Nei giorni scorsi, i media hanno fatto un gran parlare circa l’esecuzione in Iran di un giovane poco più che ventenne. Nessuno, però, ha detto qual è la situazione delle esecuzioni capitali in altri Paesi nel mondo. Tra i Paesi che utilizzano questa pratica barbara e inaccettabile, l’Iran è solo il secondo per numero di esecuzioni. Al primo posto, stando ai dati di Amnesty International, ci sarebbe la Cina. In questo caso il condizionale è d’obbligo: in questo Paese (così come in Vietnam) i dati sulle esecuzioni capitali sono classificati come segreto di stato. In altri Paesi, come Bielorussia, Laos e Corea del Nord hanno applicato restrizioni a queste informazioni tanto da risultare estremamente poche o del tutto assenti.
Una situazione che rende difficile anche fare stime attendibili. “Dal 2009 Amnesty International ha smesso di pubblicare le stime sull’uso della pena di morte in Cina”, si legge nel recente rapporto sulla pena di morte nel 2021 di Amnesty International che ha “sempre chiarito che i dati che è in grado di confermare sono significativamente inferiori a quelli reali, a causa delle restrizioni alle informazioni. Da quelle disponibili, tuttavia, emerge chiaramente che ogni anno in Cina avvengono migliaia di condanne a morte ed esecuzioni”.
Eppure a nessuno è venuto in mente di sbattere in prima pagina questa notizia. A nessuno, parlando degli incontri commerciali tra Cina e Arabia Saudita (come quelli dei giorni scorsi), è passato per la mente che sono due tra i Paesi del mondo che utilizzano di più la pena di morte.
Proprio l’Arabia Saudita, sarebbe il quarto posto tra i Paesi del mondo per esecuzioni capitali nel 2021 (il terzo è l’Egitto). Anche delle esecuzioni capitali in Arabia Saudita di cose da dire ce ne sarebbero molte. Ad esempio, anche qui si sono verificati casi spaventosi: tra le persone condannate a morte in Arabia Saudita c’è Abdullah al-Huwaiti, quattordicenne all’epoca del reato. Condannato a morte con pena poi commutata ai sensi di un decreto reale del 2020 è stato nuovamente processato e condannato a morte. Il 13 marzo 2022, in Arabia Saudita, sono state eseguite 81 condanne a morte (complessivamente dall’inizio del 2022 le condanne a morte eseguite sono state già oltre novanta). Un numero impressionante. Ma ancora più impressionante è che, anche in questo caso, alcune di queste esecuzioni sarebbero avvenute a causa di un presunto “danno al tessuto sociale e alla coesione nazionale” o “partecipazione e incitamento alla partecipazione a sit-in e proteste”.
A volte si è trattato di esecuzioni basate su condanne sulla base di confessioni estorte con la violenza. “Queste esecuzioni sono tanto più allarmanti se si considera il sistema giudiziario saudita, che consente di emettere condanne a morte a seguito di processi gravemente irregolari e basati su ‘confessioni’ estorte con la tortura”, ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. Come nel caso di Mohammad al-Shakouri, condannato a morte dal Tribunale penale speciale – l’organo giudiziario che si occupa dei casi di terrorismo – il 21 febbraio 2021. “Dopo l’arresto non aveva mai potuto incontrare un avvocato. In tribunale, aveva denunciato di essere stato torturato a tal punto da aver perso la maggior parte dei denti”.
Eppure anche di questo i giornali occidentali hanno parlato. Hanno anche “dimenticato” di parlare dei metodi adoperati in questo Paese: qui, le esecuzioni capitali spesso vengono eseguite mediante decapitazione.
Non sono solo Iran e Arabia Saudita a utilizzare le pena di morte come “deterrente politico”. In molti dei Paesi dove la pena di morte è ancora ammessa, nel 2021 è stata impiegata come strumento di repressione contro le minoranze e i manifestanti. Impressionante la situazione in Myanmar dove, grazie alla legge marziale, i militari hanno trasferito ai tribunali militari i processi contro imputati civili, sottoposti a procedimenti sommari senza diritto al ricorso in appello. Quasi 90 persone sono state condannate arbitrariamente a morte, diverse in contumacia, in quella che sembra essere una misura di propaganda militare per diffondere il terrore.
Secondo Amnesty International, anche le autorità egiziane avrebbero “continuato a fare affidamento su torture ed esecuzioni di massa, spesso al termine di processi iniqui celebrati dai tribunali di emergenza per la sicurezza dello stato”.
Anche tra i Paesi “sviluppati” alcuni non hanno rinunciato alla pena di morte. Oltre agli USA, anche in Giappone si è tornato a fare uso della pena di morte: alla fine dello scorso anno sono state eseguite le impiccagioni di Yasutaka Fujishiro, Mitsunori Onogawa e Tomoaki Takanezawa, le prime esecuzioni dal 2019 ma anche le prime sotto il primo ministro Fumio Kishida, in carica da ottobre 2021. Ma anche di questo si è parlato poco.
Ieri, 10 dicembre 2022, era la Giornata dei Diritti Umani, una giornata istituita per celebrare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo o UDHR, forse il trattato più importante in assoluto (insieme con la Convenzione dei Diritti del Fanciullo) tra quelli riguardanti i diritti dell’uomo. L’UDHR prevede che “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti” (art.5). Che “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona” (art.3). Egitto, Cina e Arabia Saudita hanno ratificato questo documento. Anche l’Iran lo ha fatto.
Quanto al Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, volto all’abolizione della pena di morte, ad oggi questo è stato ratificato “solo” da 90 Paesi a fronte di 107 che non lo hanno mai firmato. E tra questi ci sono quasi tutti i Paesi africani, quasi tutti i Paesi asiatici (tranne la Mongolia e uno sparuto nucleo di Paesi ex sovietici) e ovviamente tutti i Paesi mediorientali (oltre ovviamente a USA e Giappone). In questi Paesi, il diritto alla vita sembra non contare nulla. Ma anche di questo, i giornali non hanno detto nulla.