Quarantuno anni fa giungeva sugli schermi cinematografici “La città delle donne” uno dei capolavori più immaginifici di Federico Fellini, quasi un regalo fatto a se stesso per il proprio sessantesimo compleanno e a conclusione di una trilogia di genere, più recente rispetto a precedenti regie in tale direzione, sviluppata attraverso “Amarcord” (1973) e “Casanova” (1976).
Che Federico Fellini avesse il “vizio” delle donne non è un segreto. Del resto il suo modo unico e irripetibile di fare cinema ne è una chiara testimonianza: si pensi alla procace e sensuale Anita Ekberg che fa il bagno in piena notte nella fontana di Trevi o all’elegante Gradisca, sogno proibito del giovane inesperto Titta, e ancora alla giunonica tabaccaia entrambe in “Amarcord” all’ingenua Gelsomina de “La Strada” all’irresistibile Claudia Cardinale in “8½”. Ed è proprio in quest’ultimo film, capolavoro assoluto del maestro riminese, che Guido Anselmi, interpretato da Marcello Mastroianni, alter ego di Fellini stesso, immagina quella che una fantasia erotica comune a tanti uomini: un harem in cui tutte le donne conosciute convivono felicemente.
Nella vita Fellini quell’harem ha cercato di tenerlo allegro in tanti modi: Giulietta Masina, moglie e tenera compagna di vita, la farmacista Anna Giovannini che salvò il regista dalla depressione, la scrittrice femminista Germaine Greer, la sua attrice preferita Sandra Milo e Anita Eckberg ne “La dolce vita” solo per citarne alcune. Il suo difetto di non saper stare lontano dalle donne Giulietta Masina lo ha digerito in silenzio. Si amarono davvero. Si sposarono il 30 giugno del 1943 e non mollarono mai la presa. Si erano conosciuti due anni prima all’EIAR, così si chiamava allora la Rai, che in quegli anni aveva sede in via delle Botteghe Oscure, la futura casa del Partito comunista italiano. Per lui fu un colpo di fulmine, per lei no: «Sembra un fachiro, somiglia a Gandhi. È tutt’occhi, occhi profondi, inquieti, indagatori!».
Tante donne e Federico Fellini le amò tutte come proclamò, sei mesi prima di morire, al Dorothy Chandeler Pavillion ricevendo il sesto Oscar, stavolta alla carriera; di fronte alla moglie che piangeva a dirotto Federico disse amorevolmente: «Giulietta stop crying, stop crying. L’Oscar non appartiene a me ma a Giulietta. E’lei che devo ringraziare!». Un tributo alla moglie, alla musa e, al tempo stesso, a tutte le donne, talvolta in carne ed ossa, più spesso disegnate, del suo magico mondo. Così lo ha ricordato Lina Wertmüller “A Federico piacevano molto le donne, ma ci tengo a ribadirlo, le festeggiava con entusiasmo, baci, abbracci e poi via!”.
Probabilmente, Fellini è uno dei registi che meglio ha saputo trasporre sullo schermo il suo amore per le donne, un trasporto mai osceno o volgare, ma passionale e profondo. Le donne felliniane sono personaggi brillanti, dotati di pensiero critico e ironia, non stereotipati. Anzi, sono loro a creare un immaginario originale, mai visto prima, se non nei sogni. Una frase rappresentativa dell’amore di Federico per Giulietta Masina racchiude tutto l’affetto di Fellini per le donne: “Il nostro primo incontro io non me lo ricordo, perché in realtà io sono nato il giorno in cui ho visto Giulietta per la prima volta!”.
La sceneggiatura de “La città delle donne” è onirica come sempre e nasce dai disegni colorati a matita che costituivano l’incipit di ogni successiva regia dove la trama è solo un pretesto al servizio dell’immaginazione, un supporto materiale ad idee e suggestioni nutrite nel profondo.
Marcello Snàporaz – un ruolo impossibile da immaginare per alcuno al di fuori di Mastroianni – è un uomo maturo, incauto ed indifeso che, durante un tragitto in treno con la moglie Elena, ha un fugace flirt con una misteriosa signora; decide di seguirla scendendo alla fermata di un’irreale stazione in mezzo alla campagna. Si addentra così nei pericolosi meandri del pluridimensionale pianeta-donna.
Nel lungo viaggio che segue, il protagonista finisce per trovarsi nel bel mezzo di un albergo ove si sta svolgendo un animato e tumultuoso congresso di femministe che parlano mediante formule fisse e procedono su temi scontati che, tuttavia, Snaporaz non riesce a capire. Dopo misteriose vicende connesse con i suoi tentativi di fuga, l’uomo finisce nel castello di Katzone, un maturo santone dell’eros che vegeta in una sorta di reliquario sessuale, popolato di donne formose e provocanti, autentici simboli della donna-oggetto. Dal castello, ancora assai misteriosamente, Snaporaz finisce in un’aula di tribunale ove ritrova le femministe che lo condannano e passa in un’arena ove dovrebbero godere del suo linciaggio.
Ne esce però “vincitore” e riesce a fuggire da quello strano luogo. Si risveglia sul treno, davanti alla moglie Elena: tutto farebbe pensare a un brutto sogno, ma Marcello nota che i suoi occhiali sono rotti, proprio come nel sogno. Ancora più incomprensibile è per lui il fatto che, poco dopo, gli si siedano accanto tre donne che erano personaggi del suo sogno. Il volto di Snaporaz, inizialmente perplesso e preoccupato, subito cambia e volgendosi alla moglie esprime un compiaciuto atteggiamento di serena indifferenza.
Un andamento narrativo circolare che parte da Giulietta e ad essa ritorna come un Ulisse pellegrino che, nonostante Circe, Calipso e Nausicaa, ha solo in mente di tornare da Penelope, la figlia di Icaro e di Policaste, abituata sin da bambina a cavarsela da sola tra abbandoni infantili, solitudini coniugali ed assedi da parte di insistenti pretendenti. Non meno astuta dell’uomo che ha sposato, entra nel mito per la sua tela, divenuta metafora universale di un lavoro buono nelle intenzioni ma “impossibile”, che non potrà mai avere termine perché ogni volta ricomincia dall’inizio.
Una condizione molto simile a quella in cui sembra trovarsi ora anche il neo segretario del Partito Democratico, tornato sulla “scena del delitto” in un déjà-vu che al maestro riminese non sarebbe dispiaciuto. Pisano come il conte Ugolino, diversamente da quello è uscito senza danno e anzi rinfrancato dalla torre d’avorio di SciencePo per ritrovarsi come Penelope a dovere tessere, stavolta in poco tempo, una nuova tela prima che i Proci prendano del tutto un autodistruttivo sopravvento, in attesa che il buon senso ritorni nel partito in cui si muovono ancora vivi e vitali tanti pretendenti inadeguati.
La tela di Enrico Letta sarà intessuta con l’aiuto di donne quali le ancelle della regina di Itaca che, un po’ dimenticate nel XXII canto dell’Odissea dove fanno una brutta fine, hanno trovato nuova vita e giustizia nell’opera di Margaret Atwood “Canto di Penelope” pubblicato da Ponte alle Grazie nel 2018. Nel racconto la pluripremiata scrittrice canadese, femminista e ambientalista, si ripropone di esporre da un diverso punto di vista la storia di Penelope, considerata un modello di virtù femminili destinato a restare tale per secoli. E lo fa con il preciso scopo di mostrare il maschilismo strisciante non solo del mondo mitologico in cui si muove la sua protagonista, ma anche quello in cui si muove il lettore contemporaneo.
La trama prende le mosse da una vicenda particolare cioè l’impiccagione delle ancelle di Penelope su ordine di Ulisse, ritornato in patria. Il pregio del racconto della Atwood è celebrare quelle donne, le ancelle giovanissime che Penelope usa per spiare i Proci. È Penelope a chiedere loro di essere cortesi coi propri ospiti per entrare nelle loro grazie, anche se questo significa subire stupri. Perché queste donne diventano delle ragazze costrette a subire violenza da parte degli ospiti, una violenza che devono accettare e per cui verranno pure punite da Ulisse, in quanto considerate complici degli stupratori.
Incontrata nell’Ade e libera finalmente di esprimere la propria condanna, mai espressa in vita, per quell’atto atroce commesso del marito, Penelope rivendica giustizia per i torti subiti dalle proprie ancelle. Una riabilitazione post mortem che riconosce la verità e cioè che a salvare il regno dagli aspiranti usurpatori non sia stata solo la scusa di tessere il drappo da servire come sudario di Laerte.
Duplicità del classico come direbbe il germanista Michele Cometa a proposito degli esiti imprevedibili della cultura classica nelle epoche successive (“Duplicità del Classico. Il mito del tempio di Giove da Winckelmann a Leo von Klenze” Palermo, Medina, 1993) o rivisitazione di un mito che si trasforma come sostenuto dalla grecista Maria Pia Cattoni in “Prometeo: le metamorfosi di un mito dai testi antichi alle rivisitazioni contemporanee” EDUCATT, 2106?
Potrebbe essere interessante approfondire il tema, peraltro richiamato in altre occasioni altrove, ma non qui e non ora, dove la preoccupazione per vicende più reali e concrete spingono ad una sollecita fatica notturna.
La strategia di Enrico Letta è degna di Ulisse. Anticipata da quella apparentemente indolore della diarchia di genere applicata alla vice segreteria e rappresentata dal binomio Tinaglia-Provenzano, essa introduce ora il cavallo di Troia rappresentato dal tema forse più dibattuto in questi mesi nella società e nella politica accelerando il travaglio del partito che l’ex presidente del consiglio è chiamato ora a guidare verso la trasformazione o ad abbandonarne le spoglie residue al disastro del 2023 di cui certo non vorrà essere ricordato come capro espiatorio.
Davanti al bivio imposto dal neo segretario le correnti stanno venendo fuori in un’esplosione clamorosa delle molte contraddizioni che con un equilibrio da guerra fredda interna e le tante, troppe sottomissioni all “avvocato del popolo” oggi sul quadrante più esterno dello schermo radar, hanno tenuto il partito al governo salvo ad eroderne il consenso presso gli italiani. E la fiducia nel neo segretario sembra aver rallentato nella giornata del 22 marzo l’affiancamento da parte di Fratelli d’Italia incombente sino a pochi giorni fa
Una mossa astuta dunque quella di Letta che si inserisce nella serie “scacchistica” inaugurata da Vittorio Foa (Vittorio Foa, “Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita”, Einaudi, Torino 1991) a Matteo Renzi (La mossa del cavallo, Marsilio, 2020) dando la stura all’ uso del termine in politica e non solo, che una curiosa rassegna ha voluto raccogliere.
Nell’era Draghi stavolta gli effetti della “versione di Enrico” saranno ora dirompenti e segneranno, la fine o il rilancio in chiave moderata del partito fondato da Walter Veltroni e da Romano Prodi. Una rottamazione condotta stavolta con il consenso a denti stretti da parte dei rottamandi, a differenza di quanto avvenne alla “Leopolda” del 2013, vera data di nascita dei nemici dell’allora sindaco di Firenze.
Chi oserà infatti “sparare sulla Croce Rossa” mentre nel mondo, segnato a futura memoria da Angela Merkel, i partiti progressisti europei stanno trovando nuove chance in leader donne Kamala Harris si prepara al passaggio da Vice President a Mrs President e in Italia nomi quali Lucia Annunziata o Rosi Bindi – pur con le eventuali difficoltà in quest’ultimo caso di una successione cattolica e non laica, come da prassi seguita finora – per il Colle è sempre più citato e preso in considerazione?
Trentuno anni fa, in un tempo che appare lontanissimo, si concludeva la vicenda politica di Margaret Thatcher, la prima Mrs Prime Minister della storia del Regno Unito che, da appartenente ai Tories come Winston Churchill e l’attuale meno brillante Boris Jonhson, seppe traghettare la Gran Bretagna nella modernità, opporsi con decisione alla dittatura argentina del generale Leopoldo Galtieri, ridimensionare il potere delle Trade Unions come mai era accaduto nella storia dei rapporti sindacali inglesi e soprattutto creare le condizioni per il successo del governo della terza via di Tony Blair.
Un’intuizione nata dall’esigenza di analizzare compiutamente gli esiti delle politiche economiche di stampo keynesiano, che avevano precedentemente generato dubbi a causa di un eccessivo interventismo da parte dello Stato, e quelle neoliberiste sviluppatesi a partire dagli anni ottanta, in una fase ormai avviata alla globalizzazione, combinandole fra loro e sviluppate da alcuni partiti socialdemocratici e della sinistra liberale. Una prospettiva oggi quanto mai concreta per contrastare l’avanzata di populismi e sovranismi, di imperialismi e di democrature.
La vicenda umana e politica di Margaret Thatcher fu estremamente controversa e contestata, sovente a ragione, per le rigidità dei comportamenti, l’acceso antieuropeismo e le feroci antipatie con la Royal Family. Gli storici ne stanno ancora tracciando il profilo e discernendo, nello spirito del tempo, tra errori di breve termine ed intuizioni dalla lunga visione. Resta il fatto che nella politica di quegli anni in cui le poche donne al potere sedevano su un trono ma non in un governo e dove gli uomini si chiamavano François Mitterrand, Giulio Andreotti, Ronald Reagan e Michail Gorbaciof, Helmuth Kohl e Adolfo Suarez, la sua comparsa sulla scena mondiale ha rappresentato un evento epocale, e con l’eccezione del periclitante triennio di Teresa May, il solo governo duraturo al femminile nella secolare storia britannica.
Un ruolo che non sembra avere a tutt’oggi grandi prospettive tra i wings del Paese che pure nel 1928 estese a tutte le donne il diritto di voto già ad esse parzialmente concesso dieci anni prima su spinta del movimento delle Suffragette promosso dalle ragazze Pankhurst e delle cui battaglie Emmeline scrisse: “Per cinquant’anni ci siamo adoperate pacificamente per ottenere il diritto di voto. Ci hanno derise, picchiate e ignorate. Ora ci siamo rese conto che fatti e sacrifici devono essere all’ordine del giorno. Lottiamo perché un giorno ogni bambina venuta al mondo possa avere le stesse occasioni che hanno i suoi fratelli.”
Forse tra le tante “transizioni” annunciate questa è la prima e forse la più urgente da rendere visibile e concreta, nei partiti come nei governi, per dare il segnale di un cambiamento reale e percepibile anche nella nuova Italia che tutti aspettiamo di veder ripartire da più giuste e dignitose fondamenta.