A quasi un anno da quando si sono verificati i primi casi di COVID-19, l’unica certezza è che …non ci sono certezze.
Nessuno è riuscito a capire, con certezza scientifica, cosa abbia causato la pandemia. Nessuno è riuscito a definire politiche e misure di primo intervento uniche, come richiederebbe un problema che riguarda tutti allo stesso modo.
I governi di tutto il mondo non sono stati capaci di trovare accordi sulle misure per far fronte (anche economicamente) alle conseguenze del lockdown. Anzi non sono neanche riusciti a mettersi d’accordo sulle modalità e sui tempi di chiusura: a volte parziale, altre volte totale, a volte su tutto il territorio nazionale, in altri casi limitato a zone territoriali non meglio definite, a volte con imposizioni di legge (palesemente in contrasto con altre leggi), altre volte mediante semplici “consigli” alla popolazione.
La cosa più preoccupante è che mentre i media ubriacavano la popolazione con numeri sui casi di “infetti”, positivi e morti a causa del COVID-19, nessuno si è preoccupato di confrontare questi dati tra loro. E si è reso conto che raccontavano una storia diversa da quella che veniva diffusa.
A cominciare dal numero dei morti a causa del COVID-19. Non passa giorno senza che i notiziari si precipitino nel riportare i numeri dei “positivi” e dei test (qualche volta anche quello dei morti). Ma poche volte si riportano questi dati in relazione al totale della popolazione. A farlo è stata una università americana che ha scoperto che il paese in cui è maggiore il numero di morti in base al numero degli abitanti non sono gli USA e nemmeno il Brasile: è la Repubblica di San Marino, dove si sono verificati poco più di 124 morti ogni 100mila abitanti. Secondo paese UE è il Belgio con 99 morti ogni 100mila abitanti. Molto più in basso, in questa graduatoria, l’Italia dove i morti ogni 100mila abitanti sono stati 63.
Alcuni potrebbero pensare che questo risultato è merito delle misure restrittive e del lockdown precoce. Ma non è così. In Francia, i morti per COVID-19 sono stati percentualmente più che in Italia. E molti, molti di più nel Regno Unito che potrebbe aver pagato a caro prezzo (in vite umane) le politiche sull’immunità di gregge proposte dal premier Johnson: quasi 70 morti ogni 100mila abitanti.
Se si scorre questa graduatoria emergono altri spunti di riflessione. Ad esempio, in Cina, dove tutto è cominciato, l’indice di mortalità è tra i più bassi al mondo: 0.34 casi per 100mila abitanti. Merito delle drastiche misure del lockdown o di dati rilevati in modo “anomalo”? E poi, come è possibile che lo stesso ceppo virale presenti tassi di mortalità così differenti: da oltre 120 casi ogni 100mila abitanti di San Marino a solo 0,03 a Taiwan e 0,04 in Vietnam?
Visto che il virus colpisce soprattutto le vie respiratorie, quanto influisce l’inquinamento su queste morti? Anche qui, i dati sembrano scritti apposta per confondere i ricercatori: in alcuni paesi dove i tassi di mortalità sono bassi, l’inquinamento e l’industrializzazione sono limitati: al contrario, in altri, che pure hanno fatto rilevare mortalità molto basse, l’inquinamento è spaventoso. In Cina, ad esempio, la principale causa di morte non naturale è il cancro. A confermarlo sono i numeri del Ministero della Salute cinese: le morti per tumori sono quasi un quarto del totale dei decessi in tutto il paese. Eppure la percentuale di morti per coronavirus è tra le più basse al mondo. Ma non basta.
Finora si è sempre detto che i paesi in via di industrializzazione sono caratterizzati da povertà, malattie infettive, alta mortalità infantile e malattie del cuore o … il cancro. Una delle conseguenze dell’industrializzazione sfrenata dell’inquinamento frutto del boom economico tanto lodato e “amato” dalle multinazionali (che poi vendono questi prodotti in tutto il mondo).
Tornando in Europa, molti hanno criticato aspramente la decisione della Svezia di non imporre alla popolazione misure restrittive. E per giustificare queste accuse, hanno sempre detto che, in questo paese, le percentuali di decessi per coronavirus sono state altissime, molto più elevate di quelle dei paesi dove invece i governi hanno imposto misure restrittive e ci si chiusi dietro barricate fisiche (e morali). Niente di più sbagliato: in Svezia, su una popolazione di poco meno di 10,0150 milioni abitanti, i morti per coronavirus sono stati 5.927. In Italia, sono stati oltre 38mila su una popolazione di 60,244 milioni di abitanti. Nel Bel Paese, i morti per COVID-19 sono stati percentualmente di più.
Altro aspetto importante (del quale non si è parlato quasi per niente) è la percentuale di tamponi effettuati (e la loro tipologia). Ma anche la scelta dei campioni di popolazione da analizzare. Ma anche questo potrebbe aver fornito risultati molto diversi e aver reso i dati statistici dei vari paesi non confrontabili. Sempre in Svezia, ad esempio, le autorità hanno comunicato di aver rilevato un aumento dei casi di positività dall’ “inizio della pandemia”. Ma questo dato potrebbe essere falsato dal fatto che, secondo la stessa l’Agenzia della salute svedese, in primavera molti casi non sono stati registrati per la mancanza di test.
Sul numero dei morti, poi, da tempo è in corso un acceso dibattito sui decessi da includere nel novero dei morti per COVID-19. Alcuni ritengono che debbano essere inseriti i casi di tutti quelli morti e positivi al COVID-19. Altri, invece, ritengono sbagliato inserire casi di soggetti malati o anziani morti a causa di altre complicazioni non direttamente attribuibili al virus, ma a malattie pregresse o altro.
L’aspetto più sconvolgente che dovrebbe emergere da questa accozzaglia di numeri preoccupanti ma quasi inutili è l’incapacità del sistema di far fronte ad una emergenza come la pandemia in atto.
Le strategie adottate sono quasi sempre dettate da approssimazioni approssimative senza alcun fondamento scientifico proposto da scienziati (non ultimo il periodo di quarantena in Italia – ridotto a dieci giorni mentre tutti gli studi parlano di un periodo di quarantena minimo di almeno 15 giorni – o la decisione di chiudere i locali dopo una certa ora con i vari paesi scatenati nello scegliere orari diversi).
Decisioni che gravano pesantemente sulla vita dei cittadini. Non solo dal punto di vista sanitario ma anche dal punto di vista economico e sociale. Ad oggi, a quasi un anno dal verificarsi dei primi casi, sembrano non esistere modelli e strategie per far fronte alla pandemia. Si tratta quasi sempre di interventi abbozzati al momento senza alcuna base scientifica.
I vari modi di gestire la pandemia, in Italia e nel mondo, sono anche la dimostrazione della incapacità dei paesi di dotarsi di principi condivisi e di politiche comuni per far fronte alle emergenze. E la mancanza di un soggetto dotato se non di autorità politica almeno di una autorità scientifica in grado da non lasciare spazio ad alternative approssimate.
Del resto altre pandemie, tuttora in atto, causano la morte di molte più persone. E di queste non parla nessuno. A volte perché presenti in modo rilevante solo in certe aree geografiche: di malaria muoiono mezzo milione di persone ogni anno (su 228 milioni di casi: meno decessi ma più contagi rispetto al COVID-19). E questo solo in poche decine di paesi, principalmente in Africa. I più colpiti sono donne in gravidanza e bambini: si stima che lo scorso anno siano state almeno 11 milioni le donne in gravidanza di 38 paesi africani infettate dalla malaria. E quasi 900mila bambini sarebbero nati sottopeso, ad alto rischio mortalità. Ma di questa pandemia, al resto del mondo, non sempre importare: a nessuno importa sapere quale è il tasso di mortalità dei bambini allattati da una madre con la malaria…
Secondo l’OMS, le prime cause di morte non naturale sono le cardiopatie ischemiche e l’ictus (insieme causano circa un quarto delle morti non naturali in tutto il mondo). Ma neanche di queste si parla mai, nessuno lancia appelli accorati e spara DPCM a raffica. Anzi. Lo stesso avviene per un’altra tra le principali cause di morte al mondo: il tabagismo. Ogni anno, a causa del fumo di sigarette, sigari, pipe e simili muoiono sette milioni di persone (e le stime prevedono che saranno 8 milioni entro il 2030). Molti di più dei morti nel 2020 per colpa del COVID-19. Ma per questa “pandemia” nessuno lancia proclami, pubblica annunci e bollettini giornalieri sul numero dei morti e organizza conferenze stampa quotidiane.
Forse è anche per questo che molte persone sono stanche di fare sacrifici: la gente ha capito che queste misure non sono fondate su basi scientifiche (perché una palestra dovrebbe chiudere e una squadra di calcio professionistica dovrebbe continuare a giocare? In fondo si tratta di imprese in entrambi i casi. E perché licei e istituti superiori devono chiudere e scuole medie ed elementari no?).
Per sei mesi in tutto il mondo la gente ha fatto sacrifici, alcuni più duri, altri molto meno (con conseguenze pesanti sulle economie nazionali e sul futuro dei vari paesi). Ora, con il numero dei contagi e dei morti che ha ripreso a salire, è indispensabile dimostrare che si sta davvero facendo qualcosa per il loro futuro, dare loro certezze. Proprio quelle che finora sono mancate.