
In questi giorni di intenso dibattito sulla scuola italiana non posso fare a meno di associare l’archetipo contenuto nel libro Cuore, scritto dal socialista Edmondo De Amicis, pubblicato nel 1886 dall’editore Treves Milano e divenuto un secolo dopo una seguitissima mini serie televisiva con la regia di Luigi Comencini. Nel cast, tra Johnny Dorelli, Giuliana De Sio, Andréa Ferréol, Ugo Pagliai e, perfino, Eduardo De Filippo e Pier Paolo Pasolini, la parte del piccolo Enrico Bottini, sintesi delle virtù umbertine da coltivare fin dall’infanzia, fu affidata al nipotino undicenne del regista, Carlo Calenda, oggi deputato europeo.
L’opera, capo saldo, insieme al coevo Pinocchio di Collodi, di quella che un tempo era chiamata letteratura per ragazzi, ebbe immediato successo nell’ italietta fin de siecle che celebrava i primi 25 anni di unità nazionale di cui la scuola, di stampo umbertino, sarebbe dovuta essere la fucina del futuro, riprendendo il monito attribuito a Massimo D’Azeglio “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Vasto programma, tuttavia preso molto sul serio in quegli anni di grandi speranze e di molte ingenuità da parte di una giovane nazione che presto avrebbe cominciato ad aprire gli occhi dopo i cannoni del Generale Fiorenzo Bava Beccaris, l’uccisione a Monza dell’erede di Vittorio Emanuele II, la Grande Guerra, il Fascismo.
Quegli eventi erano ancora lontani. Torino era stata la capitale provvisoria del regno e malvolentieri si era rassegnata a lasciare il posto a Roma nel 1870, dopo il breve interludio di Firenze. In quell’ultimo scorcio del XIX secolo la città rischiava di tornare nell’ombra della provincia da cui Cavour l’aveva tratta per portarla in Europa e nel mondo moderno.
Città laica ed esoterica, era animata da un consistente anticlericalismo e permeata da una significativa influenza massonica che non a caso aveva voluto la nascita del Museo Egizio, il primo al mondo, già nel 1824; città caserma, presto ne avrebbe mutuato lo stile impiantando la Fabbrica Italiana di Automobili Torino che per oltre un secolo le restituì un nuovo ruolo regio, con tanto di dinastia regnante e abilissimi “primi ministri” quali Vittorio Valletta e Cesare Romiti.
Nell’anno scolastico 1881-1882 che racchiude le vicende narrate da De Amicis, cresceva dunque una nuova generazione, all’insegna della preminenza assegnata all’istruzione pubblica, luogo di integrazione sociale non solo tra ceti ma anche con i primi e numerosi immigrati provenienti dalle regioni meridionali, dove il tasso di analfabetismo era dell’81% a fronte del già grave 57% nazionale.
In tale scenario, molteplici erano gli scopi dell’istruzione pubblica. Creare una coscienza nazionale intorno all’istituzione monarchica, dettare comportamenti quotidiani omogenei e orientati a creare un Paese fedele ed obbediente, curare lo spirito e il corpo secondo l’antico insegnamento latino del mens sana in corpore sano e che sarebbe stato il titolo di un successivo romanzo di De Amicis Amore e Ginnastica pubblicato nel 1892 e di cui Italo Calvino avrebbe curato la prefazione nel 1971. Cento anni dopo la prima uscita vi si sarebbe ispirato l’omonimo film con la regia di Luigi Filippo D’amico e interpretato, tra gli altri, da Lino Capolicchio, Senta Berger e Adriana Asti.
La scuola deamicisiana educava allo stato etico, quella forma istituzionale, teorizzata dai filosofi Thomas Hobbes e Georg Wilhelm Friedrich Hegel, in cui è lo Stato l’istituzione e il fine ultimo a cui devono tendere le azioni dei singoli individui, nonché la realizzazione concreta del bene universale. Sarebbero occorsi molti anni e tante tragedie mondiali prima della celebre critica di Karl Popper espressa nell’opera La società aperta e suoi nemici (The Open Society and Its Enemies) pubblicato a Londra da George Routledg nel 1945, secondo il quale lo Stato etico è considerato l’emblema della “società chiusa”, in contrapposizione allo Stato di diritto, che è proprio della “società aperta”. E qui il discorso si farebbe ampio e complicato.
La scuola, intitolata a Carlo Boncompagni illustre pedagogista e ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna nel 1848, è ancora oggi esistente a Torino in via Adua e ne è stata recentemente predisposta la ristrutturazione, come ha ricordato Matteo Roselli il 5 agosto scorso, su La Stampa. Le caratteristiche degli edifici di quel periodo sono ancora visibili in tutte le città italiane e rispecchiano un canone della concezione architettonica della scuola come luogo di elevazione dello spirito e del corpo. Costruzioni spesso ieratiche come tribunali o altri palazzi pubblici, quasi sempre precedute da scalinate dal valore più simbolico che pratico, dotate di grandi cortili interni, con corridoi ampi e molto lunghi su cui si aprono finestroni, spesso spalancati in ogni stagione, che lasciano passare cascate d’aria e di luce. Come nelle grandi cattedrali gotiche si adorava il mistero divino, in esse si celebrava il sapere laico.
Sono le aule, tuttavia, a lasciare sbalorditi. Stanze immense dai soffitti alti, le pareti spesse e le immancabili grandi finestre, arredate da cattedre poste su pedane perché tutti potessero vedere la figura del docente, percepirne il valore e misurare la distanza che separava l’ignoranza dalla sapienza, banchi di legno leggermente inclinati verso il basso, generalmente a due posti, dotati del foro per il calamaio e con il solco orizzontale per posarvi la penna. Chi scrive ne ricorda ancora, alle elementari nei tardi anni ‘60, l’intenso profumo della cera con cui erano strofinati giornalmente da solerti e venerati bidelli in camice scuro che mai avrebbero accettato di essere appellati personale ATA, infelice acronimo per designare amministrativi, tecnici e ausiliari.
Quei banchi erano la vera memoria della scuola poiché in essi erano incisi nomi e date di chi vi aveva seduto cinquanta o cento anni prima e spesso, in certi quartieri, erano nomi cari di nonni e di genitori degli allievi. Un libro ligneo che si tornava spesso a sfogliare, accompagnando figli o nipoti e riuscendo talvolta a sbirciare da lontano l’aula il cui l’accesso era severamente proibito agli esterni. Oggi anche nelle scuole più venerabili essi non esistono più. Sono stati sostituiti da tavoli retti e sedie mobili spesso all’origine del tremendo baccano che se ne origina all’entrata o all’uscita dalle lezioni. Talvolta mi chiedo se l’elevato tasso di scoliosi che affligge molti dei nostri giovani non sia, unitamente alla sostituzione dello zaino al posto della cartella, non trovi lì la propria causa e la speculare floridezza delle palestre private. Taccio per carità di patria dei banchi “anticovid” con rotelle, piccole astronavi individuali che probabilmente ci verranno portate dai cinesi ma certamente non condurranno da alcuna parte dove valga la pena di andare.
In inverno, nelle grandi città del nord e del centro Italia le aule, erano sempre riscaldate, mai troppo però e con il ricambio d’aria affidato agli immensi corridoi, attraverso monumentali termosifoni alimentati da caldaie nascoste negli immensi sotterranei preclusi ai non addetti. Nel Meridione dove i rigori erano molto ridotti dalla benevolenza del clima, l’attivazione di tali impianti, pur esistenti, era prevista soltanto in alcune giornate veramente rigide. Ma era in primavera e nei primi giorni dell’estate che si celebrava il trionfo delle immense finestre alte talvolta anche tre metri da cui affluivano i profumi della vegetazione circostante, talvolta irrompevano insetti laboriosi su cui i maestri tessevano subito spiegazioni naturalistiche e spunti educativi e defluivano, invece, i primi afrori di adolescenti in tempesta ormonale, ma anche i sogni ad occhi aperti di intere generazioni.
Un’interessante ricostruzione della storia degli edifici scolastici è contenuta in Pennisi, S. (2012). L’edilizia scolastica: evoluzione di una tipologia attraverso un secolo di storia. In D’Agostino Salvatore (a cura di), Storia dell’Ingegneria. Atti del 4° Convegno Nazionale (pp. 785-798). Cuzzolin, Napoli. Una lettura che consiglierei a quanti stanno ripensando la scuola italiana. Con un po’ d’umiltà, si potrebbe trovare nello studio del passato qualche intuizione utile ad evitare continue gaffes e il balletto di indicazioni contraddittorie. “Voci dal sen fuggite” come scrisse a futura memoria Pietro Metastasio (XVIII secolo) nel primo di due versi dal secondo atto dell’opera Ipermestra e che nel secondo verso così continua: «Poi richiamar non vale», riprendendo Orazio che nell’Arte poetica, aveva scritto ancora più icasticamente: «nescit vox missa reverti», la parola detta non sa tornare indietro.
Torniamo volentieri in Via Adua, Torino, alla Scuola Carlo Boncompagni dove nel romanzo sfilano insegnanti, alunni, famiglie personaggi minori, cuore della narrazione e metafora dell’educazione del tempo. La trama è nota alla mia generazione, meno tra gli attuali trenta/quarantenni, come ho avuto modo di verificare; pertanto, non annoierò il lettore che potrà trovarla, se interessato, sui tanti siti della rete dedicati all’opera e all’autore.
Il chiaro intento pedagogico di De Amicis è ispirare ai giovani cittadini del Regno le virtù civili, ossia l’amore per la patria, il rispetto per l’autorità e per i genitori, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, la carità e la pietà per gli umili e gli infelici.
Lo sviluppo dell’anno scolastico è seguito in ordine cronologico, dal 17 ottobre 1881 al 10 luglio 1882 e presenta i ritratti di personaggi indimenticabili, ciascuno dei quali tipizza le estrazioni sociali, l’emarginazione, gli ideali, i paternalismi, gli errori, il conformismo e la retorica post risorgimentale di un’epoca non esente però da fermenti anarchici e sovversivi, precursori spesso inconsapevoli di una società più aperta, più giusta, più aperta alle suggestioni del mondo che restava lontano e visibile solo attraverso le grandi carte geografiche, oggi oggetto di un acceso collezionismo, che ricoprivano le pareti delle aule scolastiche.
Tra i tanti commentatori e critici, due grandi penne ne hanno tratteggiato lo spirito contrapposto di due personaggi chiave del romanzo: il mansueto Garrone e il “perfido” Franti «Io, da uomo all’antica, sono sempre rimasto dalla parte di Garrone il buono, che sarà anche un eroe convenzionale nella sua poco verosimile immacolatezza e perfezione morale, ma che serviva benissimo al suo scopo pedagogico: quello di fornire ai ragazzi alla cui formazione De Amicis si dedicò, da scrittore e da insegnante, per tutta la vita, un modello cui ispirarsi. Tutti i suoi personaggi – la piccola vedetta lombarda, il tamburino sardo, lo scrivano fiorentino – erano costruiti per questo fine educativo…De Amicis trascorse la vita a tentare di fare della scuola un allevamento di galantuomini e di buoni cittadini. Tutto ciò che scrisse (e scrisse tantissimo) era mirato a questo scopo…» da La Stanza di Montanelli. Edmondo De Amicis violento? È solo una favola» come riportato dal Corriere della Sera del3 giugno 1997.
Di tutt’altro avviso Umberto Eco nella più famosa e realistica descrizione controcorrente del personaggio Franti, reperita tra gli scaffali traboccanti riservati al compianto maestro di scienza e di narrazioni, nell’opera Diario Minimo pubblicata da Arnoldo Mondadori nel 1963:
«Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il maieuta di una diversa società possibile. »
Nel giovane Franti albergava forse già l’anarchico Gaetano Bresci che il 29 luglio del 1900 avrebbe posto fine a Monza all’infanzia ingenua e alla tanta retorica post risorgimentale del Regno d’Italia, uccidendone il secondo sovrano? Sarebbe stato interessante chiederlo ad Eco, come per tante altre vicende che popolano di incubi i nostri sonni inquieti.
Tra cotanto senno e nella consapevolezza ontologica di non potere essere terzo tra loro, appare utile concludere problematicamente che in questi anni tremendi e irripetibili la Scuola italiana si trova nella condizione più difficile della propria storia, schiacciata com’è tra il consegnarsi ad un nuovo conformismo travestito da slogan populisti e la resa senza condizioni a pericolose tentazioni localistiche ed autoritarie, entrambe figlie del pensiero unico. In un momento storico in cui la scuola italiana sembra aver dimenticato i contenuti per concentrarsi sul contenitore, che pure ne ha tanto bisogno, essa sembra ignorare l’appello di Mario Draghi circa le nuove sfide epocali che attendono i giovani, lanciato pochi giorni fa a Rimini durante il Meeting di Comunione e Liberazione e che tanto ha colpito il Paese, oltre ogni opinione di parte o schieramento politico.
Nel tentativo di proporre una via d’uscita, ho ricordato, potenza del ruolo evocativo della scrittura, l’affermazione apodittica e un po’ rischiosa in pieni “anni di piombo” con cui superai l’esame di Pedagogia Generale: «L’Educazione è eversione dell’esistente, è rivoluzione permanente dell’Essere per rifondarlo poi su nuove e impermanenti basi. Se abdica a tale missione, essa diventa un facile strumento nellamani di quanti, oltre ogni formale dichiarazione, puntano solo ad esercitare il controllo sulle nuove generazioni, sfruttando un’influenza spesso nefasta sulle libertà individuali che ogni istituzione, per sua stessa natura, è tentata di limitare.»
Sono trascorse quarantaquattro primavere da allora e ancora oggi, in anni di carta velina buona sola a far volare gli aquiloni, ne rimango fermamente convinto ed attendo con fiducia ciò che abbiamo il dovere di intravedere dietro le mascherine chirurgiche dei ragazzi e delle ragazze che inizieranno presto il nuovo anno scolastico, con il cuore in mano e la mente rivolta al futuro.