A maggio, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (ICC), Karim Khan, ha richiesto ai giudici del tribunale dell’Aja di emettere mandati d’arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, per alcuni membri del suo staff – tr cui il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, come Netanyahu, accusato “aver causato lo sterminio, causato la fame come metodo di guerra, inclusa la negazione di aiuti umanitari, deliberatamente prendendo di mira i civili” – e per il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar. Per tutti l’accusa è pesantissima: crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Mandati d’arresto sono stati richiesti anche per Mohammed Deif, capo delle Brigate Ezzedin Al Qassam, e Ismail Haniyeh, leader dell’ufficio politico di Hamas. Insieme a Sinwar, sono accusati di sterminio, omicidio, presa di ostaggi, stupro e violenza sessuale durante la detenzione.
Una richiesta sorprendente per diversi motivi. Innanzitutto, perché pone un capo di stato sullo stesso piano di un terrorista. E, come se non bastasse, perché è l’ennesimo tassello di una serie di accuse mosse da organismi internazionali verso il governo israeliano. Come è facile prevedere questa notizia aveva scatenato la reazione dello Stato ebraico. Il ministro degli Esteri Israel Katz aveva commentato: “Mentre gli assassini e gli stupratori di Hamas commettono crimini contro l’umanità contro i nostri fratelli e sorelle, il pubblico ministero (della Corte penale internazionale) cita nello stesso momento il primo ministro e il ministro della difesa israeliano insieme ai vili mostri nazisti di Hamas, una vergogna storica che sarà ricordata per sempre”.
Ma la sorpresa più grande è arrivata da oltre oceano, dagli USA. Che il governo Biden fosse a favore di Israele non è una novità. Una presa di parte a ogni costo. Spesso anche fino ad apparire ridicolo: la scelta di porre il veto di fronte a votazioni quasi unanimi degli altri membri della Corte Suprema delle Nazioni Unite avevano portato molti a chiedersi se il meccanismo di voto non fosse ormai obsoleto e bisognoso di modifiche. Ora, però, si è andati oltre, fino alla vendetta personale verso chiunque ose parlare male del governo israeliano. Il 2 giugno la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un disegno di legge bipartisan per vietare impedire l’ingresso negli Stati Uniti dei giudici implicati nella sentenza contro Israele. Ma si è andati oltre, la misura votata dalla Camera vorrebbe bloccare anche ogni loro transazione finanziaria nel paese. Un attacco personale a membri di un organismo internazionale! Secondo alcune previsioni difficilmente questa proposta sarà approvata anche dal Senato. Ciò nonostante resta comunque un gesto grave e significativo. Tanto più che è avvenuta con un voto bipartisan: quasi tutti i repubblicani, tranne due, e circa un quinto dei democratici, a fronte di 155 voti contrari. “Gli Stati Uniti stanno fermamente con Israele e si rifiutano di permettere ai burocrati internazionali di emettere infondatamente mandati di arresto alla leadership israeliana per falsi crimini”, ha detto il presidente della Camera Mike Johnson, repubblicano, in una dichiarazione. Chissà come mai Johnson non ha usato gli stessi termini quando la Corte ha espresso il proprio giudizio nei confronti del presidente russo Putin.
Nella Striscia di Gaza l’invasione da parte degli israeliani sta raggiungendo ogni giorno che passa toni che rasentano il ridicolo. La scorsa settimana, il presidente USA Biden ha annunciato che Israele starebbe offrendo una nuova tabella di marcia verso una pace permanente, a partire da un cessate il fuoco completo di sei settimane. Dichiarazione immediatamente smentita non solo dalle bombe che continuano a cadere su Raja, ma anche dalle parole di Netanyahu, che ha insistito sul fatto che il suo paese continuerà la guerra fino a quando non raggiungerà tutti gli obiettivi che si era prefissato. Obiettivi che, ormai è palese, non sono la liberazione degli ostaggi e nemmeno la sconfitta di Hamas: il vero obiettivo è l’eliminazione dei palestinesi dalla Striscia.
Intanto, la scorsa settimana John F. Kirby, portavoce della sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha dichiarato ai giornalisti che la Casa Bianca non crede che imporre sanzioni alla corte e a coloro che la sostengono sia l’approccio giusto. “Ovviamente non crediamo che l’ICC abbia giurisdizione”, ha detto. “Ma certamente non sosteniamo questi mandati d’arresto, e l’abbiamo già detto in passato. Non crediamo, però, che sanzionare l’ICC sia la risposta”.
Tra ICC e Casa Bianca da anni i rapporti sono tutt’altro che idilliaci. Già, nel 2019, l’amministrazione Trump aveva revocato il visto statunitense del procuratore. E nel 2020, il governo degli Stati Uniti d’America aveva imposto sanzioni al procuratore della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, e a un altro alto funzionario dell’accusa, Phakiso Mochochoko e limitato il rilascio di visti per alcune persone senza nome “coinvolte negli sforzi della CPI per indagare sul personale statunitense”. In quel caso però la vicenda era personale: le sanzioni contro Bensouda e Mochochoko erano state emesse a seguito di un ordine esecutivo emesso l’11 giugno 2020 dal presidente Donald Trump. Anche nel 2020, l’ordine esecutivo 13928 aveva previsto “Il blocco delle proprietà di alcune persone associate alla Corte penale internazionale”. Anche in quel caso gli USA avevano commesso l’errore di dirigere su individui, e sui loro familiari, gli attacchi rivolti ad una istituzione. Ora ci riprovano. Per questo (e forse anche perché una simile decisione potrebbe avere un peso non indifferente sulle prossime elezioni presidenziali), poco prima dell’approvazione del disegno di legge, i funzionari della Casa Bianca hanno rilasciato una dichiarazione in cui affermavano che l’amministrazione “si oppone fortemente” alla misura. Ma non ha minacciato di porre il veto nel caso in cui dovesse essere approvata.