E’ possibile ragionare di libertà senza retorica nella ricorrenza che più di altre rischia ogni anno in Italia di rimanerne vittima? E’opportuno farne un bilancio sociale e politico quando oggi saremo sommersi da centinaia di articoli e di rievocazioni che guardano al passato, non sempre in modo storicamente ineccepibile, piuttosto che alle responsabilità che abbiamo nel presente e verso le prossime generazioni?
Non si preoccupi il paziente lettore. Nessuna sponda sarà offerta a chi in questo secondo “venticinque aprile” in pandemia evoca il tema più sacro alla civiltà umana per sostenere opinioni e posizioni politiche che vedono nella ribellione alle scelte sanitarie del governo un attentato alla libertà e ne approfittano per costruire consenso sulla paura della malattia o sull’angoscia per la propria sopravvivenza economica.
Ciò che qui importa è il tentativo di comprendere se la ricorrenza dell’evento fondativo dell’Italia repubblicana che vede inevitabilmente decrescere il numero di testimoni già adulti in quel lontano 1945, trovi riscontri nella consapevolezza delle generazioni più recenti e tra i giovani. Se cioè i valori della libertà, intesa nella sua interezza e nelle sue implicazioni sulla vita di ogni giorno, siano o meno entrati a far parte della sostanza del sentimento popolare esprimendosi in comportamenti conseguenti.
C’era una volta l’Italia priva dei diritti fondamentali di libertà di opinione, di espressione in ogni forma, di aggregazione in formazioni culturali e politiche, di opportunità uguali per ceti sociali, per generi, per provenienze geografiche, per razza o per religione. Una condizione che, con accentuazioni diverse si ripeteva in ogni parte del mondo poiché anche nella Francia, patria della rivoluzione che cambiò il mondo o negli Stati Uniti che quell’ evento avevano anticipato di alcuni anni e perfino nella Gran Bretagna, patria della democrazia, talune libertà erano negate in nome di pregiudizi razziali, sessuali, politici e culturali che sovente si esprimevano in sanzioni sociali o, come nel caso dell’omosessualità, sottoforma di reati penali.
L’Europa centrale perse la propria libertà dopo l’umiliazione subita da Austria e Germania ad esito della Grande Guerra e gli eccessi della repubblica di Weimar che intimorirono la borghesia e aprirono la strada al nazismo; la Russia di Gogol e di Puskin di Dostoevskij e di Tolstoj scambiò il medio evo in cui era vissuta per secoli con il regime di dittatura più sanguinario e longevo del XX secolo e che oggi prosegue sottoforma di oligarchia economica e sociale.
L’Italia svendette rapidamente le libertà garantite dallo Statuto Albertino per proteggersi dalla violenza che era dilagata nel Paese durante il “biennio rosso” e si consegnò nella mani dell’ Uomo della Provvidenza che probabilmente avrebbe tollerato a lungo – se non l’avesse precipitata nella Seconda Guerra mondiale – come peraltro avvenne nella Spagna di Francisco Franco, il caudillo che saggiamente resto neutrale e morì nel proprio letto il 20 novembre del 1975 o nel Portogallo di Antonio Oliveira Salazar il cui regime gli sopravvisse per quattro anni fino al 1970.
Una tesi sostenuta autorevolmente dallo storico Nicola Tranfaglia – della cui conoscenza personale conservo memoria per la comune seppur breve militanza nel medesimo soggetto politico – a cui così rispose Sergio Romano sul Corriere della Sera il 28 aprile del 2011, pur evidenziando i limiti della cosiddetta “storia controfattuale”:
“Attenzione, tuttavia. Questo esercizio, anche quando è particolarmente accurato e circonstanziato, non ha alcun rapporto con la realtà. Tenterò di darne una dimostrazione immaginando che cosa sarebbe accaduto se l’Italia, dopo essere stata per qualche mese non belligerante, avesse proclamato nel 1940 la sua neutralità. La maggioranza degli italiani sarebbe stata grata a Mussolini e il suo regime ne sarebbe stato rafforzato.
Il Paese avrebbe dovuto destinare somme importanti del suo bilancio alle spese militari (la neutralità ha un prezzo) ma non sarebbe stato necessario gettare nel conflitto una buona parte della ricchezza nazionale e non avremmo dovuto, come accadde fra il 1943 e il 1945, fare l’esperienza di due micidiali guerre combattute sul territorio nazionale: una guerra tra la Germania e gli Alleati, una guerra civile tra fascisti e antifascisti.
La Gran Bretagna non ci avrebbe impedito l’uso del canale di Suez e ci avrebbe permesso di conservare le colonie, almeno sino alla fase della decolonizzazione. Avremmo potuto commerciare liberamente con i Paesi neutrali e, più prudentemente, con i Paesi combattenti. Ma non bisogna dimenticare che uno Stato neutrale non può mai essere totalmente imparziale. Quali che ne siano le intenzioni, la neutralità giova quasi sempre a una parte più che all’altra. La nostra avrebbe giovato alla Gran Bretagna e avrebbe fatto del Mediterraneo, soprattutto dopo la sconfitta della Francia, un lago inglese.
Sappiamo che l’Italia fu spesso per la Germania una palla al piede e che certi errori strategici di Mussolini costrinsero i tedeschi a intervenire in Grecia e in Libia. Ma non credo che lo Stato di Hitler avrebbe comunque permesso alla Gran Bretagna di dominare il Mediterraneo. Prima o dopo anche il nostro mare sarebbe divenuto teatro di uno scontro fra le due maggiori potenze europee.”
Resta il fatto che l’ipotesi di Tranfaglia ha trovato riscontro nell’ampio riciclaggio di larga parte della classe dirigente monarchica e fascista all’interno della Democrazia Cristiana o nella confluenza, a viso aperto, nel Movimento Sociale Italiano a lungo considerato pur con qualche forzatura “legittimo” – nonostante la disposizione transitoria della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito dichiaratamente fascista – ma “fuori dall’arco costituzionale”.
Un equilibrismo eminentemente italiano non malvisto dagli Stati Uniti in pieno delirio maccartista, interessati soprattutto a che gli aiuti del Piano Marshall non andassero a rafforzare il Partito Comunista Italiano che a quel tempo e fino allo “strappo” operato da Enrico Berlinguer nel 1981, era dipendente da Mosca in tutto e per tutto, al punto da tacere sui fatti Budapest nel 1956 e di Praga nel 1968.
Un quadro che sembra ripetersi oggi nel tentativo dell’Unione Europea di evitare che gli oltre duecento miliardi di fondi riservati all’ Italia del Recovery Plan – sulla base degli indicatori di disagio economico e sociale e non della bravura di questo o di quel presidente del consiglio – siano gestiti e governati da forze antieuropeiste da sempre, nonostante il tentativo di camuffare ciò oggi, ma con l’occhio puntato a tale enorme massa di miliardi in arrivo.
Poiché però questo articolo è dedicato all’etica della libertà, va detto immediatamente che il processo che ad essa conduce, e non a caso definito “di liberazione” non può essere cristallizzato in una data per quanto rappresentativa e fondante essa possa essere considerata e conseguentemente festeggiata. La domanda è inevitabile: a quali ed a quante libertà gli italiani sarebbero disposti a rinunciare per ottenere in cambio maggiori garanzie per il futuro dell’occupazione, un migliore funzionamento delle istituzioni e dei servizi pubblici, una minore pressione fiscale, una giustizia più veloce e puntuale sia sul piano penale che civile ed amministrativo? Secondo i sondaggi più recenti il raggruppamento cosiddetto di Destra espone complessivamente un dato superiore al 40% che rasenterebbe il 50% se vi si dovessero sommare anche i voti della parte più “centrista” e decisamente più europeista rappresentata da Forza Italia. A tale schieramento si contrappone un centro sinistra che tra Partito Democratico – tenuto insieme con notevole difficoltà da Enrico Letta nel segno di Draghi ma tallonato da Fratelli d’Italia – Movimento Cinque Stelle in piena trasformazione e cespugli vari raggiungerebbe a malapena il 40%. Quattordici regioni su venti sono guidate da amministrazioni verde-azzurro. Il mantenimento dello stato di allerta circa la pandemia e le restrizioni imposte giustamente dall’attuale governo agli operatori economici e turistici per contenere il contagio non vanno certo a premiare la sinistra.
Mantenendo l’attuale legge elettorale che assegna il premio di maggioranza al superamento della soglia del già citato 40% e ritenendo arduo che nello spazio di due anni possa verificarsi un totale ribaltamento delle previsioni ciò significa che con larga probabilità la prossima legislatura esprimerà un governo di Destra e ciò prescindendo da chiunque dovesse nel frattempo essere stato eletto al Quirinale, stante l’ininfluenza costituzionale del Capo dello Stato davanti a maggioranze elettorali esplicitamente determinate dal voto popolare con scarti inequivocabili rispetto alla parte sconfitta.
E’ il caso allora di chiedersi: la società italiana di oggi è ancora intessuta dai valori che oggi celebriamo o piuttosto da quelli della paura di un futuro complesso per il quale la Destra – che sempre ha vissuto a denti stretti tale ricorrenza, talvolta disertandola – propone soluzioni estremamente semplificate come si è visto nel primo governo di Giuseppe Conte? E se ciò avveniva in un quadro parlamentare frammentato, fin dove essa si spingerà in politica interna e internazionale potendo contare su una maggioranza definita da libere elezioni?
Certo, il Paese dispone di una Costituzione, tanto robusta e volutamente “rigida” come saggiamente voluto dai Padri che la vararono, che ha protetto i capisaldi della democrazia da incursioni di vario genere ma, va ricordato che maggioranze cospicue anche non disponendo dei due terzi in Palamento, possono modificarla confidando anche nell’esito del successivo referendum popolare che vincerebbero sull’onda di eventuali vittorie recenti.
Cosa rischierebbe a quel punto la libertà del popolo italiano? Certamente l’elezione diretta del Capo dello Stato e il passaggio da repubblica parlamentare a presidenziale, certamente una spina nel fianco dell’Unione Europea in cui probabilmente l’Italia resterebbe ma con una diversa considerazione; probabilmente un’uscita dalla zona euro che troverebbe l’iniziale plauso degli esportatori ma nel volgere di pochi anni la rovina finanziaria del Paese. Sul versante interno assisteremmo ad una svolta nelle politiche di accoglienza dei migranti, alla fine di ogni sogno di ius soli ed a consistenti restringimenti circa il conseguimento della cittadinanza italiana; assisteremmo all’esaltazione di un’italianità supponente ed arrogante i cui esiti abbiamo visto durante i quattro anni di America First culminati nell’assalto al Campidoglio del febbraio scorso, al pesante riarmamento delle Forze dell’Ordine compresa la Polizia di Stato, smilitarizzata nel 1981, a politiche protezioniste dei prodotti italiani con l’imposizione di dazi all’importazione nel sogno di un’antica quanto anacronistica autarchia che il Paese, allora come ora, non potrà mai sostenere per le caratteristiche della propria economia manifatturiera e terzista.
Nei confronti della Giustizia, infine, si assisterebbe ad una vera e propria resa dei conti che potrebbe perfino culminare nella natura elettiva dei magistrati come avviene negli Stati Uniti con la differenza che in Italia a ciò si aggiungerebbero anche la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, la responsabilità civile degli operatori di giustizia e la successiva subordinazione al potere politico: con tanti saluti alla tripartizione dei poteri che sono la base e l’essenza di ogni democrazia compiuta e bilanciata.
La riduzione della pressione fiscale, inoltre, influirebbe pesantemente sui servizi pubblici in direzione di uno sviluppo di quelli privati come già visto per la Sanità nella Lombardia di Formigoni ieri e di Fontana oggi, le cui conseguenze abbiamo visto sfilare a Bergamo in un corteo di camion militari che mai dimenticheremo. Anche i rapporti con la Chiesa Cattolica conoscerebbero momenti cruciali tenuto conto della deriva tradizionalista che Matteo Salvini e Giorgia Meloni non hanno mai nascosto di appoggiare in aperto contrasto con la svolta della Chiesa di Papa Francesco, più volte definita più simile ad una ONG a motivo del netto schieramento in favore di ultimi e di migranti e più in generale del contrasto a manifestazioni esteriori del potere ecclesiastico e della religiosità popolare vissuta con fanatismo ed intolleranza nei confronti di altri culti.
Dietro a ciascuno di quegli eventuali provvedimenti opererebbe un sistema di valori ben preciso che non ha nulla a che vedere con quelli di cui l’Italia si liberò, insieme ai suoi massimi interpreti, in quel venticinque aprile che oggi festeggiamo. Nessun nuovo fascismo, certamente, ma una nuova forma di autoritarismo mutuato da quelle democrature che nell’Est europeo, nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan, nella Confederazione Russa, in Brasile, in Egitto e, in forma diversa anche in Cina, sono lontanissime dal sentire liberale delle grandi democrazie occidentali che sconfissero – anche con il contributo di oltre venti milioni di vittime trai soldati sovietici – nazismo e fascismo con il concorso sul campo dal 1943 in poi, forse eccessivamente enfatizzato in Italia, delle Resistenze locali che in Norvegia, in Olanda e in Francia avevano iniziato ad operare quando ancora era lontano l’esito della guerra e le armate naziste marciavano sotto l’Arco di Trionfo nel segno della guerra lampo e del Reich millenario.
Abbiamo sempre inneggiato al diritto alla libertà e ciò ha reso grande l’Europa del dopo guerra facendone il modello della massima possibile realizzazione dei valori collegati di legalità e di solidarietà (moderna e più attuale traduzione di quello originario di fraternità) a cui i popoli di ogni parte del mondo hanno fatto riferimento, soprattutto dopo il crollo del Comunismo.
Se qualcosa abbiamo compreso della grande lezione della Storia, è ora venuto il momento di cominciare a parlare di dovere della libertà come atto preliminare necessario al grande privilegio di potere disporre della medesima: una definizione molto amata da Oriana Fallaci e che è il caso qui di approfondire. Nessuna libertà viene regalata a popoli ed a individui se per essa non si è lottato imponendo a se stessi innanzitutto il rigore morale e la solidarietà con i propri simili e dove l’esistenza delle regole appare come una precondizione della libertà medesima, che trova la sua origine, la sua garanzia e rinnova il suo significato autentico proprio in quel vincolo “necessitato” che risiede proprio in quel sistema di regole che troppo spesso abbiamo messo da parte in nome di un’errata e populistica interpretazione dell’”essere liberi”, vivendo come vincolo ogni limite oltre il quale vige la libertà dell’altro e del corpo sociale.
Una pericolosa tendenza che in tempi di pandemia ha visto insieme ad atti di massimo eroismo anche episodi diffusi in ogni contesto culturale e sociale di egoismo, di furbizia e di disprezzo delle regole variamente ma mai credibilmente giustificati.
Un insulto verso chi ha invece continuato a soffrire in silenzio per il senso di responsabilità verso gli altri, unico cemento di ogni società civile.
Una lacerazione della trama sociale di cui già molti fa il sociologo Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, aveva avvertito i primi segnali allarmanti successivamente confermati dalla progressiva disgregazione della società italiana che contrappone ora ceti, livelli culturali, posizioni economiche e generazioni a lungo legate da un patto di comune contribuzione allo sviluppo del Paese che chiamammo “boom economico” e che di fatto consentì di lasciare alle spalle le macerie morali e materiali della guerra. Ora le macerie sono paragonabili a quelle e pari se non superiore l’ammontare delle risorse economiche per cambiare il volto dell’Italia ma molto distante appare uno sforzo unitario dell’intero Paese, pronto a dividersi aspramente appena la tregua rappresentata pur con molti rappezzi dall’attuale governo di emergenza dovrà necessariamente cessare dopo le elezioni del 2023. L’appello che quotidianamente il Presidente della Repubblica rivolge in tal senso sembra talvolta cadere nel vuoto nonostante la maggior parte della cittadinanza sia stata toccata dal medesimo terribile evento e dalle relative conseguenze riconducibile a varie cause tra le quali non ultima il mancato rispetto delle cautele indicate e prescritte, talvolta rivendicato, in un tragico equivoco, come “libertà” avida di diritti ma digiuna di doveri.
Mille e settecento anni dopo la coerenza di Socrate e quattro secoli prima che Immanuel Kant definisse i tre imperativi categorici che tanto hanno messo alla prova generazioni di liceali e che sono il fondamento di ogni civiltà che voglia definirsi tale, il dovere della libertà indusse il Poeta di cui stiamo celebrando il settecentesimo anniversario a scolpire nella Commedia le parole con cui nel primo canto del Purgatorio Virgilio si rivolge a Catone l’Uticense, presentandogli Dante profugo ed esiliato: “Libertà va cercando ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Non dimentichiamolo in questo 25 aprile 2021 che ci coglie debitori oltre che verso i nostri padri che lo resero possibile, soprattutto nei confronti dei nostri figli e nipoti che sul “sentiero dei nidi di ragno” costellato di banalità, di false interpretazioni e di pericolosi revisionismi potrebbero rischiare di smarrirne il significato più sacro. Solo così sarà vera Liberazione che si rinnova ogni giorno e che ci auguriamo di poter celebrare per sempre una volta all’anno con gratitudine e rispetto verso coloro che l’avranno trasmessa quale preziosa ed irrinunciabile eredità.