Il 2020 volge al termine. É tempo di bilanci. Quelli appena trascorsi sono stati mesi caratterizzati dalla pandemia da COVID19, un’emergenza particolare per durata e estensione planetaria.
Negli ultimi dodici mesi sono emerse criticità alle quali pochi, fino ad ora, avevano dedicato la dovuta attenzione (o avevano fatto solo finta di farlo). Come i piani di emergenza sanitaria, secondo alcune inchieste giornalistiche vecchi e obsoleti, risalenti addirittura al 2006 (un’eternità in questo settore). O come il problema della gestione della crisi dal punto di vista finanziario: in Europa composta da paesi che hanno rinunciato al proprio potere di emettere moneta, aver messo tutto nelle mani della BCE (che, è sempre bene ricordarlo anche se ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, è un soggetto privato che, quindi, cura prima di tutto gli interessi degli azionisti privati) ha fatto sorgere grossi dubbi sul prossimo futuro, quando i cittadini dei paesi dell’area Euro saranno costretti a restituire i prestiti ricevuti dai governi per far fronte alle emergenze.
Durante l’ultimo anno, quasi tutti, in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, sono stati colpiti dalla pandemia. Ma c’è un gruppo di persone che, forse, ha dovuto pagare un prezzo più alto di quanto si possa immaginare. I migranti. Solo pochi giorni fa, il 18 Dicembre, è stata celebrata la Giornata Internazionale per i Diritti dei Migranti.
I migranti, non solo rifugiati o profughi, sono molti di più e il loro numero è in continua crescita. Basti pensare che, se negli ultimi anni erano poco più di cento milioni in tutto il mondo, per il 2020 le stime dell’IOM parlano di oltre 200 milioni di uomini, donne e bambini che hanno lasciato la propria casa, spesso anche il proprio paese, per trovare un posto dove vivere. E stime attendibili prevedono che potrebbero raggiungere il miliardo di individui entro questo secolo (alcuni studi dicono addirittura entro il 2050).
Una questione geopolitica di primissima importanza che invece, inspiegabilmente, i governi fingono di non capire o di voler contrastare costruendo barriere fisiche inutili e muri politici altrettanto inefficaci. I flussi migratori di persone sono un fenomeno naturale e inarrestabile (i primi dimostrati risalgono a centinaia di migliaia di anni fa e riguardano proprio migrazioni dall’Africa verso l’Europa). Fare finta di non vedere o di non capire è un errore che ogni anno causa migliaia e migliaia di morti. Anche durante la pandemia i flussi migratori non si sono fermati e, nel mondo, migliaia di persone sono morte nel tentativo di varcare le frontiere o di attraversare il Mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa.
L’ultimo caso risale a pochi giorni fa. Distratti dalle notizie sui vaccini (peraltro spesso lacunose e limitate) e sulle misure da inserire nella manovra finanziaria (da mettere sotto l’albero di Natale al posto dei regali che non è stato possibile comprare a causa del lockdown), molti hanno fatto finta di non accorgersi di cosa sta accade sotto i loro occhi. Di non sapere, ad esempio, che in questo momento ci sono circa tremila persone che vagano nei boschi tra la Croazia e la Bosnia Erzegovina. In fuga da guerre e zone invivibili, spesso cacciati o respinti, rischiano di morire assiderati dal gelido inverno e dal freddo di una umanità senza cuore. Un migliaio di loro sono fuggiti dall’incendio che ha distrutto il campo di Lipa in Bosnia, gestito dall’IOM l’Organizzazione Mondiale dei Migranti, la quale, dopo aver segnalato più volte che quel campo non è attrezzato per far fronte al freddo inverno, ha dovuto chiuderlo.
L’incendio (le cui cause sono ancora da accertare) ha causato la fuga di centinaia e centinaia di persone che si sono ritrovate, da un giorno all’altro, in pieno inverno, a cercare di raggiungere la Croazia dopo essersi uniti ad altri migranti. Migliaia di persone che festeggeranno la fine del 2020 cercando di sopravvivere e di vedere sorgere il sole a gennaio: congelati, infreddoliti, con i piedi viola per il freddo e la febbre alta solo pochi di loro sono riusciti a trovare qualche coperta e a ricevere un pasto distribuito dalla Croce Rossa bosniaca.
Le autorità internazionali hanno definito questo evento una “vera catastrofe umanitaria”: almeno tremila mediorientali, nordafricani, asiatici che da giorni vagano in ciabatte, con minime vicine ai venti gradi sottozero, per le foreste della Bosnia nord-occidentale, al confine con la Croazia. “Nevica, siamo sotto zero, non c’è riscaldamento, niente”, ha dichiarato il responsabile IOM per la Bosnia, Peter Van der Auweraert.
In Bosnia, gli abitanti della zona di Bihac li hanno respinti con parole tipo “Difendiamo la nostra città!” lanciato su Facebook (che ha avuto numerose approvazioni) dimenticando che per accogliere queste persone il governo di Sarajevo ha già ricevuto oltre 60 milioni di Euro dall’Ue (e altri sono in arrivo) proprio per aiutare queste persone. In Croazia, quelli già arrivati alla frontiera sono stati respinti dalla polizia con modi rudi (che hanno richiamato l’attenzione di Amnesty International e delle NU).
La loro situazione, tremenda e senza alcuna giustificazione, non è un caso isolato. In tutto il pianeta, i migranti spesso sono stati trattati come animali. Anzi, peggio: per permettere ad alcuni animali di attraversare le strade in sicurezza in alcuni paesi si sono costruiti ponti “verdi”; per i migranti, invece, si costruiscono barriere e muri coperti da filo spinato. Come quelli voluti a tutti i costi da Trump (costati una fortuna ai contribuenti a stelle e strisce) e che il nuovo presidente non pare essere così pronto ad abbattere. Anzi.
Van der Auverart ha parlato di “catastrofe umanitaria”, ma il problema potrebbe essere ben più grave. É ideologico. Nel 2020 è apparso evidente che parole come “diritti umani”, “altruismo” e tante altre sono solo termini da riportare in trattati che spesso non vengono nè firmati né ratificati dai singoli paesi o da mettere in bocca a questa o quella ragazzina di turno. E poi nient’altro.
La prima bozza della Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie risale addirittura al 1949. Ma perchè venisse approvata è stato necessario attendere il 1990 (risoluzione A/RES/45/1581). Poi ci sono voluti altri tredici anni, fino al 2003, perché venisse ratificata almeno da 20 paesi (il minimo per diventare operativa). E ancora oggi, dopo altri 17 anni questa Convenzione è stata firmata solo da 51 paesi. E tra questi non ci sono i paesi europei o l’Australia o gli USA, paesi che da sempre si dichiarano paladini dei diritti umani.
Eppure si tratta di un documento importante che potrebbe fornire una base normativa per proteggere e tutelare i migranti e il loro transito attraverso paesi come la Bosnia o la Croazia. O l’Italia, per quanti arrivano sui barconi attraverso il Mar Mediterraneo. In tutti questi paesi, stranamente, nessun politico ha mai mosso un dito per far ratificare al proprio paese questa Convenzione. Hanno preferito costruire muri (sono più di quelli che c’erano ai tempi della guerra fredda).
Solo pochi giorni fa, in occasione della Giornata mondiale della Solidarietà umana, nata proprio per ricordare a tutti i governi e a tutti i cittadini del pianeta l’importanza della solidarietà per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sociale. Sulla carta.
La realtà è tutta un’altra cosa.
Forse il 2020, per chi saprà leggere tra le righe, sarà servito proprio a questo. A far capire l’ipocrisia e l’indifferenza che si celano dietro questi documenti, questi accordi internazionali, trattati, leggi e direttive pieni di paroloni come “solidarietà”, “diritti umani”, “sostenibilità”. Mentre, poco lontano, uomini, donne e bambini muoiono nel freddo dell’inverno perché nessuno ha messo in pratica queste parole e ha risposto alla loro richiesta d’aiuto