Nei giorni scorsi la premier Meloni è volata a Kiev per un incontro multilaterale (presente anche l’ormai… onnipresente von der Leyen oltre a un paio di capi di governo europei) con il presidente ucraino Zelensky.
Al termine, la Meloni e Zelensky hanno sottoscritto un accordo “decennale” che prevede numerose cosette. Immancabili le polemiche. Molte delle quali, a dire il vero, più che giustificate.
La prima riguarda la durata dell’accordo: dieci anni. Ma il mandato del governo Meloni è iniziato a ottobre 2022. Questo vuol dire che dovrebbe concludersi molti anni prima del termine dell’accordo sottoscritto. Anche per la controparte non c’è alcuna certezza che tra dieci anni sia ancora Zelensky a guidare l’Ucraina. A dire il suo mandato scadrebbe proprio nel 2024. E non sono poche le polemiche dovute al fatto che l’attuale presidente non abbia ancora indetto nuove elezioni. Firmare un accordo a dieci anni, quindi, non si baserebbe su basi solide.
Ma c’è un altro punto che dovrebbe far pensare. Un aspetto molto più importante. Non è la prima volta che la premier firma un accordo internazionale senza aver consultato il Parlamento. La Meloni sembra aver dimenticato che il ruolo del governo è “esecutivo”. Il potere decisionale è del Parlamento (a meno di casi eccezionali come guerre e pestilenze). In particolare, per ciò che riguarda la “negoziazione e conclusione” di accordi internazionali, sembrerebbe che la Costituzione italiana non abbia previsto un procedimento “esaustivo”. Tuttavia, il combinato disposto degli articoli 87 ed 80 Cost., affiderebbe al Presidente della Repubblica la ratifica dei trattati internazionali e al Parlamento il compito di autorizzare con legge la ratifica dei trattati “che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”. Ma negli accordi internazionali firmati fino ad oggi non sembrerebbe esserci nulla di tutto questo. Tra i giuristi, c’è chi che ha tentato di giustificare il potere del governo di impegnare lo Stato nei confronti dell’ordinamento internazionale senza la ratifica del Presidente della Repubblica, perché il governo godrebbe di una delega tacita delle funzioni di cui il Capo dello Stato sarebbe titolare ai sensi dell’art. 87 Cost.12. C’è stato anche chi ha cercato di legittimare la prassi degli accordi in forma semplificata limitandone il campo di applicazione solo alle materie di settore dei singoli Ministri. Purtroppo, l’accordo sottoscritto nei giorni scorsi non riguarda solo un Ministero. Né risulta esserci stata una delega in tal senso da parte del Presidente Mattarella o del Parlamento.
Per cercare di giustificare queste (e altre) stranezze, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani aprendo la sua audizione alle Commissioni riunite Esteri della Camera e Esteri e Difesa del Senato, si è precipitato a specificare che l’accordo è a costo zero. In realtà l’art. 17 dell’accordo firmato dalla premier dice una cosa leggermente diversa: “Le spese derivanti dall’attuazione del presente Accordo saranno coperte dai Partecipanti in base alle loro ordinarie disponibilità di bilancio senza alcun costo aggiuntivo per il bilancio dello Stato della Repubblica italiana e dell’Ucraina”. Quindi non sarebbe un accordo a costo zero. Solo non dovrebbe comportare spese extra. Ma anche questo aspetto dovrebbe destare non poche perplessità: come si fa ad impegnarsi a coprire delle spese attingendo “alla ordinaria disponibilità di bilancio” se non si sa quali saranno i bilanci dei prossimi dieci anni?
E ancora. L’accordo prevede che “L’Italia continuerà a sostenere l’immobilizzazione dei beni sovrani russi fino a quando la Federazione Russa non avrà pagato per i danni che ha causato all’Ucraina”. Sempre ovviamente che i titolari di questi beni (che non sono pubblici ma di soggetti privati) non vincano le numerose cause che hanno già intentato nei confronti di chi ha sequestrato i loro beni.
E tutto questo partendo da un presupposto: che la Russia esca sconfitta dal conflitto in corso ormai da oltre due anni. E si ritiri quatta quatta. Ma a guardare bene tutto questo è tutt’altro che scontato, nonostante i miliardi di dollari in armi e armamenti regalati dai Paesi occidentali all’Ucraina (che, è bene ricordarlo una volta di più, non è né un Paese Nato né membro dell’Unione Europea). E finora a non aver voluto sedere al tavolo dei negoziati di pace non è stata la Russia ma l’Ucraina.
L’elenco dei punti discutibili dell’accordo appena siglato (ammesso che sia legittimo) è lunghissimo. Per comprendere il vero significato di questo pezzo di carta, forse è opportuno riascoltare le parole pronunciate alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dal vicepremier e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani, che ha parlato di alcuni accordi con cui il nostro Paese sosterrà il settore energetico ucraino: “L’Italia è stata al fianco dell’Ucraina sin dall’inizio dell’aggressione russa e oggi confermiamo la nostra volontà di aiutare gli amici ucraini anche nel settore strategico delle infrastrutture energetiche”. Ecco, forse è questo il vero motivo della fretta per firmare un accordo bilaterale con l’Ucraina (ma praticamente identico a quello firmato pochi giorni fa, sempre con l’Ucraina, da altri Paesi europei): essere pronti, a guerra finita, a spartirsi la torta della ricostruzione dell’Ucraina. E avere un accesso privilegiato alle sue notevoli risorse primarie del Paese.
Tutto questo, ovviamente, nella speranza che la guerra finisca nel modo che vogliono i governi occidentali e che il costo per sostenere l’Ucraina non diventi eccessivo (ammesso che non lo sia già). Nel documento appena firmato si ricorda che, “dall’inizio della guerra, l’Italia ha sostenuto in modo globale [che vuol dire in modo “globale”? n.d.r.] l’Ucraina, fornendo assistenza in vari settori. Tra questi, 110 milioni di euro sono stati stanziati per il sostegno al bilancio, 200 milioni di euro per prestiti agevolati, 100 milioni di euro per gli aiuti umanitari, 820 milioni di euro per il sostegno ai rifugiati ucraini in Italia, circa 400 milioni di euro per il sostegno macrofinanziario, 213 milioni di euro per sostegno allo sviluppo, 200 milioni di euro a sostegno della sostenibilità energetica dell’Ucraina” e ha “fornito all’Ucraina 8 pacchetti di aiuti militari nel 2022 e nel 2023 e intende mantenere lo stesso livello di sostegno militare aggiuntivo nel 2024”. Oltre 2 miliardi di euro senza contare gli aiuti militari e i costi che la Difesa dovrà sostenere per rimpiazzare armi, mezzi, equipaggiamenti e munizioni regalati a Kiev in questi due anni.
Intanto, c’è già chi ha parlato della possibilità di vendere (non regalare) all’Ucraina due minisottomarini militari. Ma anche questo solleverebbe mille polemiche: vendere armi ad un Paese in guerra non significa fornire aiuti umanitari. Significa altro. Ma questo nessuno lo dice.