“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo.
I tuoi occhi saranno una vana parola un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio.
O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti.”
Cesare Pavese, pubblicazione postuma 1951
Nel 2020 ho raccontato la Ricorrenza dei Defunti con un articolo dedicato alle tradizioni siciliane, e palermitane in particolare, che in molti sollecitano sapori dimenticati, cari ricordi infantili e volti di persone che non ci sono più.
Un tempo era giorno di vacanza in un attesissimo “ponte dei morti” che andava dall’uno al quattro novembre; per chi fu bambino in Sicilia sino al secondo dopo guerra era il giorno dei regali “misteriosamente” ricevuti proprio nella mattina del due; un evento poi slittato a fine anno e con un protagonista che veniva dall’altro capo del mondo e da tutt’altra cultura: Babbo Natale.
Quest’anno, però, non me la sento di tornare su quegli aspetti dopo aver seguito per mesi le terribili vicende del Cimitero dei Rotoli di Palermo con centinaia di bare insepolte ed esposte agli elementi tra il dolore e l’umiliazione dei congiunti e, soprattutto, il ricordo indelebile del corteo dei camion dell’Esercito nelle strade di Bergamo che sfilavano in silenzio con a bordo i feretri di centinaia di persone vittime di una pandemia ancora in corso e che in Italia ha portato via centotrentamila persone care ad altrettante famiglie.
Di altro genere sarà pertanto la mia riflessione su un tema che affascinerà sempre gli esseri umani di ogni parte del mondo, di ogni cultura, di ogni religione e di cui poeti, scrittori, musicisti ed artisti di ogni genere hanno lasciato traccia nelle proprie opere.
Chiunque si trovi a visitare un cimitero – dalla scenografica esposizione delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo agli anonimi ed asettici falansteri a più piani di città antiche e recenti – può rimanere stupito di quanta gente lo frequenti per visitare i defunti, in qualunque momento dell’orario di apertura e non solo nel mese di novembre tradizionalmente dedicato ai defunti.
In un mondo teso a prolungare il più possibile la vita terrena e a migliorarne a qualunque costo la qualità, cercando di ridurre malattie o eventi che possano minarne la durata allo scopo di allontanare il più possibile l’evento finale, si può pensare che recarsi a visitare le tombe dei defunti sia un rituale per non recidere del tutto il cordone ombelicale che ci lega, inconsapevolmente, ai cari con i quali non possiamo più condividere l’esistenza terrena.
Evidentemente non è solo un’abitudine dei tempi passati, che trova radici da quando l’uomo esiste poiché da allora esiste anche la morte, ma è un “bisogno”, se così può essere definito, dell’uomo che vuole conservare la continuità con il vissuto passato, come a garanzia che vi sia una continuazione della “vita oltre la morte”, pur essendo oggi più che mai proiettato nel futuro dalle esigenze del mondo contemporaneo. In fin dei conti, come affermava Thomas Mann, “l’interesse per la malattia e la morte è sempre e soltanto un’altra espressione dell’interesse per la vita”.
E ancora si rimane stupiti, se si considera che il concetto di morte in esito ad una malattia oggi è sempre meno accettato dall’uomo: viene vissuto come una sconfitta, anche perché sempre più spesso viene imprudentemente dichiarato che molte malattie sono state debellate dal progresso della scienza medica e quindi troppo superficialmente questo concetto viene traslato ad ogni evento patologico, indipendentemente dalla sua gravità o dall’età in cui esso si verifichi.
L’impressione di chi quotidianamente vive e lavora negli ambienti sanitari è che il mondo contemporaneo ritenga che oggi non si debba più morire, e che qualunque mezzo debba essere usato in ogni situazione patologica anche a tarda età, anche quando non ci sono più le condizioni fisiologiche per sostenere modalità diagnostiche e terapeutiche complesse che, se impiegate in queste situazioni, non farebbero altro che complicarle ancora di più o essere del tutto inutili, inefficaci o addirittura deleterie. In qualche maniera la società contemporanea sembra voler occultare la malattia e la morte, salvo riabilitarle con fini meramente economici; in effetti si muore di meno in casa, così come in casa si assistono di meno i malati perché nelle case non ci sono più le persone, salvo assumere le badanti, e perché l’assistenza sarebbe spesso particolarmente complessa. Non essendoci oggi i nuclei familiari di un tempo, tutto questo è delegato alle istituzioni, dalle quali ci si aspetta tutto.
Visitare i cimiteri assume quindi la sembianza di un rituale con cui si cerca di richiamare un collegamento con i defunti, ma anche con il nostro passato vissuto insieme ai nostri cari che non sono più. Le modalità con cui si esprime il culto della morte e dei defunti dipendono dal concetto culturale o religioso di ciò che si ritiene accadere dopo la morte stessa; nel corso della storia dell’uomo il culto della morte è cambiato parallelamente alla variabile evoluzione del concetto di vita oltre la morte.
Se per i più antichi popoli primitivi i rituali dovevano assicurare l’impossibilità per il defunto di interferire in qualsiasi modo con i viventi, poiché si riteneva che fossero vendicativi nei confronti di chi continuava a vivere, e si assisteva quindi a sepolture a testa in giù di defunti legati e coperti di pietre, risale al paleolitico del 100.000 a.C. il concetto della sopravvivenza dello spirito oltre la morte e quindi i primi rituali di sepoltura: si lasciavano nella tomba oggetti personali e utensili, armi per continuare a combattere, spesso si componevano giacigli con fiori e piante medicinali. L’uso dei cimiteri veri e propri iniziò circa 12.000 anni fa.
Inizialmente l’uomo primitivo, nomade e semi-nomade, seppelliva i propri morti in ripari sotto rocce e grotte, avendo cura di fornire al defunto il cosiddetto corredo funebre composto da tutto ciò che si riteneva potesse servire allo spirito nella sua nuova esistenza: offerte di cibo, oggetti a lui cari in vita, utensili, amuleti, armi. In seguito alla Rivoluzione neolitica, quando l’uomo imparò a sfruttare le risorse naturali in modo da produrre autonomamente cibo, venne meno l’esigenza di migrare, nacquero i primi villaggi e anche le prime necropoli. La necessità di garantire uno spazio dedicato e ben delimitato ai defunti, così come l’usanza di lasciare nelle tombe utensili e suppellettili, era tesa a garantire la separazione dal mondo dei vivi e a fornire il necessario per il lungo e difficile viaggio verso un aldilà di varia connotazione a seconda delle credenze. Il “mana” era considerato all’epoca una forza immateriale ed attiva, diffusa universalmente in tutti gli oggetti e in tutti gli esseri viventi, animali compresi, una forza magica e sacra che agiva in qualunque cosa animandola, una sorta di energia cosmica che si rivolgeva agli uomini in forma propiziatoria o nefasta, a seconda dei casi.
Nella antica Mesopotamia i defunti dovevano necessariamente essere sepolti nel sottosuolo, ove si trovava l’oltretomba, e bisognava garantire loro un accesso che li conducesse agli Inferi, altrimenti lo spirito sarebbe rimasto intrappolato nel mondo dei vivi, e nell’errare senza meta cercando invano l’accesso per l’aldilà avrebbe sfogato la sua disperazione sui vivi stessi. La privazione della sepoltura era considerata una pena gravissima applicata per gravi colpe, oppure espressione di profonda ostilità nei confronti dell’estinto. Pertanto, l’unico rimedio che quietasse uno spirito di questo tipo era concedergli le esequie. Generalmente, il funerale prevedeva che il cadavere venisse accompagnato fino alla tomba, ove si celebrava un rituale allo scopo di rassicurare il defunto che non sarebbe stato dimenticato e augurargli un viaggio sereno.
Gli antichi Egizi credevano fermamente nella vita ultraterrena, e per questo avevano sviluppato una serie di riti complessi per consentire la continuazione della vita oltre la morte. Per vivere nell’Aldilà era necessario preservare il corpo del defunto con la mummificazione, per consentire all’anima di vivere nel corpo imbalsamato. Nella tomba veniva lasciata ogni suppellettile utile, oggetti, cibi, profumi e vestiti e anche un modellino di barca per il trasporto nell’aldilà. La tecnica della mummificazione poteva essere praticata per vie naturali, grazie alle tombe sabbiose e ventilate che asciugavano il corpo, o tramite l’imbalsamazione, procedura ancora oggi non del tutto nota. La Grande Piramide, tomba di Cheope, è il più noto monumento simbolo del passaggio dalla vita alla morte. I sacerdoti rimuovevano tutti gli organi interni, tranne il cuore, che avrebbe avuto un ruolo chiave anche nella vita ultra terrena, poi avvolgevano il corpo in bende di lino; a fianco del corpo mummificato venivano posti dei vasi, i canopi, raffiguranti i quattro figli del dio Horus: Asmet con la testa di uomo doveva contenere il fegato del defunto, Duamfet con la testa di sciacallo lo stomaco, Kebehsenuf con la testa di falco gli intestini, Hapy con la testa di babbuino i polmoni. Il cervello veniva gettato via, mentre il cuore con la psicostasia, il rito della pesatura, permetteva il passaggio alla vita eterna. I più pregiati vasi canopi sono stati rinvenuti nella tomba di Tutankhamon, risalenti al 1341 a.c., e sono conservati nel Museo Egizio del Cairo.
Per gli antichi Etruschi i defunti continuavano la vita dopo la morte nelle loro stesse tombe, che quindi venivano attrezzate con tutto il necessario come una replica delle loro stesse abitazioni; vi si deponevano oggetti, cibo, e tutti i simboli dello status sociale dell’individuo, ad esempio armi per gli uomini e gioielli per le donne, e le pareti erano decorate con affreschi che illustravano scene di vita come banchetti, danze o giochi. Di qui la nascita delle Necropoli etrusche, vere e proprie cittadine tombali.
Dal V secolo a.C. l’influenza della civiltà greca determinò una concezione più pessimistica della vita anche per gli Etruschi, consapevoli ormai del declino della loro civiltà, cosicché anche l’aldilà era localizzato in un mondo sotterraneo ove trasmigravano le anime dei defunti, abitato da divinità infernali e da spiriti di antichi eroi. Il defunto doveva quindi viaggiare per raggiungerlo, scortato da spiriti infernali, i più importanti dei quali erano la dea Vanth dalle grandi ali che regge una torcia, il demone Charun, dal viso deforme, armato di un pesante martello, il demone Tuchulcha, dal volto di avvoltoio e dalle orecchie di asino, armato di serpenti.
Ogni defunto sarebbe stato condotto in un mondo senza luce e speranza in cui il fluire del tempo era segnato dai patimenti delle anime che ricordavano i momenti felici delle loro vite terrene. Le sofferenze delle anime dei morti potevano però essere alleviate dai parenti con riti, offerte e sacrifici.
Nell’antica Roma nacquero le prime imprese funebri, i libitinarii, addetti ai funerali delle persone più ricche. Non si conoscono bene i riti, ma come unica certezza si sa che i corpi erano cremati su pire di legno o inumati; la cremazione era il rito prevalente, e quindi le ceneri erano raccolte in un’urna funeraria e deposte in una nicchia ricavata in una tomba collettiva chiamata columbarium. Le esequie duravano più giorni, con il coinvolgimento anche di attori, mimi, danzatori, musici, e lamentatrici professioniste, le prefiche, assunte allo scopo. Nove giorni dopo la sepoltura si celebrava una festa, la coena novendialis, in occasione della quale si versava del vino sulla tomba o sulle ceneri e ben sette festività romane commemoravano i defunti in diversi momenti dell’anno.
Le comunità cristiane dei primi secoli non hanno cancellato le tradizioni e i riti pagani attorno alla morte, i due riti erano coesistenti. Ad esempio i pagani usavano fare un banchetto in giorni stabiliti dopo la morte e anche nell’anniversario della nascita della persona defunta. Si credeva che il defunto partecipasse al banchetto o refrigerium, tanto che in alcune tombe veniva lasciata una apertura per il passaggio del cibo anche al defunto. In Sicilia l’usanza si è estesa ai parenti del defunto, destinatari di cospicue pietanze preparate dai vicini di casa ed atte a lenire il dolore del lutto, il cosiddetto “consolo”.
Proprio per distinguersi dai pagani, che celebravano il refrigerium nel giorno del compleanno del defunto, le prime comunità cristiane, come attesta Tertulliano verso la fine del II secolo, si radunavano per l’Eucaristia nel giorno anniversario della morte che, alla luce della fede, diventa il vero dies natalis, il giorno della nascita alla vera “vita senza fine”. Queste celebrazioni, come ricorda sant’Ambrogio verso la fine del IV secolo, avevano un carattere di festa e non si svolgevano in una atmosfera funerea. Si aveva infatti la convinzione che il fedele morto nella comunione con Cristo fosse ammesso alla visione di Dio. Soltanto in seguito prevalse l’idea dell’incertezza circa la sorte del defunto al giudizio di Dio e pertanto l’Eucarestia assunse un valore propiziatorio, e la messa venne inserita nel rito funebre. E’ possibile che il rito ancora attuale delle messe in suffragio dei defunti avesse inizialmente lo stesso significato propiziatorio.
Numerosissime le tipologie di tombe nell’antica Roma, dipendenti dal ceto sociale del soggetto e quindi dal risalto che si voleva dare alla persona: sarcofagi, templi, steli, piramidi, mausolei e altro, tutti rigorosamente fuori della cinta urbana, lungo le strade di accesso a Roma e ricche di epigrafi commemorative e di esortazione ai vivi.
Nell’antica Grecia, nel 1.500 – 1.000 a.C., gli acheo-micenei conobbero due sistemi di sepoltura: cremazione e inumazione. In entrambi era essenziale la copertura del defunto con la terra: la vista dei resti di un defunto offendeva gli dei celesti e poteva rappresentare grave mancanza di rispetto verso i defunti stessi, poiché questi non avrebbero mai trovato pace se non ricoperti di terra. Solo dopo copertura il defunto era ammesso agli inferi. Nessun defunto poteva essere lasciato insepolto, anche il peggiore nemico: non seppellire un defunto era infliggere un castigo peggiore della morte stessa. I familiari dovevano posizionargli una moneta nella bocca, per pagare il traghetto in barca dello Stige, il fiume del lamento. Il defunto veniva lavato e profumato con unguenti e rivestito di abiti normali e poi coperto con ghirlande di fiori e nastri. Il corpo veniva trasferito sopra un letto in posizione quasi verticale, per essere visto da chi gli rendeva gli onori, nella consuetudine della prothesis, esposizione funebre, forma di rito purificatorio poiché i presenti dovevano spruzzare sul defunto acqua profumata con piante aromatiche. Le Threnoi, donne di casa o mercenarie assunte appositamente, assistevano la salma con continue lamentazioni. Le vere e proprie esequie, Ecforà, si tenevano dopo 3 giorni dalla morte, e terminavano con l’accompagnamento funebre sino alla purà, il rogo, oppure direttamente alla tomba in caso di inumazione. Era consuetudine bruciare i doni insieme alla salma, oppure seppellirli nel caso di inumazione accanto al defunto.
Il “rito omerico” prevedeva invece che il defunto, prima di essere cremato, ricevesse come offerta propiziatoria alcuni capelli che ogni parente o amico si strappava dal capo: acceso il fuoco, i parenti più prossimi stavano a sorvegliare sino a che tutto si fosse ridotto in cenere. A rogo estinto, le ceneri venivano innaffiate con vino e poste insieme alle ossa in un’urna, e quindi sepolte. Dopo le esequie, i congiunti del defunto si riunivano per una cena funebre. Come segno di lutto, era obbligo indossare abiti scuri oppure bianchi, non era permesso portare gioielli o altri ornamenti, né usare profumi o cosmetici, i capelli dovevano stare sciolti oppure essere tagliati. I defunti venivano ricordati negli anniversari della loro nascita, della loro morte, e anche nel giorno dedicato a tutti i defunti: in questa occasione le tombe venivano adornate con corone di fiori e di erbe, con nastri e con vasi.
Nel Medioevo i morti rientrano nella città, nelle chiese, che diventano anche luogo di sepoltura di Martiri e di Santi. La conservazione e venerazione delle reliquie dei Santi è un aspetto della difficoltà ad accettare interamente l’idea di un distacco totale dell’anima dal corpo.
E’ dello stesso periodo il “Trionfo della Morte”, spesso abbinato alla “Danza Macabra”, temi iconografici medievali ispirati a quel senso di pessimismo e di caducità umana diffuso in Europa al termine di secoli di guerre, carestie e pestilenze e di cui al Palazzo Abatellis di Palermo, sede della Galleria regionale della Sicilia, è visibile una delle realizzazioni più note cui pare si ispirò Pablo Picasso in “Guernica” di cui ho scritto in altre occasioni.
Tornando in Europa, intorno al 1527 nacque a Roma la “Confraternita della Morte”, con il compito di dare sepoltura alle vittime del saccheggio dei Lanzichenecchi, vista la scarsità di servizi “funebri” dell’epoca e la moltitudine di cadaveri a cui bisognava dare sepoltura.
Nei secoli successivi furono chiese e conventi ad ospitare nelle cripte le salme fino all’ Editto di Saint Cloud (Décret Impérial sur les Sépultures) emanato il 12 giugno 1804, con il quale Napoleone Bonaparte ne vietò l’uso, promuovendo invece la costruzione di luoghi più igienici ed ariosi nello spirito illuminista ed egalitario del tempo. Una decisione contro cui si scagliò Ugo Foscolo nel carme “I sepolcri” del 1807 coevo dell’opera rimasta incompiuta di Ippolito Pindemonte “I cimiteri”. Una lunga controversia relativa all’uguaglianza, almeno tra i morti, che si ritrova nella meno blasonata ma certamente più nota poesia di Antonio De Curtis (Totò) “A livella”, conosciuta e recitata a memoria anche dalle persone meno colte, quasi come un mantra risarcitorio delle troppe differenze di destino tra i vivi.
Esistono oggi anche variazioni inquietanti del culto della morte: in Messico dal 2003 una setta religiosa in ascesa incontrollata ha ufficializzato il culto della “Santissima Muerte”, raffigurata come uno scheletro vestita da Madonna velata con in una mano un globo o una falce e nell’altra mano una bilancia e a volte una scala alle spalle. L’evidente dualità tra morte e vita, religione ufficiale e non, è caratteristica centrale dell’intero popolo messicano.
Particolari poi sono i funerali accompagnati da band di suonatori di jazz che seguono il corteo funebre nelle strade di New Orleans. Un rito anch’esso antico che significa guardare alla morte in un modo molto diverso da quello cui siamo abituati. Per immaginare un funerale come una grande festa o, se preferite, come una cerimonia gioiosa, bisogna entrare nell’ottica del proverbio che recita: “You cry when you are born and rejoice when you die” (piangi alla nascita e gioisci quando muori).
Il funerale in musica inizia con una marcia dei familiari, degli amici e di una banda di ottoni che partono in processione dall’abitazione del defunto, dalla sede delle onoranze funebri oppure dalla chiesa, diretti al cimitero; durante il percorso, la banda esegue canti funebri cupi e inni. Una volta sepolto il defunto o quando il carro funebre abbandona il corteo, si “cambia musica”. Gli intervenuti al funerale salutano il defunto e “liberano il corpo”. La melodia diventa allegra, si inizia con un inno o un canto spirituale e poi si passa a canti popolari e in questa fase, la musica assume una funzione catartica e diventa così una base ideale per la danza.
Nella tradizione cattolica la commemorazione dei defunti, il 2 novembre, fu istituita all’abate Odillon di Cluny tra il 1024 e il 1033. Scrive di lui il cardinale Pier Damiani che, avendo scoperto che nei pressi di un vulcano in Sicilia si udivano le grida dei demoni a cui venivano strappate le anime dei defunti grazie a preghiere ed elemosine, ordinasse che nei monasteri cluniacensi da lui dipendenti si celebrasse la commemorazione dei defunti il giorno successivo alla festa di tutti i Santi.
Oggi quei lamenti si alzeranno dalle profondità dei mari, dal Mediterraneo all’ Egeo – ed altri meno sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale – in cui annegano a centinaia i migranti o dalle tombe anonime di oppositori ai troppi regimi totalitari che ripropongono un passato che pensavamo di aver dimenticato?
Cosa accade oggi nel giorno della commemorazione dei defunti? Le consuetudini odierne sono quindi l’evoluzione di quel che accadeva già in passato? Come abbiamo visto in ogni epoca storica il culto della morte si è adattato ai tempi. Negli ultimi decenni la cultura della sepoltura e del lutto è cambiata: è cambiato l’atteggiamento nei confronti del morire e della morte, rispetto alle aspettative del momento: l’allungamento della vita media e della aspettativa di vita, l’aumento degli ultracentenari, l’incapacità di sostenere la malattia e la morte dettata dalle esigenze della vita sociale attuale fanno sì che la morte diventi un fatto da “gestire” e possibilmente da “far gestire”.
I riti della sepoltura cambiano: le tombe cadono in prescrizione, non esistono sepolcri eterni; funerali e cremazione sono normati da leggi e non più condannati dalla Chiesa cattolica, purchè non scelti “in dispregio del corpo”. Anche per motivi pratici si è passati dalle sepolture in terra alla cremazione. E’ possibile la tumulazione anonima dell’urna o la deposizione delle urne di in mare con allegati viaggi commemorativi! Si sta spezzando la catena delle generazioni, si fa strada l’assenza di storia per ciascuno di noi e vengono meno gli aspetti esteriori del lutto.
Una indagine condotta da sociologi ha riscontrato come sia cambiato anche il rito di recarsi al cimitero: sembra che si comprino meno crisantemi, forse di più altri fiori, dei quali per soddisfare le esigenze della vita moderna e del poco tempo a disposizione sono disponibili varianti che durano a lungo senza bisogno di acqua, i “sempre vivi”. I nuovi cimiteri non sono più come quelli monumentali di una volta, con sepolcri eterni, affreschi e mosaici fermi nel tempo; nei cimiteri odierni ci sono costruzioni che assomigliano molto a insignificanti e impersonali palazzoni di periferia.
Nel nostro mondo industrializzato, anche il rito funebre è diventato purtroppo un fatto commerciale: si vendono ormai “pacchetti tutto compreso”, dalla preparazione della salma e della camera ardente, al rito funebre, alla scelta del mezzo di trasporto, della tomba o del loculo, alla sepoltura e alla stampa del ricordino, il tutto offerto con ampia varietà di tipologia e ovviamente di costo, cosicché anche la morte, per tutti uguale, è per tutti diversa a seconda di idee e soprattutto di disponibilità economiche. Esistono imprese funebri che realizzano anche mostre e convegni, come avviene per ogni attività.
Ma la fantasia del commercio non mostra limiti neanche in questi argomenti: l’ultimo grido del rituale è la creazione di un “diamante” dalle ceneri del defunto grazie ad un procedimento chimico a base di carbonio eseguito in un laboratorio svizzero, con un neologismo “diamantizzazione delle ceneri di cremazione”, il cui costo è anch’esso variabile in base alle disponibilità, così che anche il diamante creato dalle ceneri è “per sempre”, e viene propagandato come forma di “continuità di legame con la persona amata, luogo personale dove concentrare lutto, memoria e gioia dei ricordi, cimelio di famiglia unico e senza tempo, insomma una preziosa forma di sepoltura! Ma a chi lasciare in eredità un diamante funebre?
Ma c’è un altro aspetto della modernità che ci deve indurre a profonde riflessioni: la diffusione dell’uso dei social network, che sono oggi le nostre potenziali tombe! Costituiscono già ora un “cimitero virtuale” con infinite capacità di “memoria”: ad oggi ci sono più di 30 milioni di profili online di “scomparsi” e dopo il 2065 ci saranno più account di utenti deceduti che di vivi. La rete conserva praticamente per sempre informazioni immesse consapevolmente e non, e il nostro patrimonio digitale costituisce oggi prova e memoria della nostra esistenza.
Ma chi gestisce dopo di noi le informazioni che vi abbiamo affidato? In parallelo con le antiche civiltà, arriveremo a portare nella tomba smartphone, tablet, pen-drive in caso ne avessimo bisogno (!) o per non lasciare “eredità digitali” che potrebbero essere manipolate? Dovremo lasciare disposizioni testamentarie non solo per beni mobili e immobili ma anche per la nostra memoria digitale.
Ma dovremo anche rassegnarci ad essere dei “dati eterni”, ad avere una immortalità digitale; è questa l’eternità (terrena!), o possiamo predisporre processi di autodistruzione dei dati come tentativo estremo di tutela della privacy? Diceva Borges che “l’impossibilità di dimenticare è una delle più grandi disgrazie che possano capitare ad un essere umano”; per noi la rete non dimenticherà. I social network si stanno comunque attrezzando, e dal 2011 Facebook ha previsto l’ipotesi del “profilo commemorativo” e del “contatto erede” che consente a persona di fiducia di continuare a gestire il profilo di un individuo, ma anche il contrario (morte digitale!)
Sono stati creati servizi funebri digitali per avviare i processi di distruzione dei dati, con addetti definiti “death manager”, becchino digitale. Purtroppo è convinzione molto realistica che sia tecnicamente impossibile rimuovere un dato digitale una volta in circolazione nella rete: l’oblio online sarà impossibile! Nella rete i defunti continueranno a stare tra noi e la morte diventerà un evento collettivo, non più un lutto privato.
In definitiva potremmo avere due morti: una fisica, una volta non dipendente dalla nostra volontà ma ora in parte modificabile grazie a disposizioni personali di fine vita, e una digitale che potrebbe dipendere anch’essa solo parzialmente dalla nostra volontà. Tralasciamo alcune odierne inquietanti distorsioni dell’uso della rete, quali il suicidio e la morte in diretta o i selfie funerari.
E’ possibile invece che nel giorno della Commemorazione dei Defunti faremo un giro in rete invece che al Cimitero? Gli studiosi della “digital death” si stanno concentrando su alcuni importanti temi quali le conseguenze che la morte del singolo produce all’interno della realtà digitale e quindi nella vita di chi soffre la perdita; le conseguenze che la perdita degli oggetti e delle informazioni digitali personali producono all’interno della realtà fisica del singolo individuo; l’inedito significato che assume il concetto di “immortalità” in relazione al singolo individuo e agli oggetti e informazioni digitali personali.
Esistono già in rete luoghi di cordoglio collettivo e “lapidi digitali”, ricordo di persone scomparse; ma poiché anche l’informatica non è scienza infallibile, nel 2016 un errore di sistema ha cancellato e trasformato in “lapidi” numerosi utenti che si sono così scoperti scomparsi, ma prontamente rianimati subito dopo.
E’ urgente la necessità di regolamentare questa nuova materia; sul sito del Notariato Italiano esiste già un decalogo per la gestione dell’eredità digitale. Alcuni social network, come Facebook, offrono condizioni di contratto per la gestione post-mortem dei propri dati: è possibile la richiesta di creare un profilo commemorativo da parte di parenti; la richiesta di cancellare l’account e il profilo di un defunto sempre da parte di parenti dopo averne verificato l’identità; la richiesta di accedere al profilo di un defunto da parte di parenti che non possiedono le credenziali, richiesta in genere rifiutata; oppure la richiesta di gestione del profilo con le vecchie credenziali del defunto da parte di parenti in possesso di credenziali. Questi ultimi aspetti potrebbero porre possibili problemi di conflitto familiare! L’alternativa? Portarsi dietro i dati nella tomba!
In conclusione è possibile dire con Hans Seydlman che “tutta la cultura si basa infatti …. letteralmente sul culto dei morti; senza attenzione per i morti non vi è attenzione per l’uomo”, perché, piaccia o no, la morte è parte della vita, al pari della nascita: nascita e morte delimitano la vita, così come l’alba e il tramonto delimitano il giorno, spesso creando somiglianze di colori. Nei secoli l’attenzione per la morte è sempre stata argomento dell’uomo, con le caratteristiche tipiche del periodo storico vissuto: il culto della morte riflette il culto per la vita.
La morte dunque non va in vacanza come volle suggerire un film del 1998 di grande intensità ed inevitabile happy end hollywoodiano “Vi presento Joe Black” (Meet Joe Black) diretto da Martin Brest, con Brad Pitt e Anthony Hopkins,
già precedentemente riproposto nel 1971 quale remake del film del 1934 di James Mitchell Leisen , ispirato al lavoro di Alberto Casella del 1923, il commediografo che fu tra i primi sceneggiatori della RAI, curiosamente nato proprio alla vigilia del giorno dei morti del 1891.
Concludo questo articolo della domenica che a qualcuno – magari più incline a sorridere alle sguaiate sceneggiate di Halloween – potrà apparire inquietante, con l’affermazione del filosofo francese Paul Ricoeur. “Con l’orrore del silenzio degli assenti che non rispondono più, la morte dell’altro penetra in me come una lesione del nostro essere comune. La morte mi tocca. In tale esperienza anticipo la mia futura morte come la possibile non risposta di me stesso a tutte le parole di tutti gli uomini. La morte ci tocca anche quando è l’altro a morire, perché muore anche quella parte di noi che era nell’altro”.