Esistono momenti nella vita di un popolo in cui si fa la Storia. In passato bastava essere sconfitti in battaglia, perdere una guerra, soccombere in una catastrofe naturale, essere decimati da una pestilenza o respinti altrove da una carestia.
Si trattava di eventi di cui si era poco o nulla responsabili in quanto originati da un potere lontano, da una divinità dispettosa, da un fato maligno, da una natura imprevedibile.
Per millenni gli uomini si sono dovuti arrendere a tutto ciò e ancora oggi, davanti ad un terremoto o ad una inondazione riescono solo a limitare i danni ed a salvare i superstiti.
Non così avviene da oltre mezzo secolo nella vita sociale e politica di una comunità democratica. Ogni traguardo raggiunto, ogni emergenza superata, ogni ostacolo abbattuto o, all’opposto, ogni sconfitta subita, ogni diritto negato, ogni libertà oppressa dipendono solo da altri uomini chiamati e scelti liberamente per governare e amministrare i diritti, fruibili attraverso i servizi, e i beni, generando valore dalle risorse, di cui un territorio e un popolo dispongono.
Vi è allora una stretta relazione tra il destino di un popolo e la sua capacità di darsi i migliori governanti e nessuna recriminazione è consentita quando tale processo avviene in un regime di libertà di espressione del consenso e di scelta tra opzioni diverse.
Le regioni del mondo che sono progressivamente scomparse dalla scena, pur vantando ruoli importanti nel passato e fondamentali contributi allo sviluppo della civiltà umana, sono oggi o sono state a lungo quasi tutte soggette a regimi coloniali o totalitari e solo da pochi anni si sono affacciate alla democrazia, in molti casi, come avvenuto nel mondo arabo, a seguito di rivolte del popolo.
In occidente e sommamente in Europa, dove la democrazia è patrimonio comune da tanti decenni, ogni errore di governo, ogni errata soluzione ai problemi collettivi, ogni irregolarità nell’amministrazione della cosa pubblica è stata immediatamente sanzionata nell’unico modo possibile in una società evoluta: chi ha governato, ha amministrato, ha avuto responsabilità di ogni genere è “semplicemente” scomparso dalla scena e nessuno si è più occupato o preoccupato del suo destino. E se inoltre, ha commesso reati, ha scontato la propria pena secondo le leggi penali del proprio Paese.
Da noi nessun partito, movimento, forza sociale o associazione si soffermata a cercare – trincerandosi dietro un garantismo di maniera, specifici “distinguo”, articolate “deroghe”, sofisticate giustificazioni o altro – di superare se stesso, il proprio passato, i propri dirigenti.
In altre nazioni persino “padri (o madri) delle patria” come Helmuth Kohl, Francois Mitterrand o Margaret Thatcher sono stati presto dimenticati e nulla hanno fatto, talvolta pur meritandolo, per riproporre se stessi in fasi successive di una società che, storicamente, li aveva ormai superati.
Nulla di tutto questo accade in Sicilia, dove il costume locale coincide con la perennità di comportamenti politici che, direttamente o indirettamente, continuano ad esercitare una drammatica influenza su scelte importanti per la collettività, imponendosi, di fatto, a governare un eterno presente.
Tale pratica perniciosa ha trovato addirittura la propria teorizzazione attraverso il passaggio, “armi e bagagli” di consensi e compensi tra generazioni familiari, potentati locali, egemonie tribali che hanno impedito di fatto il rinnovamento reale della classe dirigente.
In Sicilia, ancora oggi, i consensi si ereditano come un tempo i feudi con dentro costruzioni, attrezzi, armenti, famiglie intere di “anime morte”. Tali patrimoni materiali e immateriali passano, più o meno intatti, dai padri ai figli, dagli zii ai nipoti, dai notabili ai propri eredi e, tranne che in alcune particolarissime fasi storiche, non conoscono soluzione di continuità.
Raramente in Sicilia, regione con profilo statutario estremamente vicino a quello di una nazione, una consultazione elettorale ha radicalmente innovato il quadro del potere permanente, ha significativamente rimodulato gli assetti del potere, ha ribaltato consolidate situazioni egemoniche.
Ne è conseguita una sorta di continuità che ha impedito vere rotture con il passato, il sorgere e l’affermarsi di nuove soggettualità e di nuove personalità politiche. In una sola espressione, la Sicilia non è mai veramente cambiata.
Ha iniziato, rifiutando la Rivoluzione Francese ed accogliendo a braccia aperte Ferdinando II e la corte in fuga da Napoli, ha continuato attraverso un Risorgimento promosso da pochi intellettuali e da molti massoni, ha proseguito non epurando gli esponenti del Fascismo locale e integrandoli piuttosto in modo indolore nella Democrazia Cristiana.
In anni recenti, La Sicilia ha persino utilizzato la cosiddetta antimafia per proteggere i tardi epigoni di quella stessa mafia che, sempre attenti a che vi fosse una telecamera ben puntata, proclamavano di voler combattere.
I siciliani dunque non possono cambiare perché non hanno mai veramente voluto cambiare. Sono atterriti dal solo pensiero di restare senza padri, padroni e padrini, hanno orrore di doversi confrontare con logiche di governo che non siano quelle del privilegio, dell’appartenenza, della protezione.
E ciò, nonostante l’esito di tale modo di pensare ed agire sia sotto gli occhi di tutti, nonostante i beneficiati siano stati una parte limitatissima della popolazione, nonostante il disprezzo verso tale asimmetria politica sia ormai palese in ogni parte del mondo, relegando la Sicilia e le sue città in fondo ad ogni genere di classifica europea.
Persino davanti alla catastrofe, alla voragine di un deficit di 7,3 miliardi di cui 6,286 miliardi sono già stati spalmati in gran parte nei bilanci dei prossimi trent’anni, nessun moto popolare chiede conto dei responsabili, nessuna folla in tumulto ne denuncia i nomi pubblicamente, nessuna madre, squarciandosi il petto, ne maledice irrevocabilmente il destino.
Ieri Forza Italia con il plebiscitario “61 a 0” poi il peggior Partito Democratico della storia siciliana con Rosario Crocetta, adesso la Destra nostalgica, presto la Lega di Matteo Salvini che ha già imposto ad un Presidente non riluttante, i propri proconsoli: piuttosto, che ribellarsi, i siciliani ancora una volta guardano all’esterno, offrendosi a chi verrà a salvarli, non curandosi di null’altro che di continuare ad annacarsi, cioè di mobilitarsi il meno possibile per evitare ogni vero cambiamento, per escludere ogni rischio che il paradigma venga solo parzialmente messo in discussione.
Per tale regione ho motivo di ritenere che nulla accadrà fino alle prossime elezioni – e forse anche dopo – che possa veramente imprimere una svolta alla Sicilia. Mancano le più elementari condizioni perché ciò accada: leaders capaci di disegnare e perseguire nuove prospettive di sviluppo, candidati all’Assemblea Regionale Siciliana che possano rischiarare il buio con sprazzi di futuro attraverso la pratica di linguaggi, idee e processi di governance capaci di riallineare la regione al resto dell’Europa.
La Sicilia rischia, stavolta seriamente di passare dalla giungla degli sciacalli e delle iene (i gattopardi sono scomparsi da un pezzo) alla palude definitiva in cui tutto sarà immoto: una superficie limacciosa sotto la quale continueranno a muoversi indisturbati e invisibili i voraci coccodrilli di sempre.
Non resta allora che “sparigliare” il gioco che, tanto saggiamente, è stato preparato a tavolino dalle intelligenze finissime di cui la nostra terra abbonda.
Come al giocatore incauto che improvvisamente si rende conto di essere stato fino ad allora seduto al fianco di bari professionisti, cui non può opporre né ragionamento nè forza, non resta che far saltare il tavolo, mandarlo a gambe all’aria, far prevalere quella “corda pazza” che forse può veramente mettere tutto in discussione, pur facendo pagare prezzi altissimi ad almeno due generazioni, costrette alla definitiva e sacrosanta emigrazione verso altri Paesi europei in cerca di riconoscimento del merito e delle capacità personali e professionali qui mortificate da decenni.
Dei quattro cavalieri dell’Apocalisse nessuno ha trascurato la Sicilia: Guerra di mafia proteiforme e di antimafia di facciata, Carestia di idee, di prospettive e di lavoro, Pestilenza morale anche tra i rappresentanti dei poteri pubblici, Morte economica e, conseguentemente, civile.
Essi stanno galoppando in mezzo a noi già da anni ed oggi sono guidati dagli effetti economici dell’epidemia che, pur avendo inciso relativamente sul numero dei contagi, sta spazzando via un’economia, già fragilissima ed a rischio, quale quella che illusoriamente si è preteso di costruire sul turismo, approfittando della crisi politica dei paesi nord africani ma senza aver appreso da essi alcuna lezione in merito ad infrastrutture, collegamenti a basso costo, prezzi e destagionalizzazione. Una bolla, dunque, che il COVID 19 ha fatto facilmente evaporare.
Dopo l’effimera e rischiosa riapertura, pensata più per dare fiato ai pochi operatori sopravvissuti, caratterizzata da un’voluta opacità dei dati epidemiologici e di cui, di questo passo, pagheremo presto il prezzo, in autunno soffierà un vento panico, folle e irrazionale.
Saprà spazzare via i buoni e i cattivi, presenterà il conto al giusto e al peccatore (tanto, come disse qualcuno «Dio saprà riconoscere i suoi…») cioè a chi ha governato e a chi si è opposto talvolta in buona fede ma, più spesso, recitando una parte da copione, a chi ha colpevolmente permesso con il proprio voto di sempre che nulla cambiasse?
Ho difficoltà a crederlo, così come non nutro alcun fiducia nel buon utilizzo dell’enorme quantità di fondi che con il Recovery Fund pioveranno anche in Sicilia ma potrebbero essere gestiti da una classe politica miope e priva di un orizzonte progettuale adeguato e da una burocrazia definita proprio dal Presidente della Regione come intenta nella misura dell’80% “a grattarsi la pancia” oltre ad alimentare il fiume carsico della mafia che non ha mai smesso di scorrere nel sottosuolo della società, della politica e dell’economia siciliana, alimentando corruzione e sprechi di ogni genere.
Lo scrittore rumeno Emile Cioran nell’opera Un apolide metafisico, Adelphi, Milano 2004, ha annotato: «Anticamente c’era la paura della fine del mondo − qualcosa che sarebbe successo in un futuro − ma oramai l’apocalisse è presente di fatto, nelle preoccupazioni quotidiane di tutti.»
Solo quando un giorno lontano di cui ancora si non vede l’alba, nulla, veramente nulla, sarà rimasto del passato e del presente, forse si potrà cominciare a ricostruire sopra inedite fondamenta un nuovo destino per una terra più degna di meritare il futuro.