Quanto sta avvenendo in Ucraina non può non richiedere una riflessione più attenta di quella che, purtroppo, fanno la maggior parte dei media.
Dal punto di vista geopolitico, le origini della crisi in atto potrebbero risalire al 1989. Quell’anno, a dicembre si tenne il vertice di Malta al quale parteciparono, tra gli altri, il presidente americano George H.W. Bush e il presidente russo Gorbaciov. Parte “non scritta” dell’accordo conclusivo fu che gli Stati Uniti non avrebbero approfittato (“Non ho saltato su e giù sul muro di Berlino”) dei cambiamenti nell’Europa orientale per estendere la Nato verso la Russia. Non scritto perché in realtà questa clausola non venne inclusa in modo palese nel trattato finale di unificazione tedesca, firmato il 12 settembre 1990 dai ministri degli esteri “Two-Plus-Four” (i paesi partecipanti). Ma ne è rimasta traccia nelle missive che si scambiarono di lì a pochi giorni, Gorbaciov e il cancelliere della Germania Ovest, Helmut Kohl. Da questi documenti emergerebbe che diversi capi di stato non condividevano l’adesione dei paesi dell’Europa centrale e orientale alla NATO. La “formula di Tutzing” fu anche di numerosi dibattiti diplomatici che portarono all’incontro tra Kohl e Gorbaciov, il 10 febbraio 1990, a Mosca. In quella occasione il leader della Germania Ovest ottenne l’assenso sovietico all’ingresso della Germania unificata nella NATO. A condizione, però, che la NATO non tentasse di espandersi ad est. A confermare questo stato di cose anche le critiche dell’ex direttore della CIA, Robert Gates, di “portare avanti l’espansione della NATO verso est, mentre Gorbaciov e altri erano stati portati a credere che ciò non sarebbe accaduto”. Nei documenti è più volte ripetuta la frase “portato a credere”.
Ma non basta: la strategia degli USA di essere “più vicini ai confini sovietici” comparirebbe anche in molti memorandum sulle conversazioni tra i sovietici e gli interlocutori occidentali di più alto livello. Tutti dialoghi che si concludevano con rassicurazioni che ciò non sarebbe avvenuto. E così fu per il 1990 e il 1991. Nel 1993, Boris Eltsin, a sorpresa, propose l’adesione della Russia alla NATO. Nel farlo, però, ribadì davanti al presidente americano Bill Clinton che qualsiasi ulteriore espansione della NATO verso est sarebbe stata vista come violazione dello spirito del trattato del 1990.
Quanto è avvenuto negli anni che seguirono è storia. Nonostante le dichiarazioni di Baker che continuava a rassicurare che “né il Presidente né io intendiamo trarre alcun vantaggio unilaterale dai processi in corso” e che gli americani avevano capito che “non solo per l’Unione Sovietica ma anche per altri paesi europei è importante avere garanzie che se gli Stati Uniti mantengono la loro presenza in Germania nel quadro della NATO, non un centimetro dell’attuale giurisdizione militare della NATO si diffonderà in direzione orientale”, la NATO continuò ad espandersi verso est in modo lento ma inarrestabile. Nel 1999, entrarono a farne parte Ungheria e Polonia. Nel 2004, fu la volta di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia e Romania. Poi, nel 2009, anche la Croazia e, nel 2017, il Montenegro entrarono a far parte del Patto Atlantico. Ultima ad entrare, nel 2020, la Macedonia del Nord.
Non serve essere grandi esperti per capire cosa significa tutto questo. Basta guardare una cartina geografica per comprendere che, con questa adesione, la NATO aveva, di fatto, costruito una fascia di stati cuscinetto che si estendeva senza interruzioni dal Mar Baltico al Mar Mediterraneo. Una “frontiera” fatta proprio da quei paesi che, secondo gli accordi del 1990, non sarebbero dovuti entrare a fare parte della NATO.
Nel suo libro “Not One Inch: America, Russia, and the Making of the Cold War Stalemate”, la storica Mary Elise Sarotte descrive la Russia come impotente a rallentare l’espansione della NATO. Secondo la Sarotte, l’accusa di tradimento avanzata da Mosca sarebbe tecnicamente falsa, ma comprensibile dal punto di vista geopolitico. Per questo, nel 1997, in occasione della stipula dell’Atto di fondazione Nato-Russia, pensato per stabilire nuovi rapporti tra l’alleanza e la Russia, il ministro degli Esteri Yevgeny Primakov parlò di nuovo del “doppio gioco” di Baker. L’allora Segretario di stato americano, Warren Christopher, commissionò un rapporto interno per valutare queste accuse nel quale non si trovarono spunti legali a favore o contro una delle parti pur sottolineando che c’era stata una netta differenza tra alcune dichiarazioni e i fatti.
Oggi solo Bielorussia, Moldova e Ucraina restano a fare da cuscinetto tra le forze della NATO e la Russia. Ma non è questo il solo aspetto da tenere in considerazione per comprendere cosa ha portato alla situazione attuale. Da un lato, le pressioni esercitate da aziende produttrici di armi guerrafondaie (in crisi di astinenza dopo la fine della missione USA in Afghanistan) sono fortissime. Dall’altro, non sono da meno quelle per assumere il controllo sulle fonti energetiche in Europa.
Negli ultimi decenni, la domanda combustibili fossili ha subito un notevole cambiamento: dal petrolio si è passati al gas naturale. E la domanda dei paesi europei si è spostata dai paesi OPEC verso la Russia, grande produttrice di gas naturale. Questo ha avuto diverse conseguenze. La prima è che il prezzo del petrolio è crollato, a più riprese, fino a raggiungere minimi impressionanti. La seconda è stata la costruzione di enormi condutture per portare gas naturale dalla Russia all’Europa. Oggi oltre un terzo del gas naturale che arriva in Europa proviene dalla Russia. E uno dei gasdotti più importanti passa proprio attraverso l’Ucraina. Appare evidente che controllare questi impianti è diventato un punto strategicamente focale. Sia per la Russia che per i paesi europei (senza queste fonti di energia sarebbe quasi impossibile far fronte alla domanda sempre crescente di combustibili, come dimostrano i dati più recenti).
Ma questa non è una novità. Nel 2004, a Kiev scoppiò la Rivoluzione arancione, una rivolta anti-russa, secondo molti, sostenuta dall’Occidente. La Russia riuscì lo stesso a far eleggere Viktor Janukovyč (secondo alcuni, anche a seguito della morte per avvelenamento del suo avversario, Viktor Juščenko).
Pochi anni dopo, nel 2008, durante il vertice Nato, convocato a Bucarest, si parlò di nuovo di inserire Ucraina e Georgia nell’Alleanza Atlantica. In questa occasione, però, l’opposizione di Italia, Francia e Germania resero impossibile proseguire.
Da allora gli scontri per assumere il controllo sui paesi “cuscinetto” non sono mai cessati del tutto. In Georgia, nel 2008. In Moldova dove, a seguito della firma dell’accordo d’avvicinamento all’Europa, vennero bloccate le esportazioni in Russia. E, ovviamente, in Ucraina. Qui, nel 2014, ci fu una nuova recrudescenza dei conflitti con sanguinosi scontri nella capitale. Janukovyč venne cacciato definitivamente. Ma la risposta della Russia non si fece attendere: invase la Crimea (che si trova in posizione strategica per SouthStream) e l’accorpò al territorio russo. Ancora una volta si trattava di una mossa strategica che aveva motivazioni più economiche e geopolitiche che ideologiche: l’attraversamento del nuovo gasdotto SouthStream al di fuori del territorio ucraino ormai non più controllato.
Tutto questo è continuato fino agli ultimi mesi. Il riconoscimento formale di Mosca delle regioni separatiste di Donetsk e Luhansk nell’Ucraina orientale, ha causato la risposta della Germania che ha bloccato il progetto del gasdotto NordStream 2 del Mar Baltico, una condotta parallela al gasdotto esistente e lunga 1.230 chilometri (arriva fino a Lubmin in Germania). Il progetto, costato 11 miliardi di dollari, è stato stato completato a settembre 2021 dal gigante energetico statale russo Gazprom e da aziende energetiche occidentali come Shell ed ENGIE della Francia. Secondo la BBC, i due gasdotti dovrebbero fornire annualmente 110 miliardi di metri cubi di gas all’Europa. Più di un quarto di tutto il gas che i paesi dell’Unione europea utilizzano. Ora, dopo il blocco della Germania, è tutto fermo a tempo indeterminato. In un’intervista alla CNN, il primo ministro lettone Arturs Krišjānis Kariņš ha detto che la decisione della Germania di bloccare il gasdotto russo uccide funzionalmente il progetto. “Quello che stiamo vedendo ora è la prima ondata di sanzioni. Mentre Putin sposta unità militari in Ucraina, il mondo democratico risponde immediatamente, entro un giorno, e attraverso tutti i fusi orari, con sanzioni coordinate e molto profonde”, ha detto Kariņš.
Intanto, per aumentare il proprio potere sui paesi europei, gli Stati Uniti avrebbero anche annullato il sostegno al progetto del gasdotto del Mediterraneo orientale (EastMed) che dovrebbe portare gas naturale da Israele all’Europa sud-orientale (con Grecia e Cipro nel 2020 e l’Italia nel 2021). Lo hanno fatto senza aspettare la presunta invasione dell’Ucraina da parte della Russia: a gennaio 2022 l’amministrazione Biden ha invertito la precedente decisione e pare voler sostenere progetti di gasdotti di interconnessione tra Israele ed Egitto verso Creta e la Grecia continentale, nonché tra Israele, Cipro e l’Europa sud-orientale.
Ma non basta. Contemporaneamente, sono stati stanziati nuovi aiuti all’Ucraina: gli USA hanno promesso di finanziare fino al 2024 progetti di energia pulita sostitutiva e la Germania avrebbe istituito un fondo da miliardi di dollari per facilitare la transizione dell’Ucraina verso l’energia verde.
In questo caleidoscopio geopolitico compaiono anche altri paesi. La Turchia, ad esempio, potrebbe avere un ruolo importante nella vicenda. Anche in questo caso, non per spirito patriottico o per ragioni politiche, ma per interessi economici: alla fine del 2019, il presidente turco Erdogan avrebbe stipulato un trattato (illegale?) con il governo ad interim di accordo nazionale della Libia, creando una zona economica esclusiva turca (ZEE) nel Mediterraneo che passa proprio lungo i corridoi marittimi attraversati da EastMed (un progetto al quale gli USA si erano opposti). Non è un caso se, solo pochi giorni fa, Erdogan ha annunciato di voler inviare droni armati in Ucraina per aumentare le difese contro la Russia.
Dal canto loro, anche i paesi dell’OPEC avrebbero tutto l’interesse a che la situazione non migliori: mentre i media continuano a presentare la guerra in Ucraina sotto il profilo umano, nei giorni scorsi, l’indice del greggio Brent ha toccato il massimo dal 2014 (101,34 dollari al barile). Lo stesso hanno fatto i future sul greggio West Texas Intermediate (WTI) degli Stati Uniti che sono cresciuti di botto del 4,6%. Secondo Andy Lipow, presidente di Lipow Oil Associates, il prezzo del petrolio potrebbe salire a 110 dollari al barile se la crisi dovesse degenerare ulteriormente.
E pensare che solo poco tempo fa, tra il 2016 e il 2017, il prezzo del greggio era crollato tra i 45 e i 50 dollari al barile.
Intanto, sul fronte finanziario, dall’inizio dell’attacco russo, la Borsa di Mosca ha “bruciato” 260 miliardi di dollari, perdendo circa il 50% del proprio valore in poche ore. Molti investitori, temendo che le sanzioni occidentali potessero crescere ulteriormente, hanno iniziato a vendere le obbligazioni a Mosca e il rublo è sceso al minimo storico rispetto al dollaro (e, di conseguenza, il costo per garantire il debito russo contro l’insolvenza è salito raggiungendo il massimo dal 2009). Ma non basta: molte tra le principali società statali russe hanno presentato crolli spaventosi: Sberbank ha perso il 49%, Rosneft il 44%, Tatneft il 40%, Gazprom il 40% e Lukoil il 28%.
Un motivo più che sufficiente per certi gruppi di potere per non dire una parola ora che, in Ucraina, si parla di nuovo di guerra.
In questo scenario estremamente complicato non è ancora chiaro quale sarà la posizione della Cina che finora si è limitata a poche dichiarazioni diplomatiche. Il motivo è semplice: dal 2019, la Cina è il principale partner commerciale dell’Ucraina (ha superato anche la Russia). Negli ultimi due anni, nonostante la pandemia, gli scambi tra Cina e Ucraina sono aumentati raggiungendo 15,4 miliardi di dollari nel 2020 e quasi 19 miliardi di dollari nel 2021 (dati governo ucraino). Ma non basta: la Cina considera l’Ucraina come un hub e un nodo di transito fondamentale. Non per il gas naturale, ma per gli scampi commerciali diretti in Europa lungo la Belt and Road Initiative che è uno dei punti di forza della politica di Xi. Una rete globale di autostrade, rotte ferroviarie e porti costruiti grazie ai fondi elargiti da Pechino. Recentemente, però, Vasyl Yurchyshyn, direttore dei programmi economici presso il Razumkov Centre, un think-tank con sede a Kiev, ha descritto il rapporto rta i due paesi “incerto e problematico”. “L’Ucraina continuerà la cooperazione economica con la Cina, ma la sua efficacia ed efficienza dipenderanno completamente dalla Cina e dalla sua volontà di sostenere il nostro paese”, ha detto.
“La sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di qualsiasi paese dovrebbero essere rispettate e salvaguardate”, ha detto la scorsa settimana il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. E “L’Ucraina non fa eccezione”. La scorsa settimana, la portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha invitato tutte le parti a esercitare moderazione, ma ha respinto di definire l’azione della Russia come un’invasione.
La Cina ha più volte sostenuto le richieste di sicurezza della Russia: mercoledì ha criticato le sanzioni occidentali contro la Russia, accusando Washington di “creare paura e panico” e ha accusato la NATO per le tensioni in Europa. Ma ha anche sottolineato che non sostiene un’invasione dell’Ucraina.
Appare evidente che, a fare da ago della bilancia sulla “questione Ucraina”, più che le Nazioni Unite (il cui ruolo appare sempre più marginale) potrebbe essere la Cina. E non per motivi ideologici o politici, ma per motivi meramente economici. L’ennesima conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che l’ago della bilancia della politica internazionale si sta spostando sempre più verso est.