Nei giorni scorsi si è tornati a parlare del ponte sullo Stretto di Messina. Dopo le tante polemiche e criticità, il 16 aprile sono iniziati i lavori della Conferenza di Servizi per la realizzazione dell’opera. Alcune associazioni l’hanno definita “una falsa partenza e siamo già alla farsa”. E hanno aggiunto “il progetto definitivo del ponte sullo Stretto di Messina non sta in piedi, i Sindaci ne traggano le conseguenze”. Secondo gli ambientalisti e alcuni comitati civici, ci sarebbero anche i “pareri espressamente negativi dei Comuni di Villa San Giovanni e Messina e delle Città metropolitane interessate”. Per Italia Nostra, Kyoto Club, Legambiente, Lipu, Man e Wwf, Associazione “Invece del ponte” e “No Ponte Capo Peloro”, non sono bastati 21 anni di studi e progettazioni e 178 richieste di integrazione al cosiddetto “progetto definitivo 2024”. Non mancano i punti poco chiari. Il primo riguarda i materiali previsti per la realizzazione. Il progetto approvato è quello del 2011, ben 12 anni fa.
Secondo alcuni, una delle criticità sarebbe proprio la necessità di un aggiornamento dei materiali e delle tecnologie, ma anche delle modalità di costruzione da impiegare. Il punto è che nell’ultimo decennio la tecnologia ha fatto passi da gigante. Quindi utilizzare materiali obsoleti non avrebbe senso. E potrebbe comportare un aumento dei costi. Ma non basta. Secondo gli oppositori ci sarebbero anche problemi per l’ambiente e la biodiversità: l’area interessata dal Ponte sullo Stretto è ricca di biodiversità e di ecosistemi fragili. Sono almeno una decina le zone protette. La stessa costruzione del ponte (e poi il suo utilizzo) comporterebbe il rischio di dispersione di materiali pericolosi nelle acque dello Stretto di Messina. Intanto il Ministero dell’Ambiente non si è ancora espresso su tale argomento.
Il tempo per valutare le decine di modifiche al progetto richieste potrebbe non bastare. Non solo perché è limitato, ma anche perché il mandato della commissione che dovrebbe valutare il progetto scadrà proprio a metà di questo periodo. E finora non pare siano state comunicate proroghe.
Polemiche, quelle che riguardano il ponte, che vanno avanti da decenni: la legge che dava ad Anas, Ferrovie dello Stato e Cnr il compito di esaminare se la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina fosse un’opera fattibile risalirebbe addirittura al 1968, ma di unire la Sicilia al Continente si parla da millenni: addirittura dai tempi dei romani. Eppure, si è dovuto attendere fino al 2023 per vedere approvato il decreto-legge che prevede la realizzazione dell’opera che dovrebbe collegare Sicilia e Calabria. Secondo il Documento di Economia e Finanza approvato dal governo, i costi per la costruzione del ponte dovrebbero aggirarsi intorno ai 14,6 miliardi di euro, di cui 13,5 miliardi per la costruzione della struttura e 1,1 per i lavori ferroviari. Ma anche qui le polemiche non mancano: queste cifre sono aumentate di anno in anno e c’è chi pensa che – come spesso avviene per la realizzazione delle grandi opere – potrebbero lievitare in corso d’opera. E non si sa quanto.
Miliardi per realizzare, tra l’altro, il collegamento della linea ferrata. Una ferrovia che, in Sicilia versa in condizioni indicibili. A dirlo sono gli stessi numeri di Ferrovie dello Stato Sicilia (rfi.it). Dei 1.370 km di linee ferrate presenti in Sicilia, ben 570 NON sono nemmeno elettrificate: vale a dire che i treni che le percorrono sono ancora diesel. E ancora. In Sicilia, la linea a “doppio binario” è lunga solo 227 km: questo significa che quando due treni che procedono in direzione opposta si incontrano, uno dei due deve fermarsi in un punto prestabilito e far passare l’altro! Anche sui treni ci sarebbe molto da dire (e da fare). Ad esempio, i mezzi utilizzati in Sicilia sono mediamente molto più vecchi di quelli che girano nel resto d’Italia: secondo il rapporto Pendolaria di Legambiente, l’età media dei treni siciliani è di 19,3 anni contro un’età media nazionale poco superiore a 15 anni.
Qualcuno potrebbe dire che il ponte non dovrebbe servire solo per i treni, ma anche per le auto e, in generale, per il trasporto su gomma. Ma anche qui il discorso non cambia.
Ancora oggi, la Sicilia è coperta solamente in parte da una rete autostradale. Non tutti i capoluoghi di provincia sono raggiunti dall’autostrada (Ragusa ed Agrigento). Basta fare un giro per le autostrade siciliane per accorgersi che molti tratti versano in pessimo stato (manto stradale, vegetazione al bordo della carreggiata, segnaletica e altro). Altri tratti sono sottoposti a lavori di manutenzione che provocano restringimenti di corsia, deviazioni assurde e rallentamenti. Non sempre le corsie di emergenza sono utilizzabili e, in alcuni tratti, mancano le piazzole per la sosta di emergenza o i sistemi di comunicazione SOS. Ancora peggiore la situazione delle “altre” strade.
Una situazione che alla fine del 2022 ha portato Uniontrasporti e Unioncamere Sicilia a pubblicare un Libro Bianco sulle priorità infrastrutturali della Sicilia. Nel libro sono indicate molte delle criticità di strade, ferrovie, aeroporti e porti siciliani. Secondo il direttore di Uniontrasporti Antonello Fontanili, “Il Libro Bianco della Sicilia è un documento che mette nero su bianco esigenze e priorità infrastrutturali evidenziate dagli imprenditori siciliani”. Non un “libro dei sogni”. Ma la presa d’atto di una situazione che impedisce all’attività commerciale dell’Isola e all’export di decollare, condizionati come sono da reti stradali, ferroviarie e portuali spesso vecchie e poco funzionali. Dei 14.700 km di rete stradale siciliana si legge nel Libro Bianco – solo il 5 per cento rientra nella categoria “autostrada” e il 27 per cento rientra nella cosiddetta rete di “rilevanza nazionale”. Detto del trasporto su rotaia, Fontanili fa notare come “già nel 2020 i kpi [indicatore chiave di prestazione] di performance infrastrutturale che riguardavano la Sicilia mostravano un ranking medio basso. I nuovi kpi appena completati confermano valori ben al di sotto della media nazionale (81,2 il kpi regionale), con una performance logistica molto bassa (34,6) a cui fa da contraltare una performance portuale superiore alla media nazionale (137,8)”.
Dopo aver letto questi numeri, è naturale chiedersi come mai lo Stato (e la Regione) non hanno destinato i miliardi stanziati per il ponte sullo Stretto di Messina ad altre opere. Infrastrutture che avrebbero consentito, almeno in parte, di colmare il gap che separa questa regione dal resto d’Italia. La verità è che a separare la Sicilia dal continente non è il Mar Mediterraneo, non è lo Stretto di Messina. Sono decenni e decenni di cattiva gestione (basti pensare che già Sciascia, ne “il Giorno della Civetta”, parlava dei lavori stradali infiniti delle strade da Palermo ad Agrigento… era il 1960). In tutto questo tempo nessuno ha pensato di utilizzare i fondi nazionali e internazionali per costruire e ricostruire infrastrutture indispensabili per la crescita del territorio: strade, autostrade, linee ferrate, ma anche altro. Come gli acquedotti. Nelle scorse settimane, ad esempio, si è parlato della crisi idrica che sta colpendo la Sicilia: in 140 comuni siciliani già oggi l’acqua è razionata. Meglio non pensare cosa accadrà nei torridi mesi estivi. Eppure, anche questo problema non è una novità in Sicilia. Perché nessuno ha pensato a riparare gli acquedotti? Secondo gli ultimi dati, oltre il 40% dell’acqua si perde lungo il percorso. Solo pochi giorni fa la Regione ha nominato una task force di esperti, ma per vedere azioni concrete non si sa quanto tempo ci vorrà. C’è chi parla di dissalatori. Ma perché nessuno parla dei bacini di raccolta e della necessaria manutenzione ordinaria e straordinaria? Ad esempio, della necessità di rimuovere il limo sul fondo di fiumi e bacini di raccolta. O di riparare le dighe: delle 46 dighe presenti in Sicilia quasi la metà (il 40 per cento) è inutilizzabile perché incompiuta o danneggiata, o a causa dell’interramento. Eppure, sono i dati ufficiali forniti dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti.
Però, per realizzare queste opere non ci sono soldi. Per un’opera che non si sa ancora se servirà e quanto costerà realmente, invece, sono già state stanziate decine di miliardi di euro. Miliardi potrebbero non servire a rendere davvero la Sicilia parte dell’Italia (e dell’Europa). Ma solo come strumento politico da sbandierare.