessuno parla mai. Il tutto anche grazie ad una deformazione culturale vecchia decenni. La tradizione socialista dell’agricoltura collettiva aveva fatto sì che molti agricoltori ucraini si considerassero più dei lavoratori che dei proprietari terrieri. Questo permise alle grandi multinazionali di trovare facilmente manodopera a basso costo e lavori salariati tra quelli che un tempo erano proprietari di fattorie familiari indipendenti.
Secondo l’indagine FAO sulle fattorie del 2005, il 96% degli abitanti dei villaggi ucraini non voleva iniziare l’agricoltura individuale; il 20% degli intervistati aveva un lavoro; e il 26% desiderava un lavoro salariato agricolo. Ma non tutti i lavoratori vennero riconvertiti. La disoccupazione rurale già elevata crebbe sempre di più. Alla fine il numero di agricoltori indipendenti rimase minimo e non potè beneficiare della grande espansione agroalimentare del paese. In parte anche a causa del monopolio delle grandi aziende agricole che controllavano i mercati alimentari, la distribuzione dei terreni agricoli e ricevevano la maggior parte dei sussidi statali.
Ora, con la guerra lampo che nessuno sa quando finirà da parte della Russia questo sistema rischia di crollare provocando enormi danni alle multinazionali e il rischio di non poter più controllare la “terra” ucraina. Danni che, unitamente a quelli causati dallo sfruttamento delle altre risorse del paese (ricchissima di minerali, giacimenti e terre rare), sono più che sufficienti a spiegare non solo l’interesse di Europa e USA sulla guerra Ucraina, ma anche l’importanza economica legata alla gestione della “nuova” Ucraina una volta che la guerra sarà finita.