Nei giorni scorsi, con l’esacerbarsi degli scontri tra palestinesi e israeliani, molti leader occidentali si sono precipitati a ribadire il proprio appoggio a Israele. Come sempre avviene durante le guerre, i diritti umani e le regole di ingaggio diventano carta straccia. Non da una parte sola: da entrambe le parti.
I capi di governo che si sono affrettati a esprimere il proprio supporto a Israele hanno dimenticato che l’espansione di questo paese nei territori occupati ha violato tutti gli accordi presi. A cominciare da quelli sottoscritti nel 1947 con i quali l’Assemblea Generale dell’ONU aveva stabilito la “Risoluzione della partizione” . In quel documento era prevista l’esistenza di due Stati: uno arabo e uno ebraico. Invece, Israele ha continuato ad occupare illegalmente parti di territorio che erano stati assegnati allo Stato palestinese. Nel 2017, in un documento delle Nazioni Unite si parlava di occupazioni dei territori palestinesi almeno dal 1967, con la Guerra dei Sei Giorni. Nel documento si diceva che erano state infrante molte leggi sui diritti umani. Anche la divisione di Gerusalemme in due zone, una zona occidentale, ebraica, controllata da Israele, e una zona orientale, araba, sotto il controllo della Giordania, è stata violata più volte unilateralmente da Israele. Nel 1980, Israele ha proclamato Gerusalemme capitale. Una decisione supportata dagli USA: Trump vi ha aperto gli uffici di rappresentanza degli USA. Un’operazione questa mai riconosciuta a livello internazionale, visto che avrebbe dovuto costituire un territorio internazionalizzato secondo gli accordi iniziali. Ma nessuno ha mai detto nulla in proposito (a parte le Nazioni Unite). Nel corso dei decenni, l’Amministrazione Civile Israeliana (l’ente che si occupa degli affari civili nei territori occupati) ha approvato la costruzione di centinaia e centinaia di edifici in Cisgiordania. Secondo alcune stime, su un totale di 27.000 kmq di terre palestinesi, Israele ne sfrutta più dell’85%. In questi territori, le case dei palestinesi vengono demolite e migliaia di palestinesi restano senza un tetto. Solo nella Striscia di Gaza si stima che siano state distrutte oltre 9.000 case. Eppure, nel 1993, gli accordi di Oslo, avevano previsto il “ritiro delle forze israeliane da alcune aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania”, e affermato il diritto palestinese all’autogoverno in tali aree, attraverso la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Secondo Yotam Berger, autore di un servizio sui coloni in Cisgiordania: “Tutti continuano a ripetere che per porre fine alla questione israelo-palestinese serve la soluzione dei due Stati, ma la realtà è che non è più possibile: i palestinesi non hanno più una terra loro”. Ma di questo nessun leader occidentale ha parlato.
Neanche quando i modi adottati da Israele hanno spesso richiamato l’attenzione dell’ONU per presunti casi di violazione dei diritti umani. A maggio 2021, l’United Nations Human Rights Council ha incaricato l’United Nations Independent International Commission of Inquiry on the Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, and in Israel di “indagare, nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est, e in Israele, su tutte le presunte violazioni del diritto internazionale umanitario e su tutte le presunte violazioni e abusi del diritto internazionale dei diritti umani, dall’inizio e fino al 13 aprile 2021”. A luglio dello stesso anno, il presidente dell’Human Rights Council ha nominato una commissione d’inchiesta con il compito di “indagare su tutte le cause profonde alla base delle tensioni ricorrenti, dell’instabilità e del protrarsi del conflitto, inclusa la discriminazione e la repressione sistematiche basate sull’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa” e di riferire all’Human Rights Council e all’Assemblea generale dell’Onu ogni anno. Il primo rapporto della Commissione, presentato all’Assemblea generale dell’ONU parlava di “ragionevoli motivi per concludere che l’occupazione israeliana del territorio palestinese sia ora illegale ai sensi del diritto internazionale a causa della sua permanenza e delle politiche di annessione de facto del governo israeliano”. Ma nessuno disse una parola. Nemmeno quando la commissione invitò l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a “richiedere un parere consultivo urgente alla Corte internazionale di giustizia sulle conseguenze legali del continuo rifiuto di Israele di porre fine alla sua occupazione dei Territori Palestinesi Occupati”. La presidente della commissione, Navanethem Pillay, affermò che “recenti dichiarazioni del Segretario generale (António Guterres) e di numerosi Stati membri hanno chiaramente indicato che qualsiasi tentativo di annessione unilaterale del territorio di uno Stato da parte di un altro Stato è una violazione del diritto internazionale ed è nullo” e che “se non applicato universalmente, anche alla situazione nei Territori Palestinesi Occupati, questo principio fondamentale della Carta delle Nazioni Unite diventerà privo di significato”.
Il rapporto denunciava anche “le politiche del governo israeliano che hanno avuto un impatto serio e sfaccettato su tutti i settori della vita palestinese, compreso l’accesso all’acqua pulita e a prezzi accessibili, che ha avuto un impatto sull’intero settore agricolo palestinese, limitando le opportunità di sostentamento che colpiscono in particolare le donne”. Del modo di privare i cittadini palestinesi nella Striscia di Gaza dell’accesso ad una risorsa primaria come l’acqua e, invece, di costruire case con piscina per i coloni israeliani si è parlato molto. Ma anche in questo caso, nessuno ha fatto nulla di concreto. Un silenzio di fatto che ha spinto un altro membro della commissione, Kothari, a dire che “ci sono così tanti “danni silenziosi” e traumi psicologici, che potrebbero non essere immediatamente evidenti, derivanti dall’erosione dei diritti economici, sociali e culturali. Questi processi debilitanti hanno gravi conseguenze a breve e lungo termine e devono essere affrontati con urgenza”. Nel rapporto, infatti, era stata condotta una dettagliata analisi dell’impatto dell’occupazione israeliana e delle politiche di annessione de facto sui diritti umani dei palestinesi. I relatori parlarono di “un ambiente coercitivo inteso a costringere i palestinesi a lasciare le loro case e ad alterare la composizione demografica di alcune aree”, anche mediante la “demolizione di case e la distruzione di proprietà, l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza, l’incarcerazione di massa, la violenza dei coloni, le restrizioni ai movimenti e le limitazioni all’accesso ai mezzi di sussistenza, ai beni di prima necessità, ai servizi e all’assistenza umanitaria”. Ma nessun leader occidentale prese le difese dei palestinesi. Nessuno ebbe il coraggio di parlare, nemmeno dopo che il leader israeliano Benjamin Netanyahu appena tornato al potere venne accusato di reati gravi (specie per un politico): frode, corruzione e abuso di fiducia. Un evento storico per Israele: mai nessun premier era stato chiamato a difendersi davanti ad un tribunale non per uno ma per ben tre capi d’accusa.
Anche Amnesty international è intervenuta con gravi accuse di violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei confronti dei palestinesi. Lo ha fatto nel rapporto dal titolo “Apartheid israeliano contro i palestinesi. Un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità dove si parla di terrorismo e antisemitismo. In un altro rapporto, sempre di Amnesty International, vengono elencate le violazioni dei diritti umani da parte di Israele: dalla discriminazione istituzionalizzata agli espropri e demolizione di case; dall’uso eccessivo della forza (fino all’uccisione di 31 palestinesi tra cui 9 bambini nei Territori Palestinesi Occupati) al blocco illegale persistente da 14 anni della Striscia di Gaza; dalla limitazione della libertà di movimento in Cisgiordania con posti di blocco e checkpoint alla detenzione amministrativa senza accusa né processo per centinaia di palestinesi; fino all’uso della tortura e altri maltrattamenti di detenuti, compresi bambini o violenze contro i difensori dei diritti umani, giornalisti e altri critici delle politiche di occupazione israeliane (sempre partendo da dati ufficiali come quelli delle Nazioni Unite. Tutte violazioni commesse da quello che molti oggi presentano come l’ “unica democrazia del Medio Oriente”. Ma anche questo rapporto non ha prodotto effetti concreti. Anzi, spesso, alcuni di questi documenti sono stati nascosti. Nel 2017, a seguito delle pressioni esercitate da Israele, i vertici delle Nazioni Unite rimossero dal sito web istituzionale il rapporto dell’Economic and Social Commission for Western (ESCWA) dal titolo “Israeli Practices towards the Palestinian People and the Question of Apartheid”, che accusava esplicitamente Israele del crimine di apartheid (ancora disponibili sui siti di Human Rights Watch e BTselem .
Tutto questo dovrebbe far comprendere che l’atteggiamento nei confronti di Israele è stato forse troppe volte di parte e raramente obiettivo. Lo scorso anno, 680 leader da 75 paesi hanno chiesto al presidente Biden, che aveva basato la propria campagna elettorale sui diritti umani, di contribuire alla fine dell’ “oppressione strutturale del popolo palestinese da parte di Israele”. Ma anche il loro accorato appello è rimasto inascoltato. Il nocciolo della questione è da cercare nel fatto che il cosiddetto Stato di Palestina, pur essendo riconosciuto come “osservatore permanente presso le Nazioni Unite”, è ancora uno “Stato a riconoscimento limitato” ovvero uno Stato indipendente e sovrano, che controlla e governa un territorio e una popolazione, ma la cui sovranità è riconosciuta, a livello internazionale, solo da un numero limitato di Stati. Ed è solo con questi che uno Stato a riconoscimento limitato come la Palestina può intrattenere relazioni diplomatiche. Ad oggi, sono oltre 135 gli Stati che hanno riconosciuto lo “Stato di Palestina”. I due terzi dei paesi membri delle Nazioni Unite Ma tra questi non ci sono né gli Stati Uniti d’America. Né i paesi dell’Europa occidentale.
Riconoscere la Palestina come “Stato” significherebbe riconoscere i suoi diritti innegabili e inalienabili come nazione. E considerarla al pari dello Stato di Israele. E, forse, porre le condizioni per porre fine ad una guerra che va avanti da molti, troppi decenni. Una guerra della quale si parla solo a metà. La metà che conviene.