In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo.
Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome.
Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può piú mandare indietro.
(I Promessi Sposi, Capitolo XXXI)
Da Tucidide ad Artaud, da Manzoni a Borges, da Thomas Mann a Camus, il tema della pestilenza ha accompagnato la storia dell’Umanità, rivestendosi sempre di significati simbolici che contrapponevano alla catastrofe inevitabile la speranza di una palingenesi e il sorgere di una nuova era di sviluppo.
Prove generali di quel Giudizio Finale che ha sempre ispirato i massimi capolavori dell’arte universale e che trova nel Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis, una delle rappresentazioni più efficaci ed ammonitrici.
Si calcola che tra il 1347 e il 1353 la Peste nera uccise tra i 20 e i 25 milioni di persone, un terzo della popolazione europea dell’epoca. Furono cronisti danesi e svedesi a impiegare per primi il termine morte nera riferendolo al morbo, per sottolineare il terrore e le devastazioni di tale epidemia. Un inferno che già Dante Alighieri aveva profetizzato evocando la selva oscura e che Giovanni Boccaccio narrò da superstite testimone oculare.
La peste nera provocò un mutamento profondo nella società dell’Europa medievale. Dopo il 1348 non fu più possibile mantenere i modelli culturali del XIV secolo. Le gravissime perdite in vite umane causarono una ristrutturazione della società che, a lungo termine, avrebbe avuto effetti positivi. Attualizzando le teorie del demografo settecentesco Thomas Robert Malthus, lo storico statunitense David Herlihy nel 1985 ebbe a definire la peste “l’ora degli uomini nuovi”: il crollo demografico rese possibile ad una percentuale significativa della popolazione la disponibilità di terreni agricoli e di posti di lavoro remunerativi.
I terreni meno redditizi vennero abbandonati, il che, in alcune zone, comportò l’abbandono di interi villaggi. Le corporazioni ammisero nuovi membri, cui prima si negava l’iscrizione. I fitti agricoli crollarono, mentre le retribuzioni nelle città aumentarono sensibilmente. Per questo un gran numero di persone godette, dopo la peste, di un benessere che in precedenza era irraggiungibile.
L’aumento del costo della manodopera favorì un’accentuata meccanizzazione del lavoro. Così il tardo Medioevo divenne un’epoca di notevoli innovazioni tecniche. Ancora David Herlihy cita l’esempio della stampa. Fino a quando i compensi degli amanuensi erano rimasti bassi, la copia a mano era una soluzione soddisfacente per la riproduzione delle opere.
L’aumento del costo del lavoro diede il via a una serie di esperimenti che sfociarono nell’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Anche l’evoluzione della tecnica delle armi da fuoco, secondo lo storico, può essere ricondotta alla carenza di soldati.
La Chiesa, cui moltissime vittime dell’epidemia avevano lasciato in eredità i loro beni, uscì dalla peste nera più ricca, ma anche meno popolare di prima. Non era riuscita a dare una risposta soddisfacente al perché Dio avesse messo alla prova l’umanità in maniera tanto dura, né era riuscita ad essere vicina al proprio gregge, quando questo ne aveva maggior bisogno.
Il movimento dei flagellanti aveva messo in discussione l’autorità della Chiesa. Anche dopo che questo movimento tramontò, molti cercarono Dio in sette mistiche e in movimenti di riforma, che alla fine distrussero l’unità spirituale dei cristiani.
E’ ormai consolidata la tesi secondo la quale la peste nera causò la crisi delle concezioni medievali di uomo e di universo, scuotendo le certezze della fede che avevano dominato fino ad allora, e stabilendo un rapporto causale diretto tra la prima grande pandemia e il Rinascimento.
Si ritiene che lo stesso agente patogeno del 1348 sia stato poi responsabile delle periodiche epidemie scoppiate in Europa, con vari gradi di intensità e mortalità, ad ogni generazione fino al XVIII secolo. Tra queste, la terribile peste del 1630 attribuita al transito dei Lanzichenecchi nel Nord Italia ed immortalata da Alessandro Manzoni ne I Promessi sposi e la grande peste di Londra del 1665-1666, che si concluse proprio grazie al Grande Incendio che, pur devastandola, cauterizzò la città..
In epoche più recenti l’’influenza spagnola”, altrimenti conosciuta come la Grande Influenza, fu una gravissima sindrome che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo e fu descritta come la più grave forma di pandemia della storia dell’umanità poiché si calcola che sterminò più persone della terribile peste nera del XIV secolo e della stessa Grande Guerra.
La notizia fu inizialmente riportata soltanto dai giornali spagnoli. La Spagna non era coinvolta nella prima guerra mondiale e, a motivo di ciò, la sua stampa non era soggetta alla censura di guerra; negli altri paesi il violento diffondersi dell’influenza venne tenuto nascosto dai mezzi d’informazione, che tendevano a parlarne come di un’epidemia circoscritta alla Spagna. In realtà, il virus fu portato in Europa dalle truppe statunitensi che, a partire dall’aprile 1917, erano confluite in Francia per la Grande Guerra.
Il vibrione del colera, poi, non ha mai abbandonato l’Europa, manifestandosi dopo periodi di latenza in Italia a metà e alla fine dell’ottocento e più recentemente nel 1973 in quella stessa Napoli dove nel 1837 Giacomo Leopardi ne aveva subito, giovanissimo, gli effetti letali.
Di quello stesso virus Thomas Mann descrisse gli effetti, fisici e simbolici, sul protagonista di Morte a Venezia, dando a Luchino Visconti lo spunto per uno dei massimi capolavori della cinematografia mondiale.
Dagli anni 80 del 900 e sino ad pochi mesi fa, i terribili ricordi delle pestilenze del passato erano stati quasi rimossi dagli effetti globalizzati della sindrome dell’ AIDS – non a caso chiamata la peste del XX secolo – i cui rischi vennero a lungo sottovalutati a causa dell’errato convincimento che essa colpisse solo gli omosessuali, confinando gli stessi in un’ulteriore zona di discriminazione, quasi che l’infezione fosse una sorta di castigo divino per la loro condizione.
E’ ormai palese, invece, come proprio in quegli anni il forte desiderio di uscire da una condizione di ennesima ghettizzazione, abbia dato origine legittimamente a quell’ orgoglio gay che ha influenzato la società contemporanea.
Oggi l’allarme coronavirus in Cina rievoca paure ataviche e segnala ancora una volta quanto l’antico vizio del Potere di minimizzare i rischi delle epidemia ne rappresenti in realtà una delle cause della diffusione, intervenendo, come la storia ha dimostrato, con ritardi e pregiudizi che continuano a caratterizzare anche le società più avanzate.
Il paese più vasto del mondo sembra pagare al “demone” evocato da Xi Jinping la libbra di carne dovuta ad uno sviluppo senz’anima, alla repressione della libera informazione e del dissenso, a quell’impossibile transizione, ammantata di economia malata, tra una dittatura comunista e una democrazia moderna. Le conseguenze economiche, sociali, culturali ed esistenziali per la restante parte dell’Umanità saranno, in ogni caso, drammatiche.
Come nel mito del vaso di Pandora, nonostante le deboli rassicurazioni, tutti i governi del mondo sanno benissimo che la proporzioni della nuova e terribile pandemia che si è ormai sprigionata saranno colossali a motivo dei grandi flussi migratori, legali o clandestini da e per ogni zona geografica, della lunga incubazione della malattia e della distanza siderale che ancora oggi separa la ricerca scientifica dall’individuazione a breve di vaccini efficaci e soprattutto dell’impossibilità di presidiare contemporaneamente tutti gli scali e i confini del pianeta.
Mentre sembrano profilarsi nella cruda realtà gli scenari apocalittici che Hollywood ha per anni abituato a considerare solo incubi da cui l’inevitabile happy end nel volgere di un paio d’ore avrebbe liberato, è lecito interrogarsi in queste ore quale nuova Umanità sarà il frutto amaro che, comunque, germoglierà dopo il passaggio dei quattro cavalieri dell’Apocalisse – guerra, carestia, pestilenza e morte – che accompagnano silenziosamente da sempre il mondo, ma il cui improvviso galoppo periodicamente costringe la condizione umana a ripensare se stessa ed a rinascere, dopo l’inevitabile travaglio, ad una vita nuova e, forse, più giusta per tutti.