Il primo giorno di maggio, in molti paesi, si celebra la “festa dei lavoratori”. Un evento nato per ricordare un periodo caratterizzato dalle manifestazioni per i diritti degli operai delle fabbriche durante la Rivoluzione industriale, negli Stati Uniti d’America. Nel 1866, dopo duri scontri a Chicago, Illinois, venne approvata la legge che limitava la durata della giornata lavorativa a otto ore. La legge entrò in vigore soltanto l’uno maggio 1867. Quel giorno venne organizzata un’importante manifestazione, alla quale parteciparono migliaia di lavoratori. L’evento aprì la strada ad iniziative simili in Europa dove, nel 1864, era nata la “Prima Internazionale”, l’Associazione internazionale dei lavoratori, molto vicina ai movimenti socialisti e marxisti dell’epoca.
Cosa è rimato di tutto questo? E qual’è la condizione dei lavoratori in Italia, in Europa e nel mondo?
Oggi il mercato del lavoro è in continua evoluzione. Dopo un periodo di costante miglioramento per ciò che riguarda i diritti dei lavoratori, la loro tutela anche dal punto di vista della sicurezza e il riconoscimento delle rappresentanze sindacali, pare che si stia tornando indietro. A caratterizzare il mondo del lavoro sono due aspetti di cui si parla poco. Da un lato, l’internazionalizzazione e la standardizzazione dei mercati ha spostato la produzione verso paesi dove il costo della manodopera è più basso. Molto più basso. Prima la Cina, poi paesi come l’India o l’Indonesia o paesi africani. Paesi dove i problemi legati ad una manodopera meno qualificata sono compensati da un costo del lavoro molto minore. Ma soprattutto dove c’è una quasi totale assenza di diritti dei lavoratori.
Oggi, la maggior parte dei beni in uso nei paesi occidentali sono prodotti in questi paesi (basta guardare il famoso “made in…”). Qui, concetti come le “otto ore lavorative” al giorno non esistono. Non esistono diritti dei lavoratori e rappresentanze sindacali: i lavoratori sono sfruttati e nessuno dice nulla, pena la perdita del posto di lavoro. Questo ha costretto anche paesi dove i diritti dei lavoratori erano stati riconosciuti a fare un passo indietro pur di consentire al settore industriale di essere competitivo su mercati globali dove per i prodotti le frontiere non esistono più (ma per le persone sì, eccome).
Ma non è questo l’unico problema. Da alcuni anni è in atto un altro cambiamento che caratterizzerà il mondo del lavoro nei prossimi decenni: un numero sempre crescente di lavori sono realizzati da macchine sempre più specializzate e funzionali. L’automazione sta diventando la nuova frontiera in quasi tutti i principali settori e i robot stanno rivoluzionando il mondo del lavoro.
Si tratta di un cambiamento epocale. Una vera rivoluzione. In molti cominciano a chiedersi se i soldi investiti nell’automazione creeranno nuove opportunità di lavoro o se, invece, lasceranno milioni di persone senza lavoro. Con conseguenze geopolitiche e sociali non indifferenti: chi dovrà sostentare questi disoccupati?
Dagli anni Sessanta, questo processo ha subito una accelerazione sempre più rapida. Nel giro di qualche decennio, l’intelligenza artificiale ha cambiato il modo di produrre: anche operazioni prima ritenute “tipicamente umane” sono ormai meccanizzate. Si pensi alle attività di ristorazione: sono sempre più diffusi sistemi robotizzati che hanno sostituito i camerieri e, in qualche caso, anche i cuochi. O al settore della comunicazione: già nel 2018, in Cina è stato presentato un TG il cui anchorman non era una persona ma una realtà virtuale (YouTube). In pochi anni questa prassi si è diffusa in altri paesi. In Giappone, dal 2019 a condurre un TG è Erica, un robot dotato di intelligenza artificiale sviluppato nei laboratori di Osaka dal professor Hiroshi Ishiguro. Più di recente, nei paesi arabi, è stato fatto qualcosa di molto simile.
Secondo uno studio pubblicato nel 2017 al World Economic Forum a livello globale più di 375milioni di lavoratori potrebbero essere sostituiti da macchine. Innegabile i vantaggi per le aziende. A fronte di un investimento iniziale (spesso realizzato in parte con fondi pubblici), non dovrebbero più far fronte a turni di lavoro, diritti sindacali e nemmeno (entro certi limiti) a regole legate al luogo di lavoro, come ad esempio la qualità dell’aria sul luogo di lavoro o la riduzione del rumore o servizi come mense e spogliatoi. Pochi giorni fa, un quotidiano nazionale ha pubblicato un video nel quale si mostrava il modo di lavorare (quasi) completamente automatizzato e robotizzato di uno dei maggiori sistemi di vendita online. Dentro un magazzino di Amazon: il «balletto» dei robot che si scatena quando ordiniamo un pacco (Corriere TV).
L’altra faccia della medaglia di questo cambiamento sono i lavoratori che vengono mandati a casa. Persone che, senza un adeguato programma di riqualificazione e di reinserimento, rischiano di non trovare più un lavoro. Secondo molti ricercatori, solo una piccola parte dei posti di lavoro perduti a causa della robotizzazione saranno compensati dalla creazione di nuovi posti lavoro in altri settori, magari più specialistici. É un atto una vera rivoluzione industriale. Una rivoluzione che alcuni hanno definito “schumpeteriana”. Chiaro il riferimento a Joseph Schumpeter che considerava il progresso tecnologico il fulcro della crescita di un paese, ma con un netto distinguo tra le scoperte scientifiche, non guidate da motivi economici, e l’innovazione, ossia l’applicazione di queste scoperte al mondo produttivo. Aspetto cruciale della sua teoria della crescita era il ruolo degli imprenditori. Purtroppo, in un mondo come quello attuale, dove l’imprenditore mira solo all’utile netto, al profitto, la connettività ubiquitaria di persone e macchine è governata dalla legge di Moore: raddoppiare il rapporto prestazioni/costi ogni 12-18 mesi. Un processo possibile solo grazie al ricorso sempre più massiccio alle macchine.
All’epoca della prima rivoluzione industriale, centinaia di migliaia di operai temettero di perdere il loro lavoro perché sostituiti dalle macchine. Fu un momento storico. Coloro che svolgevano lavori manuali vennero rimpiazzati da macchinari intelligenti. Ma furono necessarie nuove figure professionali in grado di comprendere, programmare e gestire quei macchinari. Apparve chiaro che i posti di lavoro che venivano creati erano meno di quelli che erano andati perduti. Questa “rivoluzione” non si è mai arrestata. Nella Quarta Rivoluzione Industriale il cambiamento potrebbe avere effetti devastanti. Si stima che negli Stati Uniti quasi il 50% dei lavori potrebbe essere sostituito da macchine. Un fenomeno già iniziato anche in Europa. Secondo gli ultimi dati, nell’UE sarebbero almeno 14 milioni i disoccupati. Come al solito, notevoli le differenze da paese a paese. Si va da paesi dove questi numero sono bassi, come Repubblica Ceca, in “piena occupazione” e Germania a paesi dove è molto maggiore: in Grecia il valore più elevato (oltre il 20%). (dati Eurostat)
In questi giorni i media italiani si sono premurati di riportare le statistiche ufficiali che parlano di un tasso di occupati in aumento (ma solo dello 0,1%, praticamente niente). Quello che hanno dimenticato di dire è che anche il tasso di disoccupati e di non occupati è molto alto. E che è molto più elevato della media europea. A questo si aggiunge che, spesso, questi dati possono essere fuorvianti: raramente i medi distinguono tra disoccupati e “non occupati”.
Nei giorni scorsi, con un notevole anticipo rispetto alla ricorrenza del primo maggio, il Presidente della Repubblica Mattarella ha parlato di “lavoro”: “Ampliare la base del lavoro, e la sua qualità, deve essere assillo costante a ogni livello, a partire dalle istituzioni” ha dichiarato a poche ore dal Consiglio dei Ministri che doveva varare provvedimenti su lavoro e occupazione. Il Presidente della Repubblica ha richiamato l’attenzione su diversi problemi legati al mondo del lavoro: dalla parità di genere alle carenze sulla sicurezza del lavoro; dallo sfruttamento minorile che “ruba il futuro ai giovani” alle disuguaglianze territoriali. Lo ha fatto durante la sua visita al distretto industriale di Meccatronica, dove un operaio in tuta blu gli si è avvicinato e gli ha porto una centralina: “Questa ha al suo interno dei microchip capaci di dare i comandi ai veicoli”, gli ha spiegato il capoturno. L’ennesimo esempio di automazione e robotizzazione.
Tornano in mente le parole pronunciate qualche anno fa dal CEO di Autodesk, Carl Bass: “La fabbrica del futuro avrà solo due dipendenti: un uomo e un cane. L’uomo sarà lì per dare da mangiare al cane. Il cane sarà lì per impedire all’uomo di toccare l’attrezzatura”.
Specie in occasione della Giornata dei Lavoratori.