“I have a dream…”. Con queste parole, il quel 28 agosto del 1963, Martin Luther King iniziò il proprio discorso a migliaia di americani di colore giunti da ogni parte degli USA per condividere con lui un sogno: quello di avere gli stessi diritti ma anche essere considerati (le due cose non coincidono) come i bianchi. Molti discendevano da schiavi. Il sogno di Martin Luther King era vedere “i figli di chi era stato schiavo ed i figli di chi aveva posseduto schiavi” finalmente eguali di fronte alla legge come di fronte a Dio – intorno al “tavolo della fratellanza”. La data scelta da Martin Luther King non era causale. Negli USA, un secolo prima era stata emanata la Emancipation Proclamation di Abraham Lincoln, del 1863. Una legge che (in teoria) aveva abolito la schiavitù negli Stati Uniti d’America. Ma che non aveva reso bianchi e neri uguali.
Sono passati altri sessant’anni. Che fine ha fatto quel sogno? Ancora oggi, spesso, i progressi e la parità dei diritti valgono più sulla carta che nella realtà. Nella vita reale esistono enormi differenze sociali e razziali. Anche negli USA. A cominciare dal titolo di studio. Gli americani bianchi laureati sono quasi il doppio dei neri (è laureato il 21% dei trentenni neri contro il 38% dei bianchi). Anche il diritto al lavoro pare non essere lo stesso. Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione fra gli afroamericani è doppio rispetto a quello della popolazione bianca caucasica. E così i compensi. Un “nero” americano su cinque prende meno di 15 mila dollari annui. Il 12% meno di 25 mila dollari. Percentuali ben diverse da quelle degli americani “bianchi”. La conseguenza è facilmente immaginabile. Il tasso di povertà per gli afroamericani (e gli ispanici) è molto superiore di quello dei bianchi: si aggira tra il 27% e il 23,5%. E negli ultimi decenni la situazione non è cambiata poi molto: nel 1968, quando Martin Luther King condivise il suo “sogno”, i neri in condizioni di povertà erano un terzo degli afroamericani (il 34%).
Negli ultimi decenni, il reddito delle famiglie afroamericane è passato dai 34 mila dollari del 1990 ai 41 mila di oggi, (+21%). Ma se si guarda al colore della pelle si rileva che quello delle famiglie bianche è passato da 56 mila dollari a 70 mila dollari (+24%). Ciò significa che, in realtà, il gap fra i redditi di bianchi e neri è aumentato (da 22 mila dollari annui a 29 mila dollari). Guadagnare di meno significa potersi prendere meno cura della propria salute (nonostante quanto affermato recentemente da un politico italiano): in tutto il mondo, povertà significa peggior cibo, peggior qualità della vita e più malattie. La prova? Negli USA, tra il 2007 e 2010, al 16,9% degli afroamericani è stato diagnosticato il diabete (praticamente uno su cinque), contro il 9,5% di incidenza sui bianchi. Cattiva alimentazione significa anche obesità (e problemi connessi). Tra i neri, l’obesità infantile è più del doppio (14.7%) rispetto a quella registrata tra i bianchi (6,4%). Dati che non potranno che avere una conseguenza: l’aspettativa di vita per una persona di colore minore rispetto a quella di un bianco.
Ma non si muore solo di malattia. Gli USA sono il Paese delle armi da fuoco. Negli ultimi decenni, il “diritto” di proteggere la propria persona è diventato il diritto, per le multinazionali delle armi, di vendere sempre più armi. Negli USA, le armi vendute sono un numero impressionante. E molte volte non sono usate per difesa ma per uccidere. Anche in questo caso, la differenza tra neri e bianchi è notevole. Per un giovane afroamericano, il rischio di finire ammazzato è molto più alto che per un bianco: nel 2010, ogni 100mila persone uccise, tra i 25 e i 34 anni, 76 erano ragazzi di colore. Nove volte di più del numero delle persone di razza bianca della stessa classe di età. 14 volte la percentuale della popolazione degli Stati Uniti nel suo insieme.
Criminalità significa carcere. E anche qui le differenze tra bianchi e neri erano e restano notevoli: i neri che finiscono in carcere sono molti di più dei bianchi. E ancora di più quelli condannati a morte. Nel 2003, fece scandalo una ricerca condotta dall’Università del Maryland, collegata agli studi di Amnesty International. Dall’analisi dei dati emergeva che il criterio con il quale molte giurie avevano emesso una condanna a morte poteva essere riconducibile a forme di razzismo. Ancora una volta, sono i numeri che dimostrano la differenza che c’è negli USA tra essere bianco e avere la pelle nera: gli afroamericani rappresentano circa il 12% dell’intera popolazione statunitense ma la percentuale di detenuti in attesa dell’esecuzione della pena capitale sono per il 42% neri. Nel Paese che da decenni si erge a paladino dei diritti umani in tutto il mondo, la discriminazione razziale è ancora una realtà dimostrata.
Di queste disparità si parla poco. Solitamente lo si fa in occasione di qualche anniversario. O in casi estremi. L’ultima volta dopo l’omicidio per strada di un nero innocente da parte un poliziotto bianco: il caso “George Floyd”. Ma quel caso non era un caso isolato. Da anni, negli Stati Uniti, vengono denunciati casi di maltrattamenti e omicidi di neri da parte di poliziotti. Secondo Francesco Costa, autore del libro Questa è l’America, “non esiste [in America] un solo tipo di reato che non veda ancora una gigantesca sproporzione di pene e condanne a svantaggio dei neri; e il progressivo irrigidimento delle norme ha permesso di condannare all’ergastolo anche ragazzini di tredici anni che avevano commesso reati non violenti. Quasi tutti neri […].”
Alcuni hanno certificato di giustificare il permanere delle disuguaglianze tra bianchi e neri, dicendo che gli USA hanno “solo trecento anni di vita e ne hanno passati duecentocinquanta a sottomettere i neri con tutta la forza dello Stato” (Da dove vengono le rivolte americane, in Post, 31 maggio 2020).
La verità è un’altra. A centosessant’anni dalla Emancipation Proclamation di Lincoln e a sessant’anni dal discorso di Martin Luther King, negli USA la parità tra bianchi e neri era e resta un miraggio. Decenni di lotte e di leggi mai realmente rispettate non sono bastate ad appianare divisioni profonde. Ed è ancora molta strada da fare. Forse sarebbe meglio smetterla di sognare e rendersi conto, una volta per tutte, che le differenze esistono e sono la base della natura umana. Anzi che sono la vera ricchezza dell’uomo. “Diverso” non significa “migliore” o “peggiore”. Ma sempre con gli stessi diritti. A cominciare da quelli troppe volte violati (anche nei Paesi sviluppati) contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Tutti sanno che esiste ma siamo certi che pochi si sono presi la briga di leggerla. E riflettere sul significato, sul contenuto. All’Articolo 2 si legge: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità”. Non meno importante l’Articolo 7: “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”.
Anch’io ho un sogno: che in tutto il mondo i Paesi la smettano di scrivere, approvare e ratificare leggi che poi non rispettano.