Non era un esperto di marketing e nemmeno un sociologo o uno psicologo. Era un architetto. Nel 1956, a Gruen venne chiesto di progettare un centro commerciale negli Stati Uniti. Nel farlo, l’architetto pensò di riprodurre l’atmosfera rilassata dei caffè e dei circoli letterari di Vienna. Un mondo che trasmetteva un senso di relax e di abbandono. Gruen pensava al luogo dello shopping come un posto che doveva contenere giardini, panchine, caffè e cortili per attrarre e far rilassare la gente. Un posto dove la gente doveva stare a proprio agio senza desiderare di andare via. Lo shopping diventava una sorta di esperienza sensoriale. I centri commerciali non dovevano essere semplici zone commerciali, ma luoghi di ritrovo pubblici, dove tutti, ad ogni livello della società, dovevano scaricare le tensioni della vita comune. E interagire tra loro senza confondersi.
In breve, Gruen si rese conto che questa atmosfera spingeva i visitatori a comprare di più: i clienti perdevano la cognizione logico-temporale e compravano cose che non gli servivano o delle quali non avevano alcun bisogno. Poco tempo dopo, lo stesso Gruen capì che si trattava di tecniche “pericolose” che permettevano di manipolare i consumatori. Ma ormai era troppo tardi. In pochi decenni la tecnica si diffuse come un morbo e oggi il “Gruen Transfer” è parte integrante delle politiche di marketing della maggior parte dei GDO, dei supermercati e dei grandi magazzini. Delle atmosfere idilliache alle quali pensava Gruen è rimasto solo lo strumento psicologico per costringere i clienti a comprare di più. Anche quello che non serve. L’efficacia di questa teoria questa tecnica è dimostrata da diversi studi: l’80% degli acquisti è legato alle emozioni, solo il 20% si basa su reali bisogni o su motivazioni esclusivamente razionali.
Per creare il Gruen Transfer, i centri commerciali intervengono su diversi fattori: luci e segnali acustici specifici, rumori ambientali e persino sulla disposizione spaziale dei reparti e dei prodotti sugli scaffali. Chi pensava che alcuni centri commerciali fossero casualmente “difficili” da attraversare, si sbagliava: le uscite e i percorsi sono scelti in modo che i clienti passino in quel negozio più tempo possibile. E nel frattempo riempiano i carrelli della spesa di cose che non servono.
Col tempo, le tecniche si sono affinate. Lentamente, l’idea di un luogo piacevole ed efficiente ha lasciato il posto a una forma di condizionamento spazio-temporale all’interno della quale le persone perdono la cognizione del tempo (e del denaro speso). All’interno di questi negozi non si è più persone, ma potenziali compratori.
Le pressioni iniziano ancora prima di entrare nel supermercato: app e pubblicità mediatiche martellanti spingono i potenziali clienti a cercare a tutti i costi quello che a loro non serve. A “fare affari” che non bisogna perdere, ad approfittare di occasioni irrinunciabili. Appena entrati nel centro commerciale i clienti si trovano di fronte una serie di sollecitazioni che colpiscono tutti e cinque i sensi. Poco importa se si era entrati per comprare solo una busta di latte e un chilo di pasta. Ci si trova avvolti da un design sempre nuovo ma standard (un modo per far sentire a casa il cliente che sia a pochi metri da casa, in un altro paese o al capo opposto del pianeta). Gli occhi vengono bombardati da cartelloni promozionali e da un caleidoscopio di colori inebrianti. L’olfatto è inebriato dall’odore di prodotti da forno appena sfornati (anche quando si tratta di semilavorati industriali precotti e solo riscaldati al momento). A volte viene offerto assaggio (gratuito, ovviamente) di un nuovo gelato o di un nuovo prodotto. Ma il cliente non sente il gusto: è distratto dalla canzone che gli altoparlanti del supermercato sparano a tutto volume. A trasmetterla è la radio della stessa catena di supermercati. Una radio, tra una canzone e l’altra, non perde occasione per ricordare al cliente che è il momento di fare grandi affari comprando questo o quel prodotto (anche se non servono affatto).
Ogni cosa è fatta per rallentare il cliente e per allungare la sua permanenza in quel negozio: più a lungo rimane più è probabile che compri qualcosa. A volte, per far girare il cliente per il negozio si distribuiscono i prodotti in modo apparentemente disordinato. Altre volte vengono tracciati percorsi obbligati lungo i quali il “visitatore” del negozio non può evitare di vedere centinaia, anzi migliaia di prodotti dei quali non sapeva di aver estremo bisogno. Ma dei quali, da quel momento non potrà fare a meno.
Non finisce qui: giunto alla cassa, sugli scaffali il cliente trova quello sfizio al quale non aveva pensato. Magari una barretta di cioccolato. O un pacchetto di gomme da masticare. O una pila. O qualcos’altro. Basta che compri. E che lo faccia senza accorgersi che il proprio carrello della spesa è stracolmo. Anche quando era entrato in quel supermercato per comprare una busta di latte e un chilo di pasta.