Per molti anni, per più di un decennio, il Libano è stato il primo paese per accoglienza dei rifugiati in fuga dalla Siria. Un paese massacrato da una guerra della quale non si parla più ma che non è mai finita. Un numero enorme di persone si sono “rifugiate” in Libano. Una situazione che aveva fatto del Libano il primo paese che ospita il maggior numero di rifugiati in relazione alla popolazione locale: si stima che attualmente in Libano ci siano oltre 1,5 milioni di rifugiati (su un totale di 6,7 milioni di persone che hanno lasciato la Siria dal 2011). Al punto che le autorità libanesi aveva più volte ripetuto di non essere in grado di gestire questi flussi. Una situazione che aveva portato le agenzie impegnate sul territorio a definirla non più una situazione di emergenza, bensì una protracted crisis. Tanto che solo il 22% dei rifugiati adulti entrati in Libano hanno ottenuto un permesso legale di residenza. Una percentuale che continua a diminuire anno dopo anno a causa della difficoltà di gestire questi flussi da parte delle autorità libanesi. E che ha portato il governo libanese a dire che tutti coloro che avevano fatto ingresso illegale dopo aprile 2019 sarebbero stati rimpatriati immediatamente.
Innumerevoli i problemi sociali. Specie per i più piccoli. Molti i minorenni tra i 5 e i 17 anni sfruttai come manodopera a basso costo, prevalentemente nell’agricoltura (spesso senza alcun contratto o altro). Tantissimi i casi di violenze sui minori: secondo alcune associazioni umanitarie, un minore su due sotto i 14 anni avrebbe subito una qualche forma di violenza fisica; sei su dieci violenza psicologica. Molti i matrimoni precoci (il 29% delle ragazze tra i 14 e i 19 anni). E tantissimi i casi di apolidia.
In una situazione come questa parlare di diritto all’istruzione è ridicolo: solo i due terzi della popolazione siriana tra 6 e 14 anni ha potuto ricevere lezioni. Una percentuale che si riduce drasticamente per i livelli di istruzione più elevati: solo il 22% dei ragazzi tra i 15 e i 17 anni ha frequentato un liceo. Per molti rifugiati in Libano anche trovare un tetto sotto il quale vivere è difficile: già nel 2019, solo il 69% dei rifugiati siriani in Libano viveva in strutture “residenziali” ma sovrappopolati (oppure in condizioni al di sotto dei minimi standard umanitari e/o in pericolo di crollo). Un altro 20% vive in strutture “non permanenti” (tende/prefabbricati) e l’11% in strutture “non residenziali”. Drammatica la situazione sanitaria. A più di “10 anni dall’inizio della crisi in Siria, milioni di rifugiati affrontano difficoltà senza precedenti a causa della crescente povertà, della mancanza di opportunità e dell’impatto del COVID-19” aveva dichiarato l’UNHCR.
Una situazione assolutamente critica che, nel 2022, aveva costretto il governo libanese a decidere di rimpatriare molti rifugiati siriani. A denunciare questa situazione un rapporto di quell’anno di Human Rights Watch intitolato “I Can’t Go Home, Stay Here, or Leave”: Pushbacks and Pullbacks of Syrian Refugees from Cyprus and Lebanon. Tutto questo nonostante gli aiuti in denaro arrivati dall’Ue: tra il 2020 e il 2023, l’Unione europea aveva stanziato 16,7 milioni di euro per progetti di gestione delle frontiere. A maggio 2024 è stato vagliato un altro pacchetto di assistenza finanziaria per il Libano del valore di un miliardo di euro, che avrebbe dovuto essere erogato entro il 2027, comprende anche risorse per “le forze armate libanesi e altre forze di sicurezza equipaggiate e addestrate per controllare le frontiere e combattere i trafficanti” (bruscolini rispetto ai miliardi di euro in armi e armamenti concessi all’Ucraina). Come sempre obiettivo principale di questi “aiuti” non era aiutare i paesi beneficiari ad accogliere i rifugiati ma controllare la migrazione irregolare ed evitare gli arrivi in Europa.
Misure che, come in altri casi, non sono serviti a molto. La Direzione generale per la sicurezza del Libano, che regola gli ingressi e lo status di residenti delle persone straniere, ha comunicato che fra gennaio 2022 e agosto 2024 sono stati arrestati o espulsi 821 siriani che cercavano di lasciare il paese a bordo di 15 imbarcazioni (probabilmente diretti in Europa o in altri paesi di transito verso l’Ue). L’unica soluzione per il governo libanese è stata il rimpatrio in Siria (anche questo in violazione del Diritto Internazionale Umanitario). “Impedendo ai rifugiati siriani di lasciare il paese per cercare protezione altrove, e costringendoli al rimpatrio in Siria, il Libano viola il divieto assoluto di rimpatriare i rifugiati verso paesi in cui sono a rischio di persecuzione. Tutto ciò col supporto dell’Unione europea”, ha detto Nadia Hardman, ricercatrice sui diritti dei migranti e dei rifugiati di Human Rights Watch.
Già prima dell’acuirsi degli scontri con Israele, il Libano aveva dovuto affrontare una serie di crisi che avevano portato il paese in condizioni socioeconomiche disastrose. Ora, dopo gli ultimi attacchi di Israele, che pare non avere ancora saziato la propria fame di morti in guerra, la situazione in Libano si è invertita: decine di migliaia di civili stanno cercando di attraversare la frontiera con la Siria ritenendo questo paese “più sicuro” del Libano. “Ci sono jet che colpiscono obiettivi su aree civili, non solo al sud, ma anche nella capitale. Abbiamo la guerra in casa e nessuno sa cosa ci porterà il domani. Siamo tutti terrorizzati che sul telefonino ti arrivi il messaggino dell’esercito israeliano che avverte: abbandonate l’edificio, entro mezz’ora lo bombardiamo”, ha dichiarato Maurizio Raineri, responsabile per il Libano di WeWorld. Anche nella capitale, a Beirut, non si usano i sistemi di allerta generale: i segnali che una zona sta per essere bombardata “vengono mandati ai cellulari che si trovano in una certa zona, dove si prevede di fare un bombardamento”. È successo nella valle della Bekaa, ma anche nella periferia sud di Beirut. “Ti danno mezz’ora, poi buttano giù tutto”. “Magari così sopravvivi, certo, ma ti distrugge psicologicamente. E forse è anche quello l’obiettivo, farti sentire impotente”, ha detto Raineri.
Per molti non c’è altra scelta che scappare. Dove? In questo momento la direzione più sicura è quella che fino a ieri era la più critica: la Siria. Il dato diffuso nei giorni scorsi dalla Nazioni Unite parla di oltre 111mila persone scappate per rifugiarsi da amici e parenti o nelle strutture allestite da chiese e moschee (se ne contano oltre una cinquantina, ma il loro numero sta aumentando). Per il ministro degli Esteri libanese “gli sfollati sono vicini al mezzo milione”. Intanto le autorità libanesi hanno deciso di chiudere le scuole e le università. Come avvenuto nella Striscia di Gaza questo produrrà ferite che non sarà facile rimarginare: per i più piccoli significherà non andare a scuola per non si sa quanti mesi: per i più grandi perdere il lavoro, la propria fonte di sostentamento.
Ma di tutto questo non importa nulla a chi ha deciso di radere al suolo tutto quello che trova. La strategia è la stessa adottata nella Striscia di Gaza: sono stati oltre 2mila gli ordigni sganciati in sole 24 ore. Senza rispettare nessuna regola, nessun trattato internazionale umanitario. Nemmeno quelli che ha firmato negli anni scorsi. Non c’entrano nulla gli ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre 2023. L’obiettivo degli attacchi degli israeliani in Libano è la distruzione di tutto e tutti. Creare una striscia di deserto generando nelle persone che ci vivevano il terrore di tornare, un giorno, a casa propria.
Per questo molti hanno deciso di fuggire. Anche a costo di andare in un altro paese pericoloso: la Siria, dove la guerra va avanti da oltre un decennio. Un’altra guerra della quale non sembra interessare più a nessuno. Nessun leader ne ha parlato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dei giorni scorsi. La passerella al palazzo di vetro non è servita a far cambiare idea a nessuno, né in Ucraina né a Gaza né in Libano e in nessuna delle decine di guerre in atto. Ciò nonostante le Nazioni Unite hanno convocato per mercoledì una riunione di emergenza sul Libano. Ben sapendo che le decisioni che verranno prese dai 15 Stati membri intorno a quel tavolo non basteranno a fermare la strage di innocenti in atto.