“Sembra impossibile trovare un qualsiasi aspetto della nostra vita che non sia stato influenzato dalla rivoluzione digitale […] Un numero crescente di persone vive sempre più diffusamente onlife. Il digitale “taglia e incolla” le nostre realtà. Questo ha completamente cambiato la natura dell’agire” con queste parole il Professore Luciano Floridi ha definito le nostre vite sempre più immerse nel mondo virtuale. Questa definizione è fondamentale per comprendere la nostra idea di relazioni nell’era dei social network, perché vivere nella dimensione on life, significa vivere tutti costantemente connessi. Il nostro vivere online ha cambiato il nostro modo di relazionarci con gli altri e ha generato un’ossessione per i “like”. In queste ultime settimane, si sta discutendo della cosiddetta “sindrome dell’anatra galleggiante”.
Il giornalista Aurelio Sanguineti ha scritto un articolo, pubblicato sul portale di informazione tech.everyeye.it, in cui ha spiegato cosa comporta la sindrome dell’anatra galleggiante. Un gruppo di psicologi ha cercato di capire il comportamento delle anatre. Un’anatra quando si trova in acqua sembra nuotare in maniera tranquilla, ma in realtà con le zampe compie un grosso sforzo per spostarsi. Un gruppo di psicologi, prendendo spunto dalle anatre, ha cercato di capire per quale motivi alcuni uomini cercano di non mostrare i loro sforzi o i loro fallimenti, pubblicando sui social solo i loro successi. Ormai, tutti carichiamo sui social le foto dei nostri momenti più belli e vogliamo farci vedere dagli altri sempre felici e soddisfatti.
Uno studio pubblicato su Evolutionary Human Sciences mostra le conseguenze di questo comportamento: “Un dato sempre più comune che si osserva nei moderni contesti lavorativi e scolastici è che gli individui si assumono troppi compiti e si impegnano senza ricompense adeguate”, scrivono gli autori della ricerca. “Un tale squilibrio di sforzi e ricompense porta a innumerevoli conseguenze negative, come esaurimento, ansia e malattie”. Siamo entrati nell’epoca della vetrinizzazione, dove è necessario a tutti i costi piacere agli altri e piacere agli altri sulle nostre piattaforme del cuore. In diverse occasioni, ho analizzato gli effetti della vetrinizzazione. Esporsi in vetrina significa portare la propria esistenza alla costruzione di un io iperfluido. In questo sistema si sviluppano relazioni ansiogene non più relazioni tra individui, ma relazione tra individuo e il suo pubblico.
Sui social tendiamo ad assumere modelli di identità predeterminati pur ritenendo di esprimere la nostra individualità, attuando una sorta di mimetizzazione, con la quale cerchiamo di assomigliare a questi ambienti on line e, così facendo, rinunciamo a noi stessi. Ecco che diamo vita ad un io performativo con il preciso scopo di ottenere il gradimento dei nostri follower. Abbiamo paura di essere giudicati dal pubblico che ci segue. Questo timore ha due conseguenze: le persone nascondono il loro impegno per aver raggiunto un traguardo importante e danno poco valore al risultato che hanno ottenuto con tanto impegno. Non mostrare le proprie difficoltà porta gli altri “a sottostimare a loro volta lo sforzo richiesto per raggiungere gli stessi obiettivi” e genera invidia e stress nelle persone e “le probabilità di cadere in depressione”.
Erol Akçay dell’Università della Pennsylvania, autore dello studio, ha dichiarato: “La vita moderna ci chiede costantemente di decidere come dividere il nostro tempo e la nostra energia tra i diversi ambiti della vita, tra cui scuola, lavoro, famiglia e tempo libero. Il modo in cui distribuiamo il nostro tempo e la nostra energia tra questi ambiti, quante attività diverse svolgiamo in ogni ambito e quali sono le ricompense che ne derivano, hanno effetti profondi sulla nostra salute mentale e fisica”. La “sindrome dell’anatra galleggiante” è cresciuta con l’avvento dei social. Sappiamo che sulle piattaforme virtuali è possibile postare foto ritoccate e video con effetti speciali “che rendono più visibili i successi ma non necessariamente i fallimenti o lo sforzo speso per raggiungere i successi” ha detto Akçay.
Dobbiamo interrogarci e chiederci chi stiamo diventando. Ci sono alcune parole chiave che meglio di altre ci fanno capire qual è la rotta che abbiamo intrapreso: vetrinizzazione, iper-connessione e polarizzazione. Attraversati da paure, spinti al consumismo, ci muoviamo quasi esclusivamente in funzione del confirmation-bias, ovvero vogliamo accanto chi ci dà conferme. La soluzione per risolvere questo problema è riuscire a dare il giusto valore ai propri risultati. La fatica va esternata Il rischio che si corre è anche quello di cadere in burnout. Certamente, le nostre fragilità vengono sottolineate ancora una volta dalla “sindrome dell’anatra galleggiante”.
Occorre anche ristabilire il limite tra individualismo e solitudine. Purtroppo, il prezzo dell’individualismo contemporaneo sembra quindi essere proprio la solitudine che banalmente potremmo definire come l’incapacità di un individuo di instaurare relazioni intime e affettive con altri. Ma è proprio attraverso la relazione con l’altro che siamo in grado di uscire da noi stessi e di annullare in parte la nostra coscienza per poi riconoscerci uguali, ma diversi, proprio grazie all’arricchimento dell’interazione. Un rapporto di comprensione e condivisione tanto individuale quanto collettivo, attraverso cui costruiamo la nostra storia personale e ci riconosciamo in qualcun altro per dare senso a noi stessi e alla nostra realtà; un’interazione che richiede tempo, impegno e non sempre risulta comoda o piacevole, perché comporta il mostrarsi agli altri senza recitare un copione prestabilito.