Può un solo indicatore spiegare tutto quello che sta avvenendo nel mondo? Forse sì. È l’indice di Gini, un indicatore economico del quale si parla poco, troppo poco. Sviluppato dallo statistico italiano Corrado Gini nel 1912, l’indice o coefficiente di Gini è un numero variabile da 0 a 1 (spesso è espresso in percentuale). In pratica, se una nazione ha un’assoluta uguaglianza di ripartizione della ricchezza o di reddito, con ogni persona che guadagna lo stesso importo, l’indice di Gini è pari a 0 (o 0% in percentuale). Al contrario, se una persona guadagna tutto ciò che è disponibile in una nazione e gli altri guadagnano zero, il coefficiente di Gini è 1 (o 100%). Il coefficiente di Gini è definito in base alla curva di Lorenz che traccia i percentili della popolazione sull’asse orizzontale del grafico in base al reddito o alla ricchezza, a seconda di quale viene misurato. Il reddito cumulativo o la ricchezza della popolazione è tracciato sull’asse verticale.
L’indice di Gini è estremamente importante (e forse è proprio per questo non se ne parla): dimostra l’efficacia delle politiche globali e nazionali.
Tutti i leader mondiali parlano di un mondo “uguale”, di nuovo “sviluppo equo” e “sostenibile” e simili. Ma qual’è la situazione reale? Davvero le politiche adottate negli ultimi anni (o decenni) hanno reso gli esseri umani più simili tra loro? Davvero i ricchi sono “meno ricchi” e i poveri “meno poveri”?
A livello globale, la situazione è tutt’altro che rosea. Un dato per tutti: le tre persone più ricche del pianeta dispongono di un capitale di gran lunga superiore al reddito annuo degli oltre 670 milioni di individui che vivono in condizioni di povertà assoluta, ovvero con un reddito giornaliero non superiore a 1,9 dollari. E dato che molte di queste persone non guadagno nemmeno una parte di questa cifra, la differenza è ancora maggiore.
Spesso oltre all’indice di Gini, la disuguaglianza di reddito tra gli individui viene misurata anche con altri indicatori. S80/S20 ovvero il rapporto tra il reddito medio del 20% più ricco e il 20% dei più poveri. P90/P10 cioè il rapporto tra il valore limite superiore del nono decile (cioè il 10% delle persone con il reddito più alto) e quello del primo decile. P90/P50 del valore limite superiore del nono decile rispetto al reddito mediano. E P50/P10 del reddito mediano al valore limite superiore del primo decile.
Tutti questi indicatori dicono la stessa cosa: nei paesi sviluppati la ricchezza sta crescendo, ma non per tutti. E non allo stesso modo. Ad esempio, nei paesi OCSE, il reddito medio per famiglia è cresciuto di poco più dell’1%. Nei paesi del G7 il reddito medio, nel 2022, è cresciuto mediamente del 10,7%. Ma in alcuni paesi, come il Giappone, la crescita non è andata oltre il 3,7%. In Germania è praticante zero. Negli USA sarebbe addirittura diminuita del 6,3%! Eppure anche qui, i ricchi sono diventati sempre più ricchi. E i poveri sempre più poveri.
Nella classifica della Banca Mondiale, l’indice maggiore generalmente compare in paesi sottosviluppati o in via di sviluppo (in testa il SudAfrica seguito da Namibia e Suriname). Nell’ultimo periodo, però, negli Stati Uniti d’America, l’indice di Gini è cresciuto notevolmente: secondo gli ultimi rilevamenti dovrebbe attestarsi intorno allo 0,402. Un numero altissimo. Il quarto più alto tra i paesi OCSE (dopo Costa Rica, Messico e Turchia). Tra i paesi sviluppati, gli USA sono quelli con l’indice di Gini più alto (e di molto). Notevole l’aumento rispetto agli anni passati: nel 2021 era 0,397. In questo paese, i democratici (al potere) non sembrano aver fatto molto per distribuire equamente la ricchezza: l’1% della popolazione più ricca ha un reddito 40 volte superiore rispetto al 90% più povero. Ovviamente negli Stati Uniti, la povertà è un problema sempre più grave: si stima che il 12,3-17,8% della popolazione sia inferiore al livello di povertà (Tasso di povertà per paese). Aspetto non trascurabile dal punto di vista sociale ed economico, molte di queste persone non sono “mendicanti” o persone che non lavorano. Lavorano, eccome. Solo che i loro salari sono troppo bassi per permettere loro uno stile di vita ragionevole (in barba ale dichiarazioni internazionali e nazionali). A New York, capitale economica degli USA, sono migliaia le persone che vivono sottoterra. Vengono chiamate le “talpe”: vivono sotto i quartieri più famosi della città, nella più totale indifferenza di chi cammina sopra le loro teste. Vivono e si muovono nell’oscurità per non essere sfrattati dalle autorità dalle loro “case” sotterranee. Ancora una volta non si tratta di poveri o nullatenenti: sono persone che ogni mattina si alzano e vanno a lavorare, ma che non hanno abbastanza soldi per una casa. Nell’ultimo periodo il loro numero è aumentato. La stessa cosa succede a Las Vegas: la città simbolo del gioco d’azzardo e degli sprechi insensati ospiterebbe sotto di se centinaia di “talpe”.
In Cina, paese “comunista” per antonomasia (dove quindi la ripartizione della ricchezza dovrebbe essere equa, almeno sulla carta), l’indice di Gini mostra un impietoso 39%. Segno che la realtà è ben diversa dalla teoria. Anche qui sono centinaia di migliaia le persone che vivono sotto terra. Molti sono ragazzi che hanno cercato di trovare un futuro nelle grandi metropoli. Non hanno un reddito sufficiente a consentire loro di consentirsi un appartamento fuori terra. Qui non li chiamano “talpe”. Li chiamano la tribù dei ratti (shuzu): vivono in scantinati sovraffollati e senza finestre. Alcuni vivono nei rifugi antiaerei scavati durante la guerra di confine sino-sovietica del 1969 per ordine del presidente Mao Tse-tung. Anche in Russia (altro paese comunista, almeno sulla carta), i rifugi antiaerei di Mosca sono diventati “casa” per molte persone. E anche qui, spesso si tratta di persone che hanno un lavoro ma che non guadagnano abbastanza da permettersi una casa. Qualche anno fa, la polizia di Mosca arrestò un centinaio di persone che vivevano in una “città sotterranea” originariamente costruita come rifugio antiaereo, proprio sotto la fabbrica che produceva lame, aghi e spille da balia dove lavoravano le persone arrestate.
Un aspetto interessante e, per certi versi sorprendente, è che, in genere, il coefficiente di Gini aumenta dopo periodi di crisi. Dopo una guerra o una grave crisi economica. O dopo una pandemia. Dopo questi periodi spesso ci si nota che i ricchi sono diventati “più ricchi” e i poveri “sempre più poveri”. É stato così anche durante il XIX e il XX secolo. Secondo il rapporto Poverty and Shared Prosperity 2020 della Banca Mondiale, il coefficiente di Gini aumenta di circa 1,5 punti nei cinque anni successivi alle principali epidemie, come H1N1 (2009), Ebola (2014) e Zika (2016). Dopo la pandemia di COVID-19 è stato lo stesso. I dati ufficiali sono ancora in fase di calcolo, ma le prime stime parlano di un aumento del coefficiente di Gini di 1,2-1,9 punti percentuali all’anno per il 2020 e il 2021.
E in Italia? Il rapporto “Crescere in Italia, oltre le disuguaglianze” della Fondazione Cariplo, parla di una crescita impressionante dell’indice di Gini: nel 1980 (ovvero prima dell’intervento pubblico) la disuguaglianza di redditi lordi era pari al 35,4, nel 2021 era a 44,4. Questo significa una forte riduzione della quota di redditi percepiti dalla metà più povera della popolazione (in calo dal 26% nel 1980 al 20,7% nel 2021) e una crescita della quota di redditi percepiti dal 10% più ricco della popolazione (in crescita dal 24,6% nel 1980 al 32,2 nel 2021) e dall’1% più ricco (in crescita dal 5,5 al 8,7). Se si guarda i redditi netti, cioè a quel che resta dopo aver pagato tributi o ricevuto trasferimenti pubblici, la situazione non è molto diversa: secondo il World inequality database WID, in Italia si passa dal 28,4 del 1980 al 36,1 nel 2020. E il contributo nazionale per la riduzione della disuguaglianza appare essere “il più basso” tra i principali paesi analizzati. Le distorsioni maggiori riguardano la disuguaglianza della ricchezza netta, che è molto più alta di quella dei redditi. Nei principali paesi sviluppati è rimasta pressoché invariata nell’ultimo decennio (pre-pandemia). Fa eccezione l’Italia che, insieme agli Stati Uniti d’America, presenta una crescita della disuguaglianza della ricchezza molto più rapida a partire dal 1995. I dati ISTAT evidenziano che l’incidenza della povertà assoluta “è decisamente aumentata dal 2005”. Anzi è più che raddoppiata passando da 1,9 a 5,6 milioni di persone (dato 2021). Lo stesso vale per la povertà relativa, che riguarda 8,8 mln di persone rispetto a 1,9 milioni del 1997.
Qui come in molti altri paesi cresce il divario tra ricchi e poveri. Da un lato ci sono i poveri, spesso con un minore livello di preparazione personale o familiare (in Italia solo l’8% dei giovani con genitori senza un titolo superiore ottiene un diploma universitario a fronte di un 22% media OCSE). Dall’altra ci sono i ricchi sempre più ricchi che accumulano fortune enormi lavorando sempre di meno: circa il 90% della ricchezza posseduta dallo 0,01% più ricco delle famiglie è costituita da attività finanziarie e attività imprenditoriali.
Tornano in mente le parole del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, secondo il quale la disuguaglianza è una scelta puramente politica. Una scelta di tutti gli ultimi governi. L’ultimo governo non ne fa un segreto: come osserva l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), l’esecutivo nazionale – all’interno della Relazione sugli indicatori Bes – dice che “per il 2023 è previsto un aumento della disuguaglianza del reddito netto, misurata dal rapporto fra il reddito totale del 20% più ricco della popolazione con quello del 20% della popolazione più povera. E le politiche adottate produrranno “un incremento elevato del reddito del primo quinto (+7,7 %), a fronte di un moderato aumento del reddito dell’ultimo quinto della popolazione (+1,6%)” si legge nella Relazione.
In altre parole l’indice di Gini, già alto, non farà che aumentare. Ma di questo i media hanno preferito non parlare. Forse per non essere costretti a spigare agli italiani cos’è l’indice di Gini e perché continua ad aumentare mentre i governi loro parlano di “aiutare le fasce più deboli della popolazione”.